Onorevoli Colleghi!

Premessa generale.

      Questa premessa si articola come segue:

          la prima parte dedicata alla distribuzione dell'articolato nei suoi vari titoli e capi;

          la seconda indica il testo di legge proposto come un nuovo ordinamento penitenziario e non come sola modifica della legge penitenziaria vigente 26 luglio 1975, n. 354;

          la terza sintetizza gli aspetti di fondo dell'intervento che si propone e la stretta connessione dello stesso con altri interventi, dei quali si auspica la contemporanea attuazione.

La distribuzione dell'articolato.

      Si opera una nuova distribuzione della normativa.
      Intanto, si segnalano gli spostamenti operati nell'ambito del titolo I, sul quale si sofferma la parte iniziale della relazione.
      La norma dell'articolo 4-bis viene spostata (e modificata) nella parte relativa alle misure alternative, cui d'altronde si riferisce.
      La normativa sulla sorveglianza particolare di cui agli articoli 14-bis, 14-ter e 14-quater viene spostata in un apposito titolo III, dedicato alla organizzazione penitenziaria e, in particolare, nel capo III di tale titolo, ai regimi differenziati attuati negli istituti penitenziari.
      Stessa sorte per l'articolo 41-bis, sia nel comma 1, sia nei commi 2 e seguenti, collocato sempre nel capo III del titolo III.

 

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      Il capo V del titolo I è spostato inoltre nel nuovo titolo IV, dedicato al «reinserimento sociale».
      Infine, il capo VI, che riguarda le misure alternative, è tolto dal titolo I, che riguarda il trattamento penitenziario, e diviene il capo I dell'autonomo titolo II, che comprende anche, al capo II, le norme relative alla esecuzione delle pene diverse da quella detentiva e degli altri trattamenti penali, nonché, al capo III, le norme relative alla magistratura di sorveglianza. In particolare, si è ritenuto che le misure alternative e la magistratura di sorveglianza siano impropriamente collocate oggi nel titolo II, denominato «Disposizioni relative alla organizzazione penitenziaria».
      Alla organizzazione penitenziaria è invece dedicato il titolo III, con un primo gruppo di tre capi, dedicati agli istituti, alla distribuzione dei reclusi negli stessi e ai trattamenti differenziati; con un secondo gruppo di capi, dedicato al personale penitenziario o comunque legato alla esecuzione penale.
      Il titolo IV riguarda il reinserimento sociale ed è articolato in tre capi.
      Il titolo V, infine, senza articolazione in capi, concerne le disposizioni transitorie e finali, nonché le indicazioni essenziali sulla copertura finanziaria.
      Lo schema complessivo della proposta di legge diviene, quindi, il seguente:

          Titolo I - Trattamento penitenziario e diritti dei detenuti e degli internati.

          Capo I - Princìpi direttivi.

          Capo II - Condizioni generali.

          Capo III - Modalità del trattamento.

          Capo IV - Regime penitenziario.

          Titolo II - Misure alternative alla detenzione, esecuzione di altri trattamenti sanzionatori penali e magistratura di sorveglianza.

          Capo I - Misure alternative alla detenzione.

          Capo II - Esecuzione di trattamenti penali diversi dalla pena detentiva.

          Capo III - Magistratura di sorveglianza.

          Titolo III - Organizzazione penitenziaria.

          Capo I - Istituti penitenziari.

          Capo II - Differenziazione degli istituti.

          Capo III - Regimi penitenziari differenziati.

          Capo IV - Personale operante negli istituti.

          Capo V - Personale dei centri di servizio sociale per adulti.

          Capo VI - Livelli superiori della organizzazione penitenziaria e formazione del personale.

          Capo VII - Assistenti volontari e cooperazione sociale.

          Titolo IV - Reinserimento sociale.

          Capo I - Interventi individualizzati per il reinserimento sociale.

          Capo II - Interventi collettivi relativi a gruppi di persone in condizioni particolari.

          Capo III - Individuazione dei progetti e luoghi di detenzione.

          Titolo V - Disposizioni finali e transitorie.

L'articolato come nuovo ordinamento penitenziario, non a modifica, ma in sostituzione della legge 26 luglio 1975, n. 354.

      Sembra inevitabile ritenere che la proposta di legge avanzata configura un nuovo ordinamento penitenziario.
      Si possono fare in proposito alcune rilevazioni significative.

 

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      La prima: un dato quantitativo. Gli articoli del testo vigente, subordinati compresi (23) e calcolati i soppressi (4), sono 109. Il nuovo testo conta 176 articoli, 67 in più.
      La seconda fa riferimento ad un esame più analitico e può essere condotta su due livelli di comparazione fra testo vigente e nuovo testo proposto:

          il primo è quello dei titoli e dei capi;

          il secondo è quello degli articoli.

      Con riferimento al primo livello, si può dire che:

          il primo titolo del nuovo testo segue l'ordine del testo vigente, ma i capi sono ridotti da 6 a 4;

          il secondo titolo del nuovo testo ha ancora una parentela con il testo vigente, anche se realizza una nuova collocazione di capi preesistenti: il capo I nuovo era il capo VI del titolo I vigente; il capo II è nuovo totalmente e senza alcun rapporto con il vigente; il capo III era il capo II del vigente titolo II;

          il titolo III del nuovo testo recupera solo un capo, il I, del titolo II del vigente testo, ma gli altri sei capi del nuovo testo sono del tutto nuovi, ad eccezione del capo III, che recupera e modifica norme sparse nel testo vigente, in parte con modifiche significative;

          il titolo IV del nuovo testo è totalmente nuovo;

          il titolo V del nuovo testo aveva un precedente nel testo vigente, il capo IV del titolo II, relativo a «Disposizioni finali e transitorie», ma i contenuti sono diversissimi.

      Veniamo ad un esame più analitico, quello del confronto fra vecchio e nuovo testo a livello degli articoli.
      È chiaro che la comparazione può essere fatta solo per quelle parti del nuovo testo che fanno riferimento al testo vigente e che sono, quindi, una parte soltanto, importante, ma una parte, del nuovo progetto di legge. Per questa parte, però, è significativo rilevare il lavoro di modifica e di trasformazione, quando più, quando meno radicale.
      Nel titolo I del nuovo testo, che riprende il vigente, su 56 articoli del nuovo testo non sono modificati 5 articoli del testo vigente; quindi, 51 sono stati modificati.

          Nel titolo II del nuovo testo, si deve distinguere fra i tre capi:

              il capo I, sulle misure alternative, conta 32 articoli: modificati 25, non modificati 7;

              il capo II, sulla esecuzione di sanzioni diverse da quelle detentive, è totalmente nuovo;

              il capo III, sulla magistratura di sorveglianza, mantiene immutato un solo articolo, ne modifica 5 e ne aggiunge ex novo 3.

      Nel titolo III, anche qui si deve distinguere tra i capi, due soli dei quali hanno parentela con il testo vigente: il I e il III.

          Capo I: dei nove articoli del testo vigente, 3 sono soppressi, 5 modificati, 1 aggiunto ex novo, non modificato un articolo.

          Capo II, sulla differenziazione negli istituti: tutto nuovo.

          Capo III, sui regimi penitenziari differenziati: sui sette articoli, 5 modificati e due no.

          Capi IV, V, VI, VII, tutti sul personale: degli istituti, dei centri di servizio sociale per adulti, del dipartimento della amministrazione penitenziaria e del provveditorato regionale della amministrazione penitenziaria, sui volontari e sulla cooperazione sociale: tutti gli articoli sono nuovi. Solo nel capo VII, negli articoli 150 e 151 sugli assistenti volontari, compaiono parti del vigente articolo 78.

      Il titolo IV è totalmente nuovo.

      Totalmente nuovo è il titolo V.

 

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      Si tratta di dati decisivi: siamo in presenza di un progetto del tutto nuovo di ordinamento penitenziario e si procede, pertanto, alla denominazione della proposta di legge in tale senso.

Le linee di fondo della presente proposta di legge e la esigenza di altri interventi legislativi in connessione.

      Questa proposta di legge raccoglie il frutto delle tante esperienze in materia penitenziaria, vissute dagli operatori dei vari settori interessati. Si tratta, in sostanza, di riportare al centro della elaborazione le indicazioni costituzionali sulla legalità e sulla finalizzazione della pena, quali ci sono consegnate dal terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione.
      Su tali basi, il titolo I riconosce una serie di diritti dei detenuti e degli internati che definiscono gli istituti penitenziari come la sede del recupero di risorse e di relazioni proiettate verso la costruzione di un adeguato inserimento sociale dei detenuti e degli internati.
      Il titolo II è destinato a un rilancio dell'efficacia delle misure alternative alla detenzione, individuate come una modalità ordinaria per la finalizzazione riabilitativa della esecuzione penale. In questo quadro, viene riservata una particolare attenzione alla magistratura di sorveglianza.
      Il titolo III, in attuazione di quanto previsto nei titoli precedenti, è rivolto ad una riorganizzazione della istituzione penitenziaria, con riferimento sia agli istituti che all'area penale esterna, nonché del personale operante negli uni e nell'altra. In questo titolo si regola anche la distribuzione dei reclusi negli istituti e la diversificazione delle risposte da dare nelle diverse situazioni.
      Il titolo IV è dedicato specificamente alla individuazione, attivazione, realizzazione dei percorsi di reinserimento sociale. E questo tanto sul piano individuale, quanto su quello dei gruppi di reclusi svantaggiati, che hanno particolare bisogno di risorse e di risposte sul piano sociale piuttosto che su quello repressivo.
      È indubbio, infatti, che il quadro generale entro il quale questa proposta di legge si muove cerca di rispondere alla preoccupazione sul progressivo e, parrebbe, inarrestabile allargarsi dell'area della penalità, con inevitabili conseguenze sull'area del carcere, il cui sovraffollamento rende gli istituti sempre meno gestibili e sempre più incompatibili con le indicazioni costituzionali. Si noti che ciò avviene in presenza di un andamento costante e stabile della criminalità da vari anni, con qualche momento di crescita, ma anche con un andamento di diminuzione per lunghi periodi.
      La crescita della penalità è sostanzialmente concentrata su quella che può essere chiamata l'area della detenzione sociale, comprendente in buona parte tossicodipendenti, alcooldipendenti, immigrati, persone che presentano problemi psichici o di abbandono sociale: un'area, questa, che interessa circa i due terzi dei reclusi, cioè la netta maggioranza. Per questa area, il carcere rappresenta spesso una non-risposta e allo stesso dovrebbero essere preferiti interventi sociali, sia in prevenzione, così da impedire il conflitto con la norma penale, sia nella stessa risposta penale, che più utilmente potrebbe attuarsi con programmi di recupero in alternativa alla detenzione. Questa diffusività della penalizzazione determina o deriva e, comunque, si accompagna ad un impoverimento dei processi di sostegno sociale alle situazioni critiche, che sono stati a lungo una delle preoccupazioni dei sistemi pubblici. Il complessivo fenomeno di cui si parla è stato descritto come il passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, con l'imporsi dell'intervento penale quale strumento operativo di intervento sociale, realizzato attraverso la esclusione dalla società e la detenzione in carcere dell'area del disagio e della precarietà. Nell'indicare come necessario e possibile il fermare questo processo, si deve essere consapevoli che la resa allo stesso renderà impossibile quella costituzionalizzazione della esecuzione della pena e della istituzione penitenziaria che questa proposta di legge vuole realizzare: un carcere sempre in crescita e destinato al permanente sovraffollamento

 

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è un carcere destinato comunque alla ingestibilità, certamente non ad una gestione costituzionale.
      Queste indicazioni sintetiche saranno sviluppate nel seguito di questa relazione, specialmente nella parte dedicata al titolo IV. Ma le si accennano sin d'ora perché le stesse richiamano l'attenzione sulla necessità della rivisitazione di altre parti del sistema normativo che condizionano la crescente ampiezza della attuale area della esecuzione penale.
      È sicuramente rilevante un intervento sulla legislazione relativa agli stupefacenti, che ricade con pene generalmente elevate sulle persone tossicodipendenti.
      Altrettanto rilevante è un riesame della normativa sulla immigrazione, che parta dalla analisi di questo fenomeno tipico del mondo sviluppato e che non cerchi di esorcizzarlo, ma di riconoscerlo e di governarlo realmente, rispettoso delle persone che si rivelano come risorse del nostro sistema sociale ed economico e che non possono essere trattate come un pericolo da cui difendersi.
      Ancora utile è affrontare il problema della sopravvivenza delle misure di sicurezza. Di queste, secondo i vari progetti di revisione del codice penale, è destinata a rimanere solo quella dell'ospedale psichiatrico giudiziario o altra corrispondente. Nella penultima legislatura furono avanzati progetti di legge in proposito, dai quali si potrebbe ripartire.
      Infine, nel mentre si ridisegna l'ordinamento penitenziario per gli adulti, si deve ricordare che resta all'ordine del giorno, addirittura dalla entrata in vigore della stessa legge n. 354 del 1975 (articolo 79), la definizione dell'ordinamento penitenziario minorile. Anche per questo esiste un progetto di legge, presentato nella penultima legislatura, che potrebbe essere confermato o dal quale, comunque, si potrebbe ripartire.
      La presente proposta di legge presuppone, pertanto, una scelta in una serie di settori, comunque strettamente connessi a quello che ne rappresenta lo specifico oggetto. La complessiva rielaborazione legislativa rappresenta, però, la risposta effettiva e completa alle indicazioni costituzionali in materia.
      Si può chiudere questa premessa ricordando un aspetto che sarà meglio chiarito nella parte di questa relazione dedicata al titolo V della proposta di legge. La relazione che segue si diffonde sulle ragioni di merito della proposta di legge, che si sintetizzano nella esigenza della conformità costituzionale della normativa in materia. Ma vi si possono aggiungere ragioni di economia, di controllo e di gestione della spesa. Infatti, è fuori dubbio che la dinamica di crescita della detenzione carceraria porta al formarsi di una spirale di crescita della spesa, che non si sa dove si fermerà: forse molto lontano, forse mai. L'esempio degli Stati Uniti toglie ogni dubbio. È pacifico, quindi, che la scelta generale alla base di questa proposta di legge è quella del contenimento e della riduzione dell'area penale e, comunque, della crescita delle sicuramente più economiche misure alternative alla pena detentiva (ove si debba arrivare alla inflizione della stessa) ed è quindi una scelta di reale ed efficace impegno sociale e anche una scelta di minore impegno economico, raccomandabile, pertanto, anche sotto questo aspetto: si rompe la spirale di crescita del sistema e del suo costo e si innesca, al contrario, il circolo virtuoso della riduzione del sistema e del ricorso, comunque, a strumenti meno costosi di esecuzione al di fuori dell'internamento.

Parte prima. Relazione sul titolo I.

Indicazioni generali.

A. I diritti dei detenuti e degli internati.

      La ragione di fondo delle modifiche che seguono consiste nel dare garanzia di riconoscimento agli interessati, e cioè ai detenuti e agli internati, del rispetto delle regole enunciate dalla legge penitenziaria. Tali regole sono, in sostanza, stabilite come obblighi nei confronti della amministrazione penitenziaria, ma toccano interessi essenziali delle persone accolte

 

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nelle strutture penitenziarie, interessi da considerare vitali per gli interessati e come tali da richiedere una garanzia diretta degli stessi nei confronti della istituzione che li accoglie e dalla quale dipendono le condizioni concrete e reali della loro vita quotidiana.
      Buona parte di tali diritti trovano nella Costituzione il loro riconoscimento esplicito o implicito.
      L'articolo 32 della Costituzione contiene il riconoscimento del diritto alla salute e comporta una nuova articolazione normativa degli interventi che lo garantiscono. Anche il diritto alla istruzione - articolo 34 della Costituzione - va riconosciuto e va reso praticabile attraverso la presenza negli istituti della rete organizzativa della istruzione pubblica.
      Quando, nel terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione, si stabilisce che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» si richiede inevitabilmente che il regime di vita attuato negli istituti non realizzi alcun danno psico-fisico sulle persone, negando loro, pure nella perdita della libertà di spostamento dall'ambito dell'istituto di detenzione, la possibilità di movimento e di vita attiva in quell'ambito. Dal che deriva che devono essere evitate le situazioni di sovraffollamento degli istituti (considerate come maltrattamenti nelle valutazioni del Comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti contrari al senso di umanità e degradanti del Consiglio d'Europa); che deve essere reso possibile che la vita quotidiana delle persone si sviluppi fra locali di pernottamento e locali comuni in cui svolgere le varie attività che impegnino la giornata; che tali locali devono rispondere ad adeguati criteri igienici; che deve essere fornita una alimentazione adeguata e sufficiente e che, in genere, devono essere realizzate condizioni di vita che possono evitare il danno da istituzionalizzazione, che colpisce coloro che sono costretti ad una vita inerte e coartata come quella dei detenuti e degli internati. Dal comma terzo dell'articolo 27 della Costituzione deriva anche l'altro diritto alla finalizzazione della pena alla rieducazione-risocializzazione, cui si rifanno moltissime sentenze costituzionali, la prima delle quali è la n. 204 del 1974, diritto riconosciuto anche nelle situazioni detentive di maggiore rigore, come nelle sentenze in materia di articolo 41-bis della legge n. 354 del 1975: si vedano per tutte le sentenze n. 351 del 1996 e n. 376 del 1997.
      È espressione del diritto ora rilevato il riconoscimento del diritto alla attività di rieducazione-risocializzazione: attraverso la concreta messa a disposizione degli elementi del trattamento (lavoro, istruzione, attività religiose, attività culturali, ricreative e sportive, rapporti con la famiglia) di cui all'articolo 15 della legge n. 354 del 1975, dando l'occasione agli interessati di impegnarsi nella utilizzazione di tali elementi.
      In questo quadro, si possono ricordare gli interventi sul regime retributivo del lavoro e sul problema della affettività nei rapporti con i familiari, entro il quale può trovare soluzione anche il problema della sessualità delle persone ristrette.

B. Il contrasto al sovraffollamento.

      Merita soffermarsi sinteticamente sugli interventi normativi proposti per evitare il sovraffollamento degli istituti, anche se la sede della riflessione specifica sarà quella relativa al titolo IV, cui è dedicata una parte molto estesa di questa relazione. Ciò che deve essere chiaro sin d'ora è che tali interventi non si devono realizzare con un incremento degli spazi della detenzione, cioè con la creazione di nuove carceri. Mentre è pacifico che vadano abbandonate e sostituite quelle carceri, in numero modesto, che sono irrecuperabili, e che vadano recuperate, invece, attraverso interventi adeguati alle regole, le carceri che sono recuperabili, deve essere chiaro che devono cessare i processi di ricarcerazione, cioè di estensione dell'internamento, attualmente in atto.
      Deve essere data concreta attuazione al principio che la pena detentiva e, quindi, il carcere devono essere l'extrema ratio, in particolare per l'area della detenzione sociale, di quella parte della popolazione detenuta, cioè, nella cui esperienza di vita

 

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è centrale un problema sociale, non affrontato affatto o non affrontato in modo adeguato. Negato con fermezza che il carcere possa essere una discarica sociale e, quindi, il luogo di contenimento di persone per le quali sono mancate o sono fallite le soluzioni sociali, devono essere mobilitate e agite più efficacemente le risorse necessarie perché quelle soluzioni ci siano e abbiano maggiore successo. L'area della detenzione sociale (tossicodipendenti, immigrati, persone in altre situazioni di disagio sociale) è pari a circa i due terzi dei detenuti (si può calcolare nel 65-67 per cento: 27 per cento tossicodipendenti, 30 per cento immigrati, 8-10 per cento altre situazioni di disagio) e anche la sola riduzione di tale percentuale in misura significativa può invertire il processo di ricarcerazione in atto negli ultimi anni.
      Nella serie di interventi normativi che si propongono, che coprono gli aspetti fondamentali della politica penitenziaria, deve avere spazio un progetto che attivi un processo di scarcerazione significativa della detenzione sociale. È ovviamente un processo che si sviluppa con una adeguata progettazione sociale, che sostituisca gli interventi puramente securitari con interventi di miglioramento e bonifica delle situazioni sociali, realizzati sul piano collettivo e su quello individuale, misurati sugli specifici problemi sociali, che influiscono sul formarsi dell'area della detenzione sociale: di questo ci si interesserà essenzialmente, come già si è detto, nel titolo IV di questa proposta di legge, dedicato al reinserimento sociale dei detenuti e degli internati.
      Non sono, quindi, le carceri che sono poche, ma sono i detenuti che sono troppi e non bisogna agire per aumentare i posti-detenuto, ma per trovare, anziché il carcere, luoghi sociali per affrontare i problemi del disagio sociale.

C. La garanzia dei diritti: il reclamo al magistrato di sorveglianza.

      La Corte costituzionale, con la sentenza 8-11 febbraio 1999, n. 26, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 35 della legge n. 354 del 1975 nella parte in cui non prevede una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale. La Corte, che ha fatto esplicito riferimento alla competenza del magistrato di sorveglianza in materia di reclami di cui al numero 2) dell'articolo 35, ha chiarito che la tutela giurisdizionale in questione doveva essere definita con legge ordinaria, non potendo apparire estensibile senza legislazione ad hoc una delle procedure previste dinanzi alla magistratura di sorveglianza.
      Si è così inserita una serie di disposizioni che attuano la garanzia giurisdizionale, in osservanza di quanto affermato dalla Corte costituzionale.
      Nello stesso tempo, la esplicitazione formale dei diritti, anche se non esaustiva, rappresenta una precondizione per il funzionamento, in situazioni di chiarezza e di effettività, della nuova procedura di garanzia. Si è detto che la elencazione dei diritti non è esaustiva. Da un lato, è vero che un approfondimento delle situazioni esistenti o l'emergere di nuove situazioni può imporre il riconoscimento di nuovi diritti o la constatazione di violazioni che non erano state poste precedentemente in evidenza. D'altro lato, vi sono una articolazione e una ricaduta dei diritti, che comportano riconoscimenti di situazioni strettamente collegate agli stessi. E, infine, è della massima rilevanza che il riconoscimento dei diritti, per non essere pura astrazione, presupponga una organizzazione che ne possa consentire il rispetto: organizzazione indispensabile, ma non agevole in una istituzione con le caratteristiche del carcere, nel quale la negazione dei diritti o delle precondizioni organizzative e operative degli stessi può rispuntare ad ogni passo.
      A questo riguardo, una materia quale quella del diritto alla rieducazione-risocializzazione potrà vedere sorgere situazioni di violazioni del riconoscimento dei diritti nei luoghi normativi più impensati. Ad

 

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esempio, per tale diritto, abbiamo analisi approfondite della Corte costituzionale in materia di misure alternative alla detenzione, ma anche in materia di applicazione di regimi differenziati come quello di cui all'articolo 41-bis, commi 2 e seguenti, della legge n. 354 del 1975.

D. Il diritto alla salute.

      Si ritiene utile dedicare una parte specifica di questa relazione all'inquadramento della parte del progetto di legge relativa al riconoscimento del diritto alla salute e alla organizzazione della assistenza sanitaria in carcere. Merita tale approfondimento la delicata situazione giuridica attuale, che dovrebbe vedere il passaggio della cosiddetta «sanità penitenziaria» nel Servizio sanitario nazionale e che è invece tuttora lontana (dopo vari anni dalla entrata in vigore della legge n. 354 del 1975) dal realizzarlo, nel mentre si riducono ai minimi termini le risorse riservate alla sanità penitenziaria dalla amministrazione centrale (tanto è che alcune regioni si sono assunte l'onere della spesa farmaceutica, che, cosa estremamente grave, non viene coperta che molto parzialmente dalla amministrazione penitenziaria).
      Si chiarisce preliminarmente che le indicazioni normative proposte descrivono, per così dire, un progetto-obbiettivo sulla attuazione del diritto alla salute e sulla organizzazione sanitaria negli istituti penitenziari, che possa essere utilizzato sia nel periodo in cui l'organizzazione sanitaria resta quella attuale, sia quando sarà realizzato il passaggio della stessa al Servizio sanitario nazionale.
      Vale operare una ricognizione normativa di tale questione.
      L'articolo 11 della legge n. 354 del 1975 vigente prevede e regola il servizio sanitario negli istituti. Tale norma, contenuta nel testo di legge del 1975, precede di qualche anno la legge di riforma sanitaria, che è la n. 833 del 1978. Questa istituiva il Servizio sanitario nazionale, articolato nei servizi operativi locali, valevole nei confronti di tutti, salvo rarissime eccezioni, fra le quali non era compreso il servizio sanitario penitenziario. Tale servizio avrebbe dovuto, quindi, confluire nel Servizio sanitario nazionale, ma così non avvenne e, in particolare, le risorse economiche necessarie furono sempre lasciate nel bilancio del Ministero della giustizia.
      Le indicazioni dell'articolo 11 citato sono abbastanza generiche sul sistema organizzativo, che si è venuto determinando negli anni, condizionato, prima, in una fase di evoluzione e, poi, in una fase di involuzione, dal volume delle risorse. La fase attuale sta toccando i minimi termini, caratterizzata da continui tagli percentuali delle risorse economiche, con drastici tagli della spesa farmaceutica, concernente anche farmaci essenziali quoad vitam.
      La situazione normativa è ora notevolmente mutata. Nel cercare di precisarla, premettiamo la citazione dell'articolo 32 della Costituzione, sul quale si fonda la nostra legislazione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Si rileva come l'accento della norma costituzionale è posto sul diritto alla salute, non sulle cure sanitarie per i malati. Deve essere, pertanto, tutelata una condizione degli individui che tenda a garantire condizioni di vita non patogene e, comunque, solo quando si manifestano situazioni patologiche, gli interventi necessari a curarle.
      Cerchiamo, dunque, di individuare la situazione normativa attuale.
      Mentre si parla usualmente del decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, bisogna in effetti risalire alla legge delega 30 novembre 1998, n. 419, in esecuzione della quale il decreto legislativo citato è stato emanato. È infatti nella legge delega che si trova la norma - articolo 5 - in qualche modo responsabile della situazione di stallo attuale. In tale articolo si legge: «Il Governo è delegato ad emanare, entro sei mesi dalla entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi di riordino della medicina penitenziaria, con l'osservanza dei seguenti princìpi e criteri direttivi:

          a) prevedere specifiche modalità per garantire il diritto alla salute delle persone

 

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detenute o internate mediante forme progressive di inserimento, con opportune sperimentazioni di modelli organizzativi anche eventualmente differenziati in relazione alle esigenze ed alle realtà del territorio, all'interno del Servizio sanitario nazionale, di personale e di strutture sanitarie dell'amministrazione penitenziaria  (...)».

      Segue la indicazione di altri princìpi e criteri, ma è quello riportato che ci interessa ed è in questa parte che si trova il nodo della questione che ha provocato lo stallo attuale.
      Alla legge delega è seguito, dunque, il decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, che regola la materia del passaggio della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Vi è, all'articolo 1, la indicazione dettagliata del diritto alla salute e del significato e delle implicazioni dello stesso. All'articolo 2 si enunciano i princìpi cui si devono attenere gli enti e gli organi coinvolti. All'articolo 3 si chiariscono le competenze organizzative in materia sanitaria e, all'articolo 4, quelle in materia di sicurezza. L'articolo 5 definisce anche le linee del «progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario». All'articolo 6 sono date indicazioni operative sulla identificazione del personale e delle strutture da trasferire al Servizio sanitario nazionale e, all'articolo 7, quelle per il trasferimento delle risorse finanziarie al Fondo sanitario nazionale.
      È all'articolo 8 - in materia di trasferimento delle funzioni e fase sperimentale - che riemerge il problema sul quale si è sostanzialmente bloccato il passaggio. Dopo avere disposto il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle «funzioni sanitarie svolte dalla amministrazione penitenziaria con riferimento ai soli settori della prevenzione e dell'assistenza ai detenuti e agli internati tossicodipendenti», il comma 2 di tale articolo dispone che, «con decreto del Ministro della sanità e del Ministro di grazia e giustizia(...) sono individuate almeno tre regioni nelle quali avviare il graduale trasferimento, in forma sperimentale, delle restanti funzioni sanitarie»: tutte le altre, cioè, diverse da quelle relative ai tossicodipendenti.
      La sperimentazione è stata avviata, ma senza risultati concreti di effettiva modifica della situazione, che è rimasta eguale a quella preesistente, salvo nella parte relativa ai tossicodipendenti, nella quale, d'altronde, non si è fatto che ripetere l'attribuzione di competenza contenuta nell'articolo 96, comma 3, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990. Come già rilevato, le risorse messe a disposizione del Servizio sanitario nazionale da parte del dipartimento della amministrazione penitenziaria si riducono sempre di più e in misura rilevante, così che, in alcune regioni, la spesa farmaceutica è stata assunta dalle regioni stesse.
      Ciò che viene naturale osservare è che le regole stabilite dal citato decreto legislativo n. 230 del 1999 sembrano del tutto esaurienti per consentire il passaggio del servizio sanitario penitenziario a quello nazionale. La definizione dei modelli organizzativi è ricavabile dal progetto obiettivo di cui all'articolo 5, che, ad ogni buon conto, non sembra affatto rigido e consente quegli accomodamenti che la concreta esperienza consiglia. Certamente, il problema della previsione normativa della sperimentazione resta da risolvere.
      Ma, per esaurire il contesto normativo, si deve riflettere su un'altra modifica legislativa intervenuta, ai sensi della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3: è quella dell'articolo 117 della Costituzione. Per effetto del terzo comma la «tutela della salute» viene inserita fra «le materie di legislazione concorrente» fra Stato e regioni. Alla fine del medesimo terzo comma si dispone che «nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che, per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato».
      Ora si devono fare due osservazioni:

          la prima è che, nella materia, i princìpi fondamentali sono stati chiariti in modo incontestabile, in prima battuta, dall'articolo 5 della legge delega n. 419 del

 

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1998, e, in modo più articolato e dettagliato, dall'articolo 1 del decreto legislativo n. 230 del 1999, che enuncia il diritto alla salute di detenuti e internati e le varie implicazioni dello stesso. D'altronde, queste enunciazioni della legislazione statale si muovono nell'ambito dell'articolo 32 della Costituzione e del diritto alla tutela della salute degli individui riconosciuto in tale norma;

          la seconda osservazione è che la sperimentazione è richiesta per la definizione dei modelli organizzativi, che non si possono certamente inserire fra i princìpi fondamentali, rientrando fra gli aspetti operativi, che dovrebbero ormai appartenere alla competenza delle regioni.

      E così, con proposta di legge regionale, approvata dalla giunta e trasmessa al consiglio regionale il 2 agosto 2004, la regione Toscana, nella precedente legislatura, è intervenuta per risolvere la situazione di stallo che si è determinata: è la stessa legge regionale a tracciare il percorso del passaggio del servizio sanitario penitenziario al Servizio sanitario nazionale. Ovviamente è prevista e sollecitata in questa fase, e non certo esclusa, la collaborazione della amministrazione penitenziaria.
      Nel condividere tali conclusioni, deve essere consentito di rilevare che la costante caduta delle risorse messe a disposizione dalla amministrazione penitenziaria rende sempre più inadeguata la sanità penitenziaria e sempre più a rischio la tutela della salute delle persone in carcere, in violazione del diritto costituzionale, affermato dall'articolo 32 della Costituzione.
      L'intervento normativo previsto nel presente progetto di legge si propone di adeguare la normativa esistente ai princìpi e alle nuove scelte organizzative della legislazione sopra ricordata. Comunque, si è chiarito all'inizio che le modifiche normative proposte sono valide anche oggi e saranno valide domani quando si darà pieno seguito alle indicazioni normative sopra ricordate.

Indicazioni specifiche sulle singole modifiche.

A. Modifiche al capo I

      Una presentazione dei singoli interventi normativi di questa proposta di legge si presta, in qualche caso, al richiamo a princìpi centrali di una riflessione sul carcere e sulla pena che cerca di essere la base dalla quale la proposta di legge stessa si muove.
      L'articolo 1 è esemplare in tale senso. Nel comma 1, che ripete, peraltro, il testo vigente, non si fa che chiosare i princìpi esposti nel terzo comma dell'articolo 27 Costituzione. Nel comma 2 vi è ancora un richiamo costituzionale al principio di eguaglianza e la indicazione di una garanzia concreta per gli stranieri del rispetto di tale principio; obbligati dalla esecuzione della pena alla permanenza in Italia, essi devono essere considerati titolari di un permesso di soggiorno per superare le molte difficoltà che si manifestano per una effettiva affermazione di eguaglianza rispetto alla fruizione delle varie opportunità che dovrebbero essere offerte durante la esecuzione. Nel comma 3 si parte dalla necessità del mantenimento dell'ordine e della garanzia dei diritti e si chiarisce, subito dopo, che «non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette», ma si inquadrano queste indicazioni nel richiamo ad un principio essenziale, espresso dalla proposizione che «ogni restrizione della libertà, ulteriore a quella del regime ordinario di cui alla presente legge, deve essere tassativamente prevista dalla legge». La restrizione penitenziaria non comporta infatti una capitis deminutio del recluso, che perde solo quella parte di libertà che è strettamente connessa alla sua condizione detentiva, mantenendo le altre sue libertà. La identificazione della parte di libertà sacrificata può essere operata soltanto dalla legge.
      Le modifiche all'articolo 1, oltre a riguardare l'esplicito riconoscimento di diritti, chiariscono anche il ruolo del mantenimento dell'ordine e il suo contenuto di

 

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garanzia dei diritti di tutti, reclusi ed operatori. L'ordine e la garanzia dei diritti, in particolare, rappresentano lo strumento finalizzato e subordinato alla realizzazione di un sistema che garantisca l'accesso dei detenuti e degli internati agli elementi del trattamento, indispensabili per l'accesso ai percorsi riabilitativi. Su questo punto si è anche introdotta la indicazione che le attività di controllo e di presenza ai soli fini del controllo non devono investire in modo totale ogni aspetto della quotidianità delle persone ristrette, affidate anche ai responsabili delle specifiche attività trattamentali svolte.
      Nell'articolo 2 si elimina il contrasto esistente fra il testo dell'articolo 145 del codice penale e la normativa penitenziaria sul punto della quota della retribuzione che deve essere riservata al detenuto-lavoratore. Si fa valere la normativa penitenziaria, che viene anche rivista nel quadro della eguaglianza di trattamento di chi lavora in carcere rispetto al lavoratore libero.
      Nell'articolo 3 è aggiunto il comma 2, nel quale si richiama la necessità di intervenire nelle non rare situazioni di mancanza di risorse economiche e sociali con interventi che modifichino le situazioni personali su entrambi i piani. In questa previsione c'è chiaramente l'eco del secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione. La modifica muove dalla constatazione dell'allargarsi delle area della povertà in carcere, in corrispondenza - parrebbe molto evidente - dell'allargarsi dell'area della «detenzione sociale», di cui si è già parlato e di cui si tornerà a parlare, in specie nella relazione al titolo IV.
      È modificato l'articolo 4: sia al comma 1, dove si sopprime il riferimento alla interdizione legale, pena accessoria che viene soppressa nella presente proposta di legge (articolo 95); sia al comma 2, aggiunto ex novo, con una modifica di non poco rilievo. Il riconoscimento di una serie significativa di diritti dei detenuti e degli internati fa venire meno il sistema della «domandina», che condiziona oggi ogni richiesta dei detenuti e degli internati all'assenso della autorità penitenziaria. Tale sistema ha una pesante ricaduta burocratica con il rischio di rendere improbabili e tarde le risposte alle richieste degli interessati. Tutto questo è semplificato, senza la necessità di decisioni della direzione, d'altronde spesso scontate.
      L'articolo 4-bis è spostato nella parte concernente le misure alternative alla detenzione, delle quali, d'altronde, esclusivamente si interessa: diventa l'articolo 79. Invece, l'attuale collocazione nei princìpi direttivi si presta ad una lettura di tale norma in termini di tipizzazione dei condannati per taluni delitti, aspetto su cui si leggono ripetute riserve nella giurisprudenza della Corte costituzionale: vedi in particolare, la sentenza n. 306 del 1993 (n. 11 della motivazione in diritto).
      Il nuovo articolo 5 è introdotto in questa sede generale, relativa ai princìpi direttivi, e sostituisce l'articolo 79 del testo vigente, che estendeva ai minori di anni diciotto l'applicazione dell'ordinamento penitenziario per gli adulti «fino a quando non sarà provveduto con apposita legge». Anche qui, pertanto, uno spostamento di sede: questa scelta nella presente proposta di legge sembra più opportuna in quanto non ha un mero contenuto di rinvio, come aveva l'articolo 79, ma presenta un contenuto modificativo specifico, che riguarda tutto il sistema penitenziario minorile. Il citato articolo 5 della proposta di legge, intanto, pone un limite massimo e non lontano per la definizione e la entrata in vigore di uno specifico ordinamento penitenziario per coloro che hanno commesso reati quando erano minori di anni diciotto: si noti che un progetto di legge in tale senso, di iniziativa governativa, era stato presentato nella penultima legislatura, dopo lunga preparazione. E si è detto, nella parte introduttiva, che tale progetto rappresenta uno degli interventi normativi che dovrebbero accompagnarsi alla presente modifica della normativa penitenziaria.
      In secondo luogo, ai commi 2 e 3 di tale norma si prende atto di alcune sentenze costituzionali che stabiliscono un regime
 

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differenziato per i minori rispetto a quello degli adulti.
      Al comma 2, tenendo presente la sentenza costituzionale n. 324 del 1998, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'articolo 222, quarto comma, del codice penale nella parte in cui prevede l'applicazione anche ai minori della misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario, si esplicita il conseguente divieto di tale applicazione.
      L'inammissibilità per i minori della applicazione di tale misura di sicurezza si estende anche a quella della casa di cura e custodia. Al riguardo si possono esaminare le ragioni portate dalla sentenza costituzionale citata e verificare la loro pertinenza anche per la esclusione di questa seconda misura di sicurezza collegata al livello di capacità di intendere o di volere. Osserva la Corte (n. 3-4 della motivazione in diritto): «In sostanza il legislatore del codice penale del 1930 ha ritenuto che, in presenza di uno stato di infermità psichica tale da comportare il vizio totale di mente, la condizione di minore divenga priva di specifico rilievo e venga per così dire assorbita dalla condizione di infermo di mente (...) Siffatta scelta non è compatibile con i princìpi derivanti dagli articoli 2, 3, 27 e 31 della Costituzione, in forza dei quali il trattamento penale dei minori deve essere improntato, sia per quanto riguarda le misure adottabili, sia per quanto riguarda la fase esecutiva, alle specifiche esigenze proprie dell'età minorile (..) Le stesse esigenze sono espresse dalle norme internazionali relative alla tutela dei minori: in particolare, l'articolo 40 della convenzione su diritti del fanciullo (New York, 20 novembre 1989), resa esecutiva in Italia dalla legge 27 maggio 1991, n. 176, afferma il diritto del fanciullo accusato di reato "ad un trattamento tale da favorire il suo senso della dignità e del valore personale, (...) e che tenga conto della sua età nonché della necessità di facilitare il suo reinserimento nella società e di fargli svolgere un ruolo costruttivo in seno a quest'ultima" (comma 1); e chiama gli Stati a "promuovere l'adozione di leggi, di procedure, la costituzione di autorità e di istituzioni destinate specificamente ai fanciulli, sospettati, accusati o riconosciuti colpevoli di aver commesso reato" (comma 3), nonché a prevedere, fra l'altro, soluzioni alternative alla assistenza in istituti "in vista di assicurare ai fanciulli un trattamento conforme al loro benessere e proporzionato sia alla loro situazione che al reato" (comma 4). Una misura detentiva e segregante come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, prevista e disciplinata in modo uniforme per adulti e minori, non può certo ritenersi conforme a tali princìpi e criteri: tanto più dopo che il legislatore, recependo le acquisizioni più recenti della scienza e della coscienza sociale, ha riconosciuto come la cura della malattia mentale non debba attuarsi se non eccezionalmente in condizioni di degenza ospedaliera, bensì di norma attraverso servizi e presidi psichiatrici extraospedalieri, e comunque non attraverso la segregazione dei malati in strutture chiuse come le preesistenti istituzioni manicomiali (articoli 2, 6 e 8 della legge 13 maggio 1978, n. 180)».
      Sembra inutile spendere ulteriori parole sulla riferibilità di questa motivazione alla inammissibilità ai minori della casa di cura e custodia, tenendo presente, oltre alle ragioni generali, una ragione specifica: che le sedi di esecuzione delle due misure - ospedale psichiatrico giudiziario e casa di cura e custodia - sono le stesse.
      Al comma 3 dell'articolo 5 si escludono i minori dalla disciplina restrittiva ai benefìci penitenziari dettata per i responsabili dei delitti di cui al vigente articolo 4-bis, comma 1. È decisivo, al riguardo, il riferimento alla giurisprudenza costituzionale.
      La sentenza costituzionale n. 450 del 1998, ha dichiarato la inammissibilità costituzionale della lettera c) del comma 4 dell'articolo 30-ter, che eleva il tempo necessario per la ammissibilità ai permessi premio per i responsabili dei delitti di cui all'articolo 4-bis del testo vigente. La sentenza costituzionale fa riferimento alla disciplina normativa restrittiva per i permessi premio, introdotta dal decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, ma le ragioni addotte dalla sentenza appaiono utili anche a proposito
 

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degli altri benefìci penitenziari e per escludere, quindi, le ulteriori limitazioni introdotte dalla successiva normativa d'urgenza, di cui al decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356. Così la sentenza costituzionale (n. 2 della motivazione in diritto): «Nella perdurante inerzia del legislatore, che non ha ancora dettato una disciplina differenziata dell'esecuzione penale minorile, così protraendo nel tempo l'estensione provvisoria ai condannati minori dell'ordinamento penitenziario generale, sancita dall'articolo 79 della legge n. 354 del 1975, questa Corte ha censurato più volte norme di tale ordinamento, o altre norme, che stabilivano preclusioni rigide ed automatiche alla concessione di misure premiali, o alternative alla detenzione, o di altri benefìci, in quanto, applicandosi ai minori, impedivano quelle valutazioni flessibili ed individualizzate sulla idoneità ed opportunità delle misure o dei benefìci medesimi, che sono invece necessarie perché la esecuzione della pena e in genere la disciplina delle restrizioni alla libertà personale siano conformi alle esigenze costituzionali di protezione della personalità del minore». La Corte fa seguire la indicazione dei casi in cui è intervenuta applicando tali princìpi per concludere poi (n. 3 della motivazione in diritto): «La rigida preclusione alla concessione dei permessi premio prima della espiazione di metà della pena, nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'articolo 4-bis dell'Ordinamento penitenziario, introdotta nel quadro di un più generale e drastico inasprimento della concessione a tali condannati dei benefìci penitenziari, è stata dettata dal legislatore in modo indiscriminato, senza riguardo, ancora una volta, alle specifiche esigenze, costituzionalmente imposte, dell'esecuzione minorile. Tanto più che, trattandosi di condannati per gravi delitti, e dunque a pene di non breve durata, tale preclusione viene ad irrigidire per lunghi periodi il regime di esecuzione della pena. È d'altronde evidente che sopprimere la preclusione in esame nei confronti dei condannati per delitti commessi in età minore non significa per ciò stesso mettere in pericolo gli interessi generali, relativi al contrasto della criminalità, che hanno spinto il legislatore a introdurre siffatta disciplina. Infatti, la concessione dei permessi-premio resta pur sempre condizionata, oltre che agli altri requisiti, non solo alla «regolare condotta» dei detenuti, ma anche alla circostanza che essi non risultino socialmente pericolosi (articolo 30-ter, comma 1) e che non vi siano elementi tali da fare ritenere sussistenti collegamenti con la criminalità organizzata od eversiva (articolo 4-bis, comma 1, dello stesso ordinamento penitenziario): resta dunque affidata al prudente apprezzamento di tali condizioni da parte del magistrato di sorveglianza».
      Ora, la motivazione è troppo precisa ed efficace per non ritenersi estensibile alle analoghe restrizioni, introdotte dallo stesso decreto-legge n. 152 del 1991, in materia di misure alternative alla detenzione o di lavoro all'esterno. Il problema può sorgere per le ulteriori restrizioni introdotte con il citato decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, e, in particolare per le esclusioni dai benefìci, salva collaborazione ex articolo 58-ter. Si ritiene, però, che la esclusione dai benefìci sia più che mai contraria ai princìpi costituzionali in materia di esecuzione penale nei confronti dei minori, quali indicati nella citazione della sentenza costituzionale. Di qui la esclusione dell'operare anche delle restrizioni apportate dalla normativa 1992.
      Al comma 3, nello stesso quadro costituzionale ora indicato, si è esclusa la applicazione, nei confronti dei minori, della momentanea preclusione ai permessi premio di coloro che sono condannati o imputati per un delitto doloso commesso nel corso della precedente espiazione della pena: si tratta della disposizione del comma 5 del vigente articolo 30-ter, ora articolo 41 della proposta di legge. Qui non si fa che inserire nel testo normativo la precisa indicazione di un'altra sentenza costituzionale, la n. 403 del 1997. Il tutto ancora nel comma 3 di questo articolo 5.
      Le disposizioni restanti dell'articolo 5 sono conformi al testo vigente.
 

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B. Modifiche al capo II.

      Le modifiche degli articoli da 6 a 10 del testo vigente sono operate nel quadro dei concetti esposti nelle indicazioni generali.
      Il regime di vita attuale della grande maggioranza dei detenuti, che comporta la loro permanenza in cella per 20 ore al giorno, in condizioni di inerzia, è contro ogni regola di salute ed igiene e contro le esplicite previsioni della legge, anche nel suo testo vigente. Le modifiche apportate precisano ed articolano nuove regole, sottraendole alla possibilità di una realtà diversa e contraria, che oggi prevale.
      All'articolo 6 della proposta di legge la dimensione contenuta degli istituti - già l'articolo 5 del testo vigente disponeva che gli istituti dovevano accogliere «un numero non elevato di detenuti o internati» - è posta in relazione con la conoscenza e la presa in carico individualizzate chiaramente indispensabili perché le linee fondamentali della legge siano rispettate. Si prevede anche che gli istituti esistenti di dimensioni grandi o medio-grandi siano articolati in singole parti, ciascuna con una propria organizzazione, subordinata ad una direzione centrale per i soli aspetti generali. È sottolineato - al comma 4 - «il diritto dei detenuti e degli internati ad un regime di vita che distribuisca la giornata fra periodo notturno di pernottamento e periodo diurno di attività, in modo da evitare eventuali danni fisio-psichici da istituzionalizzazione».
      All'articolo 7 della proposta di legge si cura di ancorare la capienza delle singole camere di pernottamento e quella conseguente dell'istituto a criteri oggettivi, che sono individuati nei documenti in proposito degli organismi europei. Sono anche date indicazioni specifiche sulle caratteristiche delle camere di pernottamento, completate all'articolo 9, con le indicazioni relative ai servizi igienici. Sono recuperate alcune disposizioni del vigente regolamento di esecuzione della legge n. 354 del 1975, di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000, che si ritiene utili garantire a livello di legge ordinaria. L'articolo 7 si conclude con la disposizione che indica il periodo massimo della chiusura in cella, prevedendone la misura finale di 10 ore, da raggiungere in quattro anni, imponendo da subito quella di 14 ore, da ridurre di un'ora all'anno. Ovviamente, si tratta di un limite massimo, che incoraggia la diffusione di misure minori del periodo di chiusura.
      All'articolo 8 della proposta di legge si sopprime l'obbligo sostanziale del «vestiario uniforme», ampiamente caduto in desuetudine, mentre si sottolinea l'obbligo dell'amministrazione di «vestire gli ignudi», per così dire, situazione tutt'altro che rara (vedi articolo 3 sulla diffusione delle situazioni di povertà in carcere).
      All'articolo 10 della proposta di legge si cerca di rendere più esplicite e vincolanti, quali diritti, le disposizioni in materia di qualità, varietà ed adeguatezza della alimentazione, introducendo, comunque, criteri di flessibilità sulle modalità di confezione e di consumo dei pasti. Si indica come soluzione organizzativa generale, per il confezionamento del vitto e i servizi connessi, il ricorso alla cooperazione sociale, ritenendo che la utilizzazione di appaltatori privati di questi servizi, aggravata dal sistema della aggiudicazione sulla base del ribasso d'asta, ha portato a risultati inaccettabili (diarie fra 1 e 2 euro per la fornitura del vitto per l'intera giornata: colazione, pranzo e cena). Sulla base di esperienze largamente diffuse in sistemi penitenziari stranieri e per semplificare l'acquisto a proprie spese di generi alimentari e di conforto previsto nell'articolo 9, comma 7, del testo vigente, si è inserita la utilizzazione di distributori automatici, funzionanti con schede prepagate.
      All'articolo 11 si sono date indicazioni anche sulle cose di cui è ammesso il possesso da parte dei detenuti e degli internati. Un articolo apposito chiarisce la piena ammissibilità del possesso di ciò che è necessario per soddisfare gli interessi artistici e culturali, nonché per la partecipazione alle attività trattamentali; è ammesso anche il possesso di computer portatili e di libri, per i quali si chiarisce che è vietata la scomposizione. Si rinvia al regolamento di attuazione

 

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(da adottare) per indicazioni di dettaglio. L'articolo in questione dà indicazioni anche sul divieto di possesso di denaro e della ricezione dall'esterno di bevande alcoliche, nonché sui limiti al passaggio di cose e valori fra i detenuti.
      All'articolo 12 della presente proposta di legge si sottolinea il rapporto fra gli spazi per la permanenza all'aperto e la vivibilità e sostenibilità della situazione detentiva. Sotto questo profilo, è importante che tali spazi non si identifichino e riducano ai cortili, generalmente angusti, e che la permanenza all'aperto non si limiti alla cosiddetta «aria». I tempi di questa sono stati, comunque, aumentati da due a quattro ore, con possibile riduzione a due ore (un'ora nel testo vigente) per motivi eccezionali e per tempi brevi. Ma si è sottolineata la necessità della utilizzazione di tutti gli spazi esterni, particolarmente se non interclusi tra fabbricati, per attività sportive o di movimento in genere, proprio per compensare i lunghi periodi di permanenza in locali chiusi e per ridurre, conseguentemente, i rischi sul piano igienico e sanitario.
      Le modifiche del servizio sanitario in carcere sono nel senso di quanto già detto al n. 4 delle indicazioni generali. La materia è distribuita in quattro articoli, dal 13 al 16, che sostituiscono l'articolo 11, unico del testo vigente. Le modifiche attribuiscono al servizio sanitario operante all'interno degli istituti la attività di prevenzione delle situazioni contrarie alla salute e all'igiene, cui fanno riferimento anche le modifiche degli articoli precedenti. Tutte le modifiche, quindi, sono fatte nel rispetto del fine di creare condizioni di vivibilità in carcere, che sono doverose e che oggi mancano. Si prevede anche un organismo apposito di vigilanza e controllo in sostituzione di quello previsto attualmente, il medico provinciale, organo non più operante. Oggi i controlli sul servizio penitenziario sono eseguiti dalla azienda sanitaria locale (ASL) territorialmente competente: da un lato, però, l'intervento è uno dei tanti che competono al servizio e dall'altro anche tale intervento è destinato a cessare quando, secondo la prospettiva della legge, dovrà essere il Servizio sanitario nazionale, e quindi la singola ASL, a subentrare a quello penitenziario.
      All'articolo 17 della proposta di legge si richiama, intanto, la esigenza di attrezzature adeguate per tutte le attività trattamentali. Le modifiche riguardano, in particolare, la biblioteca che viene resa anche centro di lettura e di animazione culturale, fruibile dai detenuti e dagli internati, e che deve essere anche attrezzata come mediateca, dotata di attrezzature e di materiale multimediale.

C. Modifiche al capo III.

      Si torna ancora alle indicazioni generali della parte iniziale: la trasformazione in diritti dei detenuti e degli internati degli obblighi posti dalla legge a carico della amministrazione penitenziaria.
      In questo quadro, all'articolo 18 della proposta di legge, si parte dal riconoscimento come diritto della osservazione e della predisposizione e successiva attuazione del programma di trattamento, ovviamente in presenza della disponibilità della persona interessata a collaborare in tutto questo (articolo 13 del testo attuale). Secondo una visione che è sembrata più aggiornata del sistema complessivo, sono curate alcune modifiche terminologiche: così l'«osservazione scientifica» diviene «osservazione multiprofessionale» e alla espressione «rieducazione» e derivate è parsa preferibile quella di «risocializzazione».
      Vi sono, poi, dopo il riconoscimento dei diritti connessi all'accesso ai singoli elementi del trattamento (articolo 15 del testo vigente), alcune previsioni modificative della normativa sugli stessi.
      Prima di entrare nell'esame di tali previsioni, si devono annotare, all'articolo 21 della proposta di legge, le modifiche all'articolo 16 del testo vigente, dedicato al regolamento di istituto. Al riguardo è essenziale una premessa: il regolamento di istituto non deve essere una forma di ratifica della realtà esistente, come, invece, viene generalmente considerato nella sua

 

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applicazione concreta. La realtà degli istituti, come si è già accennato in più occasioni, è ben lontana da quella che dovrebbe essere secondo la legge. Quindi, se il regolamento di istituto ratifica l'esistente, ratifica la difformità degli istituti dal modello della legge e, di conseguenza, si pone come ulteriore elemento di resistenza alla modifica di questo modello difforme dalla legge.
      Fatta questa premessa, gli interventi modificativi sono di tre tipi.
      Il primo consiste nel richiamo alla assoluta subordinazione di questa fonte normativa alle fonti di livello superiore, rappresentate, per restare nell'ambito proprio, dall'ordinamento penitenziario e dal regolamento di attuazione dello stesso. Le parti difformi del regolamento di istituto devono essere espunte dallo stesso. Esempio: se il regolamento di istituto stabilisce che gli orari di apertura delle camere sono dalle 9 alle 11 e dalle 14 alle 16, come accade in gran parte degli istituti, e che non sono programmate, complementarmente, attività nei locali comuni, tali norme devono essere soppresse. Si noti che l'esempio non è teorico, ma molto concreto e rende l'idea di cosa vuol dire ratifica dell'esistente e difformità di questo dal modello di istituto contenuto nella legge.
      Il secondo intervento modificativo è rappresentato dalla composizione della commissione che predispone il regolamento. A prescindere da alcune modifiche relative agli operatori, ne esce il magistrato di sorveglianza, che, nel testo vigente, ne è invece il presidente. Se il ruolo del magistrato di sorveglianza è quello del garante della legge, non può contribuire a redigerla. Anche rispetto al regolamento deve essere conservato il ruolo di garanzia che gli è proprio.
      Su questo si innesta, quindi, il terzo tipo di intervento. Il magistrato di sorveglianza, quando riceve il testo del regolamento elaborato dalla commissione, fa le sue osservazioni. Accolte o meno tali osservazioni, il regolamento è trasmesso al Ministro della giustizia, che approva o apporta correzioni al testo della commissione e lo trasmette ancora al magistrato di sorveglianza, che può rinnovare, a questo punto, le sue osservazioni. Anche queste possono non essere fatte proprie dal Ministro. Si arriverà, comunque, a un testo finale, rispetto al quale il magistrato di sorveglianza, sempre nella sua funzione di garanzia della legge, avrà il potere di disapplicazione delle norme del regolamento di istituto difformi dalle fonti di livello superiore.
      Nell'articolo 22 della proposta di legge sono contenute modeste modifiche terminologiche al testo attuale dell'articolo 17.
      Si torna ora al discorso già iniziato del diritto alla osservazione e al trattamento individualizzato e ai conseguenti diritti agli elementi del trattamento previsti dall'articolo 15 del testo vigente dell'ordinamento. In questo quadro vanno colte le modifiche relative all'accesso ai colloqui e alla corrispondenza telefonica, nonché alla istruzione, al lavoro e alle altre attività trattamentali (articoli 19 e seguenti del testo vigente).
      Per i colloqui e la corrispondenza telefonica - articolo 18 del testo vigente e 23 della proposta di legge - li si indicano intanto come diritti dei detenuti e degli internati. Si dà spazio, poi, a conferma di quanto avviene già nella prassi di molti istituti, alla autocertificazione su alcune circostanze che richiederebbero, altrimenti, complessi accertamenti di polizia o di altra fonte, sovente con tempi lunghi e con esiti tutt'altro che certi: mentre si attendono le risposte, le esecuzioni delle pene procedono e possono anche concludersi. Anche se viene limitato ai soli istituti e sezioni a sorveglianza media o attenuata, per le telefonate, sempre per ragioni di semplificazione, si prevede il ricorso alle schede telefoniche prepagate. Si introduce anche la ammissione ad una telefonata sostitutiva quando non è stato possibile svolgere un colloquio.
      Sia per i colloqui che per la corrispondenza telefonica sono eliminate le differenze di regime, introdotte con il regolamento di esecuzione, fra i reclusi del circuito ad alta sorveglianza e gli altri: tali differenze sono possibili solo nei regimi
 

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differenziati della sorveglianza particolare e della massima sicurezza (si è designato di massima sicurezza il regime di cui all'articolo 41-bis, commi 2 e seguenti, del testo vigente).
      È anche prevista una concessione particolare, che agisce fuori da questo quadro di diritti dei detenuti e degli internati: la direzione dell'istituto, su istanza degli interessati e su indicazione e con le modalità previste dal programma di trattamento ed elaborate dal gruppo di osservazione, può autorizzare corrispondenza telefonica da apposita postazione pubblica nell'istituto, fuori delle sezioni detentive.
      Una modesta modifica è apportata anche all'articolo 18-bis del testo vigente, che ha come rubrica «colloqui a fini investigativi». Coerentemente a tale rubrica e a tutto il testo dell'articolo, si esclude la facoltà degli operatori di polizia di «visitare» gli istituti, facoltà del tutto non pertinente alle finalità della norma. Resta la sola facoltà di essere autorizzati ai colloqui.
      Alcuni problemi relativi alla corrispondenza epistolare sono stati affrontati con la introduzione nella normativa vigente, per effetto della legge 8 aprile 2004, n. 95, dell'articolo 18-ter. Nonostante la legge sia molto recente, si è ritenuto di dovere intervenire sul testo della medesima all'articolo 25 della proposta di legge. La revisione tocca vari punti, ma soprattutto distingue il problema del controllo del contenuto materiale delle buste che contengono la corrispondenza, dal controllo-lettura-conoscenza del contenuto di questa e dalle limitazioni della medesima e della ricezione della stampa. Per la prima parte, si è ritenuto di dovere rendere esplicita la prassi degli istituti: la chiusura della corrispondenza in partenza e l'apertura di quella in arrivo devono avvenire alla presenza dei reclusi interessati, assicurando in tale modo che siano gli stessi a verificare il mancato controllo-conoscenza del contenuto della corrispondenza. Non c'è alcun bisogno di un provvedimento autorizzativo del magistrato.
      Per il secondo aspetto, è necessario il provvedimento del giudice che autorizzi il controllo del contenuto degli scritti, nonché le limitazioni della corrispondenza e della ricezione della stampa. Tale provvedimento è rappresentato da un decreto del giudice competente (individuato con riferimento ai provvedimenti di ricovero in luogo esterno di cura), reclamabile con procedura giurisdizionalizzata, soluzione da tempo richiesta dagli organi di giustizia europei. Modeste le altre modifiche del testo vigente su questo secondo aspetto, fra le quali quella del periodo di durata del visto di controllo, ridotto da sei mesi a tre mesi e rinnovabile per analoghi periodi: è possibile, infatti, che il periodo di controllo si riveli utile per periodi anche molto brevi, come è possibile che sia utile conservarlo per periodi più lunghi. Inoltre, si sono estesi i soggetti per i quali la corrispondenza non può, comunque, essere sottoposta a controllo.
      Anche in materia di istruzione, scolastica e professionale, all'articolo 26 della proposta di legge si sottolinea che i detenuti e gli internati che ne fanno domanda hanno diritto ad essere iscritti e a frequentare i corsi scolastici e professionali, ovviamente nel rispetto delle regole di ammissione agli stessi.
      Per il lavoro, all'articolo 27 della proposta di legge vi sono modifiche che garantiscono la conformità alla legge del rapporto di lavoro attivato in carcere, anche negli aspetti formali, sostituendo alle espressioni mercede e remunerazione, tipiche del vecchio lavoro carcerario, quella propria di retribuzione. In merito a questa, si dirà più oltre, esponendo gli interventi sull'articolo 22 del testo vigente, articolo 31 della proposta di legge.
      Si è anche indicato il diritto, per il detenuto-lavoratore, ad un periodo feriale in attuazione della sentenza costituzionale n. 158 del 2001, che ha dichiarato «l'illegittimità costituzionale dell'articolo 20, sedicesimo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (...) nella parte in cui non riconosce il diritto al riposo annuale retribuito al detenuto che presti la propria attività lavorativa alle dipendenze dell'amministrazione carceraria». Le modifiche operate hanno portato ad una diversa
 

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numerazione dei commi: quello in questione non è più il 16, ma il 15.
      All'articolo 28 della proposta di legge, che modifica l'articolo 20-bis del testo vigente, si insiste sulla necessità che le lavorazioni interne devono coinvolgere la gran parte della mano d'opera detenuta, sia nella effettuazione dei servizi per il funzionamento degli istituti (alimentazione, pulizia, manutenzione fabbricati e spazi all'aperto, eccetera), sia per la fornitura delle cose di cui gli istituti e le persone, reclusi e personale, hanno bisogno. Al proposito, è importante il ricorso, per la gestione delle lavorazioni e dei servizi, alle imprese pubbliche e private, ma con specifica opzione per le cooperative sociali. Questo dovrebbe portare alla trasformazione degli istituti in strutture produttive, non, come sono oggi, quasi generalmente, mero contenitore di persone senza alcun impegno e in condizioni di permanente inerzia. Sviluppando la possibilità di ricorso a professionalità imprenditoriali, già previsto al comma 1 dell'articolo 20-bis (testo vigente), nel comma finale del nuovo articolo 28 si prevede il ricorso alle stesse professionalità per uffici interni alla amministrazione penitenziaria, presso il dipartimento e presso i provveditorati regionali, con l'incarico di curare la formazione del sistema produttivo e il suo funzionamento: sia sul versante della rilevazione delle esigenze interne, sia su quello della risposta produttiva alle stesse.
      Nell'articolo 29 della proposta di legge, si modifica anche l'articolo 21 del testo vigente. Si chiarisce nella rubrica che la norma consente la attuazione all'esterno non solo di attività lavorative, ma anche di altre attività trattamentali. E così, accanto alle già previste attività di lavoro e di formazione professionale, si aggiunge anche quella dello svolgimento di corsi di istruzione a tutti i livelli, anche universitari, diversi da quelli organizzati nello specifico istituto.
      In questo articolo, altre due modifiche. Con la prima si chiarisce, a conferma di quanto già risulta dal regolamento di esecuzione, che il lavoro all'esterno può essere subordinato o autonomo. Con la seconda si conferma una disposizione vigente, contenuta nel testo del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, che rischia spesso di essere dimenticata: che le condizioni di tempo per la ammissibilità, concernenti i reati di cui all'articolo 4-bis, comma 1, della legge vigente, non riguardano i reati commessi prima della data di entrata in vigore del decreto-legge n. 152 del 1991, convertito con, modificazioni, dalla legge n. 203 del 1991, cioè prima del 13 maggio 1991.
      L'articolo 31 della proposta di legge modifica non solo formalmente, ma anche nella sostanza, l'articolo 22 del testo vigente.
      Il comma 1 contiene l'affermazione di principio in ordine al diritto ad una retribuzione equa, che discende dall'articolo 36 della Costituzione. Si dà atto che ciò dovrà avvenire con riferimento al trattamento economico e normativo previsto, per attività lavorative corrispondenti, dai contratti collettivi di lavoro o da normativa equivalente.
      Al comma 2 si prevede, comunque, a conferma delle previsioni vigenti, che «Per le lavorazioni interne gestite dalla amministrazione penitenziaria», sempre in applicazione del principio di cui al comma 1, si debba, però, arrivare ad una determinazione specifica, che è rimessa, come attualmente, ad una apposita commissione.
      Nei commi successivi si danno regole affinché la commissione operi con tempestività in merito ai necessari aggiornamenti (che devono essere triennali), così da evitare situazioni analoghe a quella attuale, in cui le tabelle fissate sono ferme a molti anni fa e non si arriva alla revisione delle stesse.
      All'articolo 33 della proposta di legge sono state modificate anche le norme relative alla quota di retribuzione che deve restare nella disponibilità del condannato in occasione di pignoramento o di sequestro. Le modifiche sono state operate nel rispetto di un criterio di eguaglianza con i lavoratori liberi. Si è anche richiesto che la possibilità di agire su parte della retribuzione lasci, comunque, all'interessato una quota per evitare la completa vanificazione, non certo risocializzante, del risultato del lavoro svolto. Con riferimento a questa materia
 

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si è anche chiarito che, in merito al danno arrecato ai beni della amministrazione penitenziaria, la quantificazione operata dalla stessa è reclamabile al magistrato di sorveglianza, secondo la nuova procedura giurisdizionalizzata introdotta nell'articolo 46 di questa proposta di legge, modificativo dell'articolo 35 del testo vigente.
      Alcuni ritocchi anche per la norma che riguarda la «Religione e pratiche di culto»: articolo 26 del testo vigente e 35 della proposta di legge. Il primo intervento fa particolare riferimento a quelle religioni, che non hanno ministri di culto, come quella musulmana: si prevede che l'incontro con i detenuti possa riguardare semplici «esponenti» religiosi che non hanno la qualifica di «ministri del culto». Nel confermare la già prevista libertà religiosa, si sottolineano i due aspetti della medesima: la libertà dei reclusi di avere la assistenza dei ministri o esponenti del loro culto e di celebrare insieme con essi i loro riti, nonché la libertà dei ministri o esponenti dei vari culti di svolgere la loro missione presso i reclusi.
      Una modifica rilevante, contenuta nell'articolo 37 della proposta di legge, è quella che riguarda i rapporti con la famiglia (articolo 28 del testo vigente) e che consente un rispetto reale dei rapporti affettivi in carcere, risolvendo, in questo quadro, anche il problema dei rapporti sessuali dei detenuti e degli internati. In proposito è già stata presentata la proposta di legge atto Camera n. 3020, sempre primo firmatario Boato, presentata il 12 luglio 2002. Nell'articolo della presente proposta di legge si aggiunge un ulteriore comma con la previsione del cosiddetto «avvicinamento per colloqui»: cioè di un trasferimento per breve tempo presso un istituto di pena prossimo al domicilio dei familiari, ammissibile quando le soluzioni diverse non siano possibili.
      È già prevista dalla citata proposta di legge atto Camera n. 3020 anche la modifica dell'articolo 30 del testo vigente, che diviene l'articolo 39 della presente proposta di legge e riguarda i permessi per gravi ragioni familiari. La modifica in parola risolve una antica questione sulle ragioni che possono consentire il ricorso ai permessi per motivi familiari: si sostituisce la espressione «particolare gravità» con quella di «particolare rilevanza», consentendo, quindi, i permessi non solo in occasione di eventi negativi e luttuosi, ma anche di eventi positivi e lieti (come la nascita di un figlio o la celebrazione del matrimonio).
      Si è intervenuti anche, nell'articolo 40 della proposta di legge, sull'articolo 30-bis del testo vigente: ai commi 3 e 6, con una mera modifica formale (si dà atto che la sezione di sorveglianza è stata denominata tribunale di sorveglianza); al comma 4, con un nuovo testo, che prende atto di una specifica sentenza costituzionale, la n. 53 del 1993, che giurisdizionalizza la procedura del reclamo al tribunale di sorveglianza sui provvedimenti in materia di permessi del magistrato di sorveglianza.
      Si viene poi all'articolo 41 della proposta di legge, che riguarda i permessi premio, su cui si è intervenuti in più punti.
      Vanno ricordate, intanto, due modifiche lessicali, ma non solo.
      La prima è rappresentata da una nuova denominazione del beneficio, che accentua la funzione di socializzazione, che la norma ha indubbiamente e che sembra espressa in modo riduttivo dal riferimento ad una mera funzione premiale.
      La seconda riguarda il testo dell'articolo 30-ter, comma 1, del testo vigente. La espressione ivi usata, riferita alle persone che possono accedere ai permessi premio, indicate come «non socialmente pericolosi», è sostituita da quella di soggetti «che non risultano di attuale e particolare pericolosità». La modifica affronta un duplice problema: il primo è quello della «attualità» della pericolosità, richiesta ormai da tutte le normative sulla pericolosità, sia quella specifica relativa alle misure di sicurezza, sia quella concernente situazioni similari, come quelle previste dal vigente articolo 4-bis; il secondo problema riguarda la genericità della espressione attuale, che può riferirsi a qualsiasi detenuto, che ha sovente alle spalle una storia giudiziaria non breve, anche se composta di episodi modesti: di qui l'opportunità di richiedere una «particolare
 

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pericolosità» per precludere la ammissione ai permessi.
      Come si è detto, oltre a queste, vi sono altre modifiche del testo vigente.
      Nel comma 1, oltre alla modifica sulla pericolosità, si cerca di sottrarre la durata dei permessi ad una discrezionalità che, talvolta, appare eccessiva. Si sottolinea, quindi, che «di regola» - ed è pertanto salva la discrezionalità quando sia fondata su ragionevoli motivi - la concessione dei permessi premio deve allinearsi al limite dei 45 giorni annuali.
      Al comma 4 si precisa che la maggiore durata del periodo detentivo per la ammissione ai permessi premio per gli autori dei delitti compresi nel comma 1 dell'articolo 4-bis del testo vigente, riguarda i soli delitti commessi dopo il 13 maggio 1991: vedi quanto osservato per lo stesso problema nella parte concernente il lavoro all'esterno.
      Al comma 5, si chiarisce, intanto, che la espressione «imputati» deve essere intesa in senso proprio: cioè nei termini di cui all'articolo 60 del codice di procedura penale. Questo per evitare, come succede sovente, che sia ritenuto sufficiente, per il blocco della concessione, un semplice rapporto interno di denuncia per un reato tutto da verificare. Inoltre è parso necessario prevedere che il reato abbia una certa consistenza. Al proposito, si deve rilevare che la norma comporta una sorta di revoca, sia pur temporanea (ma, per le pene di minore entità, sarà di fatto definitiva), della ammissibilità al beneficio, per la quale, in situazioni non molto dissimili (sentenza n. 186 del 1995, in materia di liberazione anticipata e n. 418 del 1998, in materia di liberazione condizionale), si richiede che il nuovo reato, per la sua rilevanza, appaia «incompatibile con il mantenimento del beneficio». Se pure non si adotta tale formula, si richiede però una certa rilevanza del delitto addebitato. Si richiede, inoltre, che il fatto si collochi in un periodo di espiazione della pena, interno, cioè, al percorso di reinserimento sociale che si è avviato e al cui sostegno il beneficio concorre e non comprenda, quindi, periodi precedenti di custodia cautelare o di esecuzione di misure alternative (nei quali, fra l'altro, le condotte illecite sono, in genere, già specificamente sanzionate).
      Sono aggiunti, infine, tre nuovi commi.
      Il primo, comma 9, introduce un permesso aggiuntivo «per coltivare specificamente interessi affettivi»: è ripreso, negli stessi termini, dal citato atto Camera n. 3020.
      Il secondo, comma 10, è una presa d'atto della creazione della Unione europea e delle possibilità di spostamento delle persone nell'ambito della stessa: si prevede la concessione di permesso fuori dall'Italia, ma entro il territorio dell'Unione, quando ricorrono motivi particolarmente rilevanti. Devono essere informate le autorità di polizia del luogo in cui l'interessato si reca e alle quali deve presentarsi.
      Il terzo, comma 11, prevede ancora la fruizione di permessi fuori dello Stato, ma sempre nei confini dell'Unione europea. Si tratta di una situazione con varie particolarità. La condizione di fondo è che il permesso sia proposto dalla direzione dell'istituto su parere del gruppo di osservazione e trattamento per il «completamento delle attività trattamentali intraprese». La seconda condizione è che i fruitori di tali particolari permessi abbiano fruito regolarmente di permessi di socializzazione in precedenza. Tali permessi possono riguardare singoli detenuti o internati, ma anche gruppi che hanno svolto un'attività trattamentale comune. Nel secondo caso, il quadro in cui il permesso viene concesso può essere quello degli scambi culturali con altro Paese dell'Unione europea. Si ipotizza la possibilità che il gruppo di detenuti o internati, anche tenendo presenti i problemi organizzativi, sia accompagnato da coloro che, pur se non dipendenti dalla amministrazione penitenziaria, abbiano seguito le attività trattamentali in relazione alle quali i permessi vengono concessi.
      Anche qui deve essere avvertita l'autorità di polizia del luogo in cui i permessi si svolgono.
      L'articolo 42 della proposta di legge riscrive l'articolo 31 del testo vigente. È
 

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sottolineata la importanza della partecipazione dei detenuti e degli internati alle occasioni collettive di programmazione delle attività «al fine di ottenere un maggiore coinvolgimento e accrescere il senso di responsabilità individuale». Anche in relazione a questo, senza rifiutare la regola del sorteggio per la partecipazione alle rappresentanze dei reclusi previste dalla legge, si ipotizza la possibilità di inserimenti con criteri diversi e anche selettivi, specie quando si manifesti una rilevante diversità di interessamento e di partecipazione.

D. Modifiche al capo IV.

      L'articolo 43 della proposta di legge modifica l'articolo 32 del testo attuale in vari punti. Introduce, intanto, un nuovo comma 1, che richiede la disponibilità, nella biblioteca dell'istituto, dell'ordinamento penitenziario, del regolamento di esecuzione dello stesso e del regolamento di istituto, nonché delle altre disposizioni in materia. Al comma 2 si prevede la consegna ai reclusi di un estratto delle norme essenziali di tali testi. Al comma 3 vi è il richiamo alle regole per i detenuti e gli internati, ma anche per la amministrazione penitenziaria. Il comma 4, pur confermando il testo vigente, secondo cui nessun detenuto o internato può avere mansioni di responsabilità, chiarisce che i detenuti e gli internati, «in relazione alle loro capacità possono collaborare alle attività interne». Infine, l'ultimo comma, richiamato l'obbligo di risarcimento del danno arrecato dai detenuti o internati ai beni della amministrazione, richiama anche la disposizione dell'ultimo comma del nuovo articolo 33, secondo cui contro l'esistenza e misura del danno, affermata dalla amministrazione, è dato reclamo al magistrato di sorveglianza ai sensi dell'articolo 46 della proposta di legge (articolo 35 del testo vigente).
      L'articolo 44 della proposta di legge, nel modificare l'articolo 33 del testo vigente, ne analizza anche altri aspetti posti in evidenza da questi anni di applicazione.
      Una prima modifica riguarda il numero 3) del vigente articolo 33, relativo all'isolamento giudiziario, per il quale non sono previsti, e vengono invece introdotti, limiti di durata per garantire il rispetto del diritto di difendersi dell'imputato detenuto. Il protrarsi dell'isolamento, nel testo normativo attuale, «fino a quando ciò sia ritenuto necessario dall'autorità giudiziaria», configura la possibilità di violare la libertà di determinarsi dell'imputato nelle proprie dichiarazioni. Si richiede, pertanto, che i tempi e le ragioni siano specificati nel provvedimento della autorità giudiziaria procedente e si stabilisce che tale provvedimento sia impugnabile come provvedimento sulla libertà personale.
      Sono introdotti quattro nuovi commi. Al comma 2, alcune indicazioni sulla sanzione dell'isolamento diurno (aggiunto a quello notturno), per i condannati all'ergastolo, fra le quali si inserisce anche quella della ammissibilità del rinvio della esecuzione, con gli stessi mezzi del rinvio della esecuzione delle pene e delle sanzioni sostitutive. Una particolare disposizione riguarda il tempo di attuazione della sanzione: la stessa deve essere la più tempestiva possibile e non può, comunque, essere attuata quando si è avviata la fase della fruizione dei benefìci penitenziari, a cominciare dai permessi di risocializzazione.
      Dopo avere ricordato, nei commi 3 e 4, il rinvio al regolamento di attuazione in merito alle modalità di attuazione dell'isolamento e la particolare attenzione che gli operatori devono riservare ai soggetti sottoposti allo stesso, nel comma 5 si sottolinea che, al di fuori dei casi specificati nella norma, non possono essere attuate forme diverse di isolamento, anche temporaneo, e si rafforza tale divieto con riferimento ad alcune situazioni in cui le prassi operative degli istituti realizzano situazioni di isolamento di fatto.
      È riscritto l'articolo 34 del testo vigente, che diviene l'articolo 45 della proposta di legge, dedicato alle perquisizioni.
      Una modifica, al comma 4, è operata in relazione alla sentenza costituzionale n. 526 del 2000 e alla motivazione della

 

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stessa, che, pur non rilevando incostituzionalità della norma, ha sottolineato la esigenza di «una forma di documentazione dell'avvenuta perquisizione».
      Ma la riscrittura è completa. Si distingue, intanto, al comma 1, fra perquisizioni personali e nei locali di vita dei reclusi.
      Ai commi 2 e 3 si individuano i casi in cui non si può procedere a perquisizione personale. Si danno indicazioni sulle modalità, in parte delegando al regolamento di attuazione, in parte intervenendo su alcune prassi, che non rispondono al principio del rispetto della personalità: così, le cosiddette «flessioni», cui si ricorre chiedendo soltanto di mostrare le parti intime, senza operare alcun accertamento (solo in presenza di ragionevoli e giustificati motivi, si può operare la perquisizione, ma accompagnata da effettivi accertamenti con strumentazione adeguata); così, l'uso di cani nel corso delle perquisizioni, impiegati sovente solo per intimidire, è consentito invece solo quando si tratti di cani impiegati per la ricerca di sostanze cui sono addestrati. È possibile pensare che disposizioni di questo tipo siano troppo specifiche per essere previste dalla legge, ma sta di fatto che, in questi aspetti, si evidenziano negazioni della dignità delle persone particolarmente avvilenti e si secondano, per converso, le deformazioni del rapporto fra gli operatori e i reclusi e la convinzione dei primi che la mortificazione dei secondi sia il modo di mantenere il controllo della situazione. I commi 6 e 7 indicano i casi ordinari di perquisizione: fuori dagli stessi è necessario un provvedimento motivato del direttore.
      Al comma 8, un'ultima disposizione. Le perquisizioni sono effettuate con il personale in servizio nell'istituto. Si vuole evitare che si formino e vi provvedano reparti speciali, interessati in buona parte a creare un clima di soggezione nei detenuti e negli internati.
      La modifica dell'articolo 35, introdotta con l'articolo 46 della proposta di legge, è attuazione della sentenza costituzionale n. 26 dell'11 febbraio 1999, di cui già si è detto al n. 3 delle indicazioni generali di questa prima parte della relazione. Va aggiunta qualche precisazione sulle soluzioni proposte nell'articolato.
      Vanno precisati alcuni punti che il testo della proposta di legge ha cercato di affrontare e di risolvere.
      Una prima precisazione riguarda la mancata previsione di un termine per il reclamo. Due sono le ragioni di tale scelta: la prima è che l'articolo 35, per i reclami ivi previsti, non prevede alcun termine per la proposizione degli stessi. La seconda è che, in molti casi, l'interesse al reclamo si definisce in presenza di situazioni di cui è difficile precisare una data esatta o dal protrarsi o dal ripetersi di certe condotte, anche queste spesso non definitive e non sempre pienamente conosciute.
      La seconda precisazione, al comma 2, riguarda l'oggetto del reclamo. Manca spesso uno specifico provvedimento rispetto al quale si intende reclamare e si è cercato, pertanto, di indicare una serie di situazioni dalle quali, comunque, può derivare la violazione di un diritto o - equivalente - una condizione del detenuto o del reclamante difforme da quella prevista dalla legge.
      Una terza precisazione, al comma 5, riguarda il potere del magistrato di sorveglianza di rilevare le «situazioni di gestione degli istituti che condizionano il provvedimento reclamato, specificando tali condizionamenti ed individuando a chi siano addebitabili». Pensiamo alla mancanza di lavoro o alla mancanza di interventi sanitari, che possono derivare e deriveranno prevalentemente dalla mancanza di risorse economiche, messe a disposizione dalla amministrazione centrale.
      Quarta precisazione, al comma 8, riguarda la affermazione del carattere vincolante, per la amministrazione, del provvedimento che decide sul reclamo. Si può ricordare la questione della vincolatività o meno degli ordini di servizio del magistrato di sorveglianza nei confronti della amministrazione penitenziaria, che caratterizzò i primi anni di applicazione della legge penitenziaria. Su questa questione sono già intervenute le modifiche dell'articolo 69, comma 6, portate dalla legge 10
 

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ottobre 1986, n. 663, ma è bene ribadire il concetto.
      L'articolo in esame affronta e risolve anche il rapporto fra questo reclamo e quelli previsti dal comma 6 dell'articolo 69 del testo vigente, in materia di disciplina del rapporto di lavoro interno e in materia disciplinare. Appare logico riportare anche quei reclami nell'ambito della possibilità generale di reclamo. Nella nuova collocazione si prevede che il reclamo in materia disciplinare, per essere efficace, deve essere esteso anche al merito del provvedimento reclamato: è in giuoco il diritto a non essere punito ingiustamente.
      L'articolo 47 della proposta di legge aggiunge un comma 2 al testo vigente dell'articolo 36, sottolineando che l'intervento disciplinare deve tenere conto del programma di trattamento e viceversa: in altre parole, si deve essere attenti a non intervenire o a come intervenire per non interrompere un percorso avviato di recupero e riabilitazione.
      L'articolo 49 della proposta di legge interviene sull'articolo 38 del testo attuale, in primo luogo spostando i commi 2,3 e 4 all'articolo successivo, relativo alle sanzioni disciplinari, cui tali disposizioni sono pertinenti. In secondo luogo si aggiunge il nuovo comma 2, affrontando e risolvendo un problema che trova generalmente, in difetto della precisazione in questione, una soluzione opposta. Ci si riferisce alla infrazione disciplinare prevista dall'articolo 77, comma 1, numero 10), del citato regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000, «atti osceni o contrari alla pubblica decenza». La precisazione del comma 2 è la seguente: «Ai fini della configurazione di determinati illeciti penali e conseguentemente di quelli disciplinari, la camera di pernottamento dei detenuti e degli internati, anche se sottoposta al controllo visivo del personale penitenziario, non è luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico». Che la camera di pernottamento non sia luogo pubblico o aperto al pubblico pare indubbio, ma, nel quadro della stessa nozione di «pubblicità», si esclude anche che sia un luogo esposto al pubblico. La presenza di un potenziale controllo del personale sull'interno della camera e su quanto vi avviene opera nel quadro delle nozioni di ordine e di sicurezza che nulla hanno a che vedere con quella di pubblicità: c'è, in sostanza, un «privato» del detenuto e dell'internato che non può divenire «pubblico» solo perché potenziale oggetto di controllo.
      L'articolo 50 della proposta di legge modifica l'articolo 39, relativo alle sanzioni disciplinari, e ai primi tre commi recupera i commi tolti all'articolo precedente, che dettano alcune disposizioni generali in materia. I commi 4, 5 e 6 riprendono l'intero testo dell'articolo 39 vigente, con una sola aggiunta in fine del comma 6, con la quale si sottolinea l'anomalia della presenza in carcere di puerpere e donne che allattano la propria prole; se in esecuzione di pena, le stesse dovrebbero essere scarcerate; se in custodia cautelare, la detenzione in carcere si giustifica solo se «sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza». I due commi finali, il 7 e l'8, riprendono, con minime modifiche, indicazioni del citato regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000, circa l'applicazione di una misura cautelare in attesa della definizione del procedimento disciplinare: si deve trattare di un intervento di assoluta urgenza in situazioni critiche dell'ordine dell'istituto.
      Anche l'articolo 41 del testo vigente, relativo all'impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati, è modificato dall'articolo 52 della proposta di legge. Al comma 2 si sottolinea la esigenza che la forza impiegata sia proporzionata alla attività violenta che l'ha provocata e si vieta che sia accompagnata o seguita da atti aventi finalità punitive, intimidatorie e comunque degradanti. Rispetto al testo vigente che, al comma 3, consente l'uso di mezzi di coercizione fisica previsti dal regolamento, si rende esplicito nella stessa legge che l'unico mezzo di coercizione può essere rappresentato dalle manette, uso assolutamente limitato nel tempo. Una piccola modifica al comma 3 del testo della proposta di
 

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legge: l'informazione degli operatori al direttore deve essere data attraverso un verbale che riferisca quanto accaduto.
      L'articolo 53 della proposta di legge modifica l'articolo 42 del testo vigente, sui trasferimenti, prevedendo il diritto dei reclusi ad essere assegnati ad un istituto prossimo alla residenza della famiglia, salve controindicazioni circa il mantenimento o la ripresa di rapporti con la criminalità organizzata. Questo comma è aggiunto, mentre resta l'altro, già previsto, delle possibili motivazioni dei trasferimenti, dipendenti sia da ragioni di sicurezza, sia da esigenze dell'istituto, sia da esigenze dei detenuti e degli internati.
      Qualche novità anche in materia di traduzioni: articolo 54 della proposta di legge e 42-bis del testo vigente. È modificato il comma 3, relativo ai soggetti di competenza dei centri per la giustizia minorile, nel senso che si sottolinea la transitorietà della situazione, che dovrà essere affrontata dal nuovo ordinamento penitenziario minorile, nella parte in cui dovrà regolare «una nuova e autonoma organizzazione del personale». Al comma 4 si dispone che i mezzi di trasporto impiegati nelle traduzioni devono assicurare posto sufficiente, circolazione d'aria e temperature adeguate alla stagione. Al comma 7 la modifica riguarda l'uso degli abiti civili in tutte le traduzioni per tutti i detenuti e internati e al comma 8 la possibilità per il personale, quando risulti opportuno a giudizio della direzione dell'istituto, di svolgere le traduzioni in borghese. Questo deve sempre avvenire nelle traduzioni dei minori.
      Anche l'articolo 43 del testo vigente subisce, nell'articolo 55 della proposta di legge sulle dimissioni dei reclusi dagli istituti, qualche modifica, sostanzialmente di aggiornamento. Viene meno la presenza del consiglio di aiuto sociale, ormai non più operante e, con questa proposta di legge, soppresso, mentre la posizione più impegnata è affidata al centro di servizio sociale per adulti, che deve coinvolgere la rete sociale dei servizi.
      L'ultima modifica per questo capo è nell'articolo 56, già 44 del testo vigente. La modifica è singolare, contenuta nel comma 3: si dispone che «Non può essere applicata per la salma del detenuto o dell'internato alcuna disciplina diversa da quella ordinaria». Il riferimento è a regolamenti comunali che contengono disposizioni speciali in materia. La disposizione, già contenuta nel testo vigente, per cui la salma è messa immediatamente a disposizione dei congiunti, dovrebbe ritenersi sufficiente, ma sembra utile anche una specifica precisazione.
      Come si è già accennato, gli articoli 45 e 46 del testo vigente non sono stati inseriti nel nuovo testo. La normativa relativa all'oggetto degli stessi è sviluppata nel titolo IV della presente proposta di legge.

Parte seconda. Relazione sul titolo II.

      Per la rilevanza e la autonomia delle materie trattate nei tre capi del titolo II conviene dividere la relazione con riferimento ai temi trattati negli stessi. Quindi, si riferirà in merito a:

          Sezione I - Le modifiche al capo I sulle misure alternative alla detenzione.

          Sezione II - Le modifiche al capo II in materia di esecuzione dei trattamenti penali diversi dalla pena detentiva, capo che presenta molte parti del tutto nuove.

          Sezione III - Le modifiche al capo III sulla magistratura di sorveglianza.

Sezione I. Le modifiche al capo I del titolo II sulle misure alternative alla detenzione.

Alcuni princìpi e finalità generali.

A. L'accesso alle misure alternative nella giurisprudenza costituzionale.

      Con le modifiche che si propongono si vuole favorire un più esteso ricorso alle misure alternative alla detenzione. Indubbiamente

 

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la applicazione abbastanza limitata delle stesse deriva anche da gravi deficienze organizzative nei vari sistemi interessati (penitenziario, socio-assistenziale e giudiziario), cui si cerca di provvedere in altre parti di questa stessa proposta di legge.
      Ma si vuole cogliere qui la essenzialità, nello sviluppo del percorso penitenziario-riabilitativo dei condannati, della fase alternativa alla detenzione. Su questo punto è stato inserito un articolo preliminare, che è divenuto il 57 della proposta di legge, formato dalla citazione di parti delle sentenze della Corte costituzionale in materia, dalle quali si ricava che il passaggio alla misura alternativa non è uno sviluppo eccezionale, ma deve essere considerato la conclusione ordinaria della esecuzione penale. Il che, si sottolinea, vale anche, secondo la stessa logica, nei numerosi casi in cui la esecuzione in carcere è stata solo parziale o non vi è stata, in quanto si attribuisce al percorso comunque compiuto in libertà, dopo il reato e prima della esecuzione, la stessa efficacia di valutazione. Si deve ricordare, qui, che la scelta della Corte costituzionale è spiegata, certamente con il riferimento al testo dell'articolo 27, terzo comma, della Costituzione, ma è sostenuta anche con un richiamo alla efficacia di una tale scelta, contrapponendo alla «inadeguatezza» della pena detentiva «a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale» la «idoneità» delle misure alternative «a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione della risocializzazione» (sentenza della Corte costituzionale n. 343 del 1987).
      Dunque: l'articolo 57 della proposta di legge sintetizza l'insegnamento della Corte costituzionale, estraendone le citazioni più significative della giurisprudenza. Si devono, però, inquadrare quelle citazioni nella lunga riflessione operata dalla Corte.
      La giurisprudenza della stessa si sviluppa in due tempi: il primo, di poco precedente l'approvazione del nuovo ordinamento penitenziario del 1975, e il secondo sviluppatosi dalla metà degli anni ottanta in poi, seguendo e condizionando le modifiche legislative del 1986 (la legge Gozzini) e tutti gli interventi normativi ulteriori.
      Il primo tempo: la sentenza costituzionale n. 204 del 1974, secondo e terzo capoverso del n. 2 della motivazione in diritto. Vi si legge: «Con l'articolo 27, comma terzo, della Costituzione, il fine ultimo e risolutivo della pena stessa, quello, cioè, di tendere al recupero sociale del condannato (...) ha assunto un peso ed un valore più incisivo di quello che non avesse in origine; rappresenta, in sostanza, un peculiare aspetto del trattamento penale e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo per il legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle. Sulla base del precetto costituzionale sorge, di conseguenza, il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo e tale diritto deve trovare nella legge una valida e ragionevole garanzia giurisdizionale».
      In questa sentenza troviamo l'affermazione di un principio, costruito come diritto soggettivo del condannato a vedere riesaminare, durante la esecuzione della pena, nei tempi e modi stabiliti dalla legge ordinaria, se la parte di pena espiata abbia già assolto positivamente o meno al suo fine rieducativo. Si noti che la individuazione di tale diritto soggettivo è centrale nella sentenza, perché dal riconoscimento di tale posizione giuridica del soggetto derivano la affermazione della competenza a decidere del giudice ordinario in materia di liberazione condizionale e la dichiarata incostituzionalità della competenza del Ministro della giustizia, prevista dalla normativa allora vigente. Nella sentenza costituzionale si costruisce, in modo esplicito, il rapporto esecutivo penale come quello in cui lo Stato afferma la sua pretesa punitiva e il condannato ha però il
 

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diritto soggettivo che si è descritto, nato, come la sentenza chiarisce, dall' «obbligo tassativo, per il legislatore, di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle». I mezzi erano rappresentati, nel 1974, dalla sola liberazione condizionale, a cui si sarebbero aggiunte, di lì a poco, le altre misure alternative; mezzi, tutti, che agevolano la effettiva realizzazione della finalità riabilitativa della pena. E le forme atte a garantire l'impiego di quei mezzi, erano quelle giurisdizionali, gestite da un giudice.
      Secondo tempo della giurisprudenza costituzionale. Si possono citare alcuni passi significativi della sentenza n. 343 del 1987 della Corte, che, riportandosi alla sentenza n. 204 del 1974, fa ormai esplicito riferimento alle misure alternative alla detenzione previste dall'ordinamento penitenziario. In tale sentenza, già anticipata prima, dopo avere rilevato «la crisi congiunta della pena e delle misure clemenziali, rivelatesi inadeguate, la prima, a svolgere il ruolo di unico e rigido strumento di prevenzione generale e speciale, le seconde, a promuovere reali manifestazioni di emenda», si prosegue e si osserva: «Di qui la tendenza a creare misure che, attraverso la imposizione di misure limitative - ma non privative - della libertà personale e l'apprestamento di forme di assistenza, siano idonee a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione della risocializzazione»: vedi parte iniziale del n. 2 della motivazione in diritto. Sono queste le misure alternative della legge penitenziaria e, su di queste, la sentenza osserva ancora (ripetendo alla lettera la sentenza n. 204 del 1974): «Giova ricordare che sul legislatore incombe l'obbligo di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle»: vedi la parte finale del n. 6 della motivazione in diritto. Non si può non rilevare la concretezza con cui la sentenza richiama a questo obbligo, osservando che sarà anche possibile che le misure in questione manchino di efficacia quando scontino «le ben note carenze strutturali e finanziarie», inerenti al sistema organizzativo che deve seguire e fare attuare le misure, e le «oggettive difficoltà di attuazione della prescrizione relativa al lavoro, non corredata da strumenti atti a fornirne la disponibilità» (vedi sempre la parte finale del n. 6 della motivazione in diritto anche in riferimento a quanto indicato nel terzo capoverso del n. 3 della stessa sentenza), ma ciò non toglie che quella strada vada perseguita, eliminando carenze e inadeguatezze del sistema operativo.
      Sembra chiaro che la costituzionalizzazione investe, qui, d'altronde, a conferma di quanto già detto dalla sentenza n. 204 del 1974, gli strumenti necessari alla attuazione del principio affermato nella stessa sentenza e il sistema organizzativo indispensabile per il funzionamento di quegli strumenti. Il che vuol dire: costituzionalizzazione delle misure alternative alla detenzione in fase esecutiva e del sistema organizzativo necessario per il funzionamento delle stesse. L'impostazione costituzionale la ritroviamo espressa in molte altre sentenze, nelle quali è costante il richiamo alla n. 204 del 1974 e ai princìpi e agli strumenti della flessibilità della esecuzione della pena (sentenze nn. 282 del 1989, 125 del 1992, 306 del 1993, 68 del 1995, 186 del 1995, 173 del 1997, 445 del 1997, 137 del 1999). Se vogliamo, i vari e più recenti interventi della Corte costituzionale sono volti proprio ad individuare situazioni di rigidità che contrastano con il principio di flessibilità e a rimuovere le prime per riaffermare il secondo. Anche nella difficile situazione normativa di cui al decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, alcune delle sentenze citate si impegnano nella difesa dei possibili spazi di flessibilità. E questo significa: difesa costituzionale della ammissibilità alle misure alternative.
      E, all'esito di queste rilevazioni, si riporta una citazione particolare e conclusiva per una sentenza costituzionale già menzionata, la n. 282 del 1989 (parte iniziale del
 

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n. 8 della motivazione in diritto): «(...) essere ammessi alla liberazione condizionale costituisce, per il condannato che si trovi nella situazione di cui all'articolo 176, primo comma, del codice penale, diritto e non graziosa concessione (...). La decisione di questa Corte n. 204 del 1974 espressamente riconosce che, sulla base dell'articolo 27, terzo comma della Costituzione, "sorge il diritto per il condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma di diritto sostanziale, il protrarsi della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo". Non vi è dubbio, pertanto, che, una volta accertato che il condannato versa nelle condizioni di cui al primo comma dell'articolo 176 del codice penale, (...) essendo venuta a mancare la "ragione" della pena detentiva, il tribunale di sorveglianza ha il dovere, esperite tutte le formalità relative, di porre il condannato nello stato di liberazione condizionale. Appunto perché nulla lo Stato ha graziosamente concesso e nulla il condannato deve allo Stato per l'ammissione alla liberazione condizionale, gli obblighi derivanti dalla libertà vigilata di cui all'articolo 230, numero 2), codice penale (applicati per la attuazione della liberazione condizionale: nota di chi scrive) non costituiscono "corrispettivo" di una qualunque concessione (...) ma trovano razionale fondamento, ex articolo 27, terzo comma, della Costituzione, nel sostegno e controllo che essi possono e devono offrire alla prova in libertà del condannato».
      Da questa giurisprudenza e dalla riflessione che esprime deriva direttamente l'articolo 57 della proposta di legge che, nella quasi totalità, è composto dalle citazioni delle sentenze costituzionali.
      Al comma 1 si riporta la citazione della sentenza n. 204 del 1974, che individua il diritto soggettivo del condannato «a che, verificandosi le condizioni poste dalla legge ordinaria, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo» (terzo capoverso del n. 2 della motivazione in diritto).
      Al comma 2, ancora una citazione della stessa sentenza: «Il sistema normativo deve tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma predisporre anche tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle» (secondo capoverso del n. 2 della motivazione in diritto).
      Al comma 3 la citazione è quella della sentenza n. 343 del 1987. Al fine di realizzare le indicazioni date al comma 2, «sono stabilite le misure alternative alla detenzione o di prova controllata, che, attraverso prescrizioni limitative, ma non privative, della libertà personale e l'apprestamento di forme di sostegno, siano idonee a funzionare come strumenti di controllo sociale e di promozione alla risocializzazione» (vedi parte iniziale del n. 2, sia il terzo capoverso del n. 3, sia la parte finale del n. 6 della motivazione in diritto).
      Al comma 4 il riferimento è ancora alla sentenza n. 343 del 1987, dalla quale si ricava che il funzionamento di tale sistema deve essere assicurato attraverso la creazione e il mantenimento di una organizzazione adeguata a svolgere le funzioni di controllo e di assistenza indicate nel comma precedente: vedi la citazione del comma 3, con particolare riferimento all'ultima parte del n. 6 della motivazione in diritto.
      Al comma 5 si traggono le conclusioni a tali premesse, richiamando la sentenza costituzionale n. 282 del 1989, parte iniziale del n. 8 della motivazione in diritto, che si è citata ampiamente e alla cui citazione si rimanda. Il primo periodo del comma 5 riporta direttamente le parole della sentenza della Corte. A queste si è aggiunta soltanto la parola «continuativa», tenendo presente che fra le misure alternative c'è anche la semilibertà, che è considerata una modalità di esecuzione della pena detentiva, ma ha la caratteristica, appunto, di non essere eseguita continuativamente in carcere, ma con periodi di libertà alternati a periodi di detenzione.
      Sempre nel comma 5, ma nel secondo periodo, si sottolinea una conseguenza
 

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implicita della giurisprudenza costituzionale: che le misure alternative non sono un intervento eccezionale, ma, al contrario, un intervento ordinario e necessario attraverso il quale, in alternativa parziale o totale al carcere, la pena viene eseguita. E questo, ancora implicito nella giurisprudenza, è vero anche nei casi in cui la legge ordinaria lo preveda nei confronti delle persone in stato di libertà.
      È parso utile aggiungere qui il comma 6, nel quale si chiarisce che l'organo giudiziario competente in proposito è rappresentato dalla magistratura di sorveglianza, la quale è presente dalla fase di esecuzione della pena detentiva, con la funzione di promuovere la definizione e lo sviluppo, da parte degli organi penitenziari, del percorso di reinserimento sociale del condannato, di seguire e stimolare la realizzazione di tale percorso attraverso gli interventi di sua competenza, come i permessi di risocializzazione, e di intervenire, poi, nei tempi e con le modalità previsti, a disporre il passaggio alle misure alternative.
      In sostanza: nel momento valutativo e decisionale sulla ammissione alle misure alternative nella ricorrenza delle condizioni di legge, si cerca di evidenziare la rilevanza del criterio della utilità, o, meglio, della indispensabilità, della fase alternativa al carcere in un percorso penitenziario che ha già manifestato segni chiari di assunzione di responsabilità, che possono essere rappresentati, ad esempio, dalla regolare fruizione di permessi di risocializzazione o anche dalla proficua adesione ad impegni trattamentali o, se teniamo sempre presenti anche i casi di decisioni nei confronti di soggetti in libertà, dalla avvenuta realizzazione, nel periodo di libertà, del percorso di reinserimento sociale. La decisione va, quindi, ancorata alla logica interna allo sviluppo del percorso rieducativo, che è una logica che tende alla misura alternativa come meta naturale della strada percorsa.
      Si dà così una oggettiva concretezza al criterio della meritevolezza, che si disincaglia da fumosi dati soggettivi e si imposta sui «progressi nel trattamento», come è esplicitato, ad esempio, nell'articolo 50 del testo vigente - articolo 66 della proposta di legge - in materia di semilibertà, e come è chiaro, comunque, anche nelle disposizioni relative alle altre misure alternative. Si aggiunge che non si farebbe un buon uso del criterio della meritevolezza se lo si agganciasse, invece, ai reati commessi o ai precedenti penali che, da antefatti che informano l'osservazione e il trattamento del soggetto (e, per tale via, il suo percorso penitenziario), rischiano, altrimenti, di divenire «pre-giudizi» nei suoi confronti. Il che deve fare ricordare la maggiore efficacia delle misure alternative rispetto alla esecuzione rigida della pena detentiva, maggiore efficacia che deve essere confermata anche per coloro che sono recidivi, in quanto se per questi venissero utilizzate raramente le misure alternative e venisse preferita la esecuzione in carcere non si farebbe che secondare il rischio criminogeno di tale esecuzione e strutturare il percorso delinquenziale della persona.
      A queste riflessioni si può aggiungere che è molto pericoloso non l'uso, ma l'abuso dell'articolo 79 della proposta di legge (4-bis nel testo vigente) e delle informazioni degli organi di polizia, rese indispensabili da tale norma per i delitti più gravi. La quale norma - si ricorda sempre - impone la richiesta di informazioni in merito ad una situazione attuale, si ripete attuale, su eventuali legami della persona alla criminalità, mentre le informative in questione solo molto raramente si attengono a tale indicazione e di regola, invece, si soffermano sui reati e i legami precedenti, esprimendo pareri sulla opportunità della concessione dei benefìci. Questo è disapplicazione della norma.
      È incontestabile la esigenza, già riconosciuta e soddisfatta prima che l'articolo 4-bis fosse introdotto, di conoscere le situazioni esterne in cui la misura alternativa si realizzerebbe: e, a tale fine, vi deve essere e vi è sempre una fase di verifica dei riferimenti esterni di inserimento e della loro validità, fase nella quale è richiesto l'intervento quadro del servizio sociale penitenziario, ma sono anche richieste
 

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specifiche informazioni degli organi di polizia. Non vi è dubbio, infatti, che la validità del percorso penitenziario non debba essere compromessa da inserimenti esterni a rischio di ripresa di legami delinquenziali. Ma tutto ciò deve fare parte delle eventuali controindicazioni alla ammissione alla misura alternativa, che possono anche essere decisive, fermo restando, però, che il giudizio centrale resta ancorato al positivo sviluppo della strada percorsa in esecuzione della pena o, per i soggetti in libertà, di quella realizzata nell'ambito sociale. Se la conclusione su questo punto è favorevole, bisogna motivare specificamente sulle verificate controindicazioni alla concessione, eventualmente rilevando in quale direzione si debba modificare, con ulteriore osservazione, il progetto di inserimento esterno per evitare quei rischi che dalle stesse controindicazioni derivano.
      In conclusione: sulla traccia dell'articolo introdotto nella proposta di legge e formato, in prevalenza, dagli enunciati della Corte costituzionale, in presenza dell'evolversi positivo della situazione del condannato, secondo le indicazioni e le condizioni di legge, il passaggio alla fase alternativa alla detenzione deve essere la regola, della quale va specificamente motivata la disapplicazione.

B. Limitazione temporale delle preclusioni alle misure alternative.

      È parso che sia maturo il tempo per riesaminare la legislazione introdotta con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, che escludeva, salva la collaborazione alla giustizia ex articolo 58-ter della legge n. 354 del 1975, la ammissibilità alle misure alternative di condannati per gravi reati, generalmente riferibili alla criminalità organizzata. Non va dimenticato che, fin dalla introduzione di questa normativa, la Corte costituzionale aveva espresso riserve sulla stessa (sentenza n. 306 del 1993, n. 11 della motivazione in diritto): «Non si può non rilevare come la soluzione adottata, di inibire l'accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione delle finalità rieducative della pena. Ed infatti la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai princìpi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di "tipi di autore", per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita». La Corte, dopo avere osservato che solo la ammissibilità alla liberazione anticipata, introdotta dalla citata legge di conversione, salva la normativa dal rilievo di incostituzionalità, rileva che, nonostante questo, la finalità rieducativa «rimane compressa in misura rilevante per la preclusione assoluta di tutte le misure extramurarie, delle quali il legislatore ha riconosciuto l'utilità per il raggiungimento dell'obiettivo di risocializzazione».
      Sono passati dodici anni dalla introduzione di una normativa che aveva le caratteristiche della eccezionalità e undici dalle considerazioni della Corte costituzionale. Vi è un dato nuovo, rappresentato dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279, che, nell'intervenire su quelle disposizioni, le ha modificate proprio con riferimento a due sentenze costituzionali, n. 357 del 1994 e n. 68 del 1995, inserendo nel testo dell'articolo 4-bis la citazione delle parti essenziali dei dispositivi di tali sentenze. Così che il terzo periodo del comma 1 dell'articolo 4-bis del testo vigente dispone: «I benefìci suddetti possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti di cui al primo periodo del presente comma purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere la attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un'utile collaborazione con la

 

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giustizia (...)». Tale modifica normativa ha indubbiamente l'effetto di risolvere molte situazioni, ma va rilevato che le valutazioni di cui alla norma in questione si prestano ad applicazioni eterogenee che, infatti, sino ad oggi, pure in presenza delle sentenze costituzionali, sono state molto diseguali. Di qui il contenuto della proposta di legge che assicura il mantenimento della detenzione per un periodo tutt'altro che breve nei casi in questione, superato il quale si recupera la ammissibilità alle misure alternative. Si noti che, comunque, resta la necessità di accertare che non vi sia in atto un collegamento con la aggregazione criminale, così che la ammissione concreta della persona comporta che si possa ragionevolmente ritenere che la stessa, pure dopo la commissione di quei gravi reati, possa accedere ad un regime di prova (che sarà, è evidente, adeguatamente controllato).

C. La liberazione condizionale fuori del sistema delle preclusioni.

      Si è ritenuto di non estendere alla liberazione condizionale il regime di inammissibilità alle misure alternative (salva la collaborazione con la giustizia), ora ricordato. La liberazione condizionale è stata pensata negli anni, in sostanza, come una possibilità sempre presente, alla quale venivano posti limiti, che potevano essere estesi o ridotti, ma che era innaturale fare arrivare, sia pure in casi limitati, alla esclusione della ammissibilità. Al proposito si deve ricordare che la sentenza della Corte costituzionale n. 264 del 1974 affidò, fra l'altro, la legittimità costituzionale della pena dell'ergastolo alla previsione della liberazione condizionale: non fu l'unica ragione, ma una ragione fondamentale che ha dato «tenuta» a questa giurisprudenza costituzionale anche in seguito.
      Ma un altro rilievo va fatto. La liberazione condizionale è stata oggetto della normativa limitativa alla ammissibilità alle misure alternative solo con il decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, che prevedeva, in effetti, l'aumento a due terzi della pena espiata (evidentemente riferendosi al limite di pena espiata della metà indicato nel primo comma dell'articolo 176 del codice penale) quale limite di ammissibilità al beneficio, contenendo, poi, un richiamo al regime stabilito per le misure alterative: sempre, quindi, un regime di restrizione, ma non di esclusione della ammissibilità. Era chiaro, però, che il riferimento alla disciplina delle misure alternative non riguardava le condizioni di ammissibilità, ma solo gli accertamenti da operare per verificare la permanenza dei legami di aggregazione alle organizzazioni criminali. Invece, nel decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, che contiene la esclusione alla ammissibilità alle misure alternative per i reati più gravi, non si fa alcuna menzione della liberazione condizionale. Si creava un problema interpretativo: il rinvio alle disposizioni sulle misure alternative, contenuto nella norma della legislazione restrittiva del 1991 relativa alla liberazione condizionale, poteva valere, senza altro intervento normativo, anche per la legislazione restrittiva del 1992? In altre parole: il rinvio del 1991 era limitato alla normativa vigente in quel momento e tenuta presente in quel momento, o doveva acquisire un contenuto diverso se quella normativa cambiava? Non si dimentichi quello che si è già osservato: che, cioè, il rinvio operato nella normativa del 1991 riguardava un tema diverso da quello delle condizioni di ammissibilità e cioè le disposizioni relative agli accertamenti da operare per verificare la permanenza o meno dei legami con la criminalità organizzata. Comunque, la questione interpretativa è stata risolta prevalentemente nel senso di ritenere valido il rinvio anche alla liberazione condizionale della normativa di inammissibilità (salva la collaborazione con la giustizia) del 1992.
      Allora: se è vero, come è vero, che la ammissibilità alla liberazione condizionale, anche nel variare delle condizioni

 

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attraverso una vicenda normativa lunghissima, è stata ritenuta una risposta naturale e logica che discendeva dal principio rieducativo della pena, così come affermato nella sentenza costituzionale, fondamentale in materia, n. 204 del 1974; se è vero, come è vero, che la inammissibilità (salva la collaborazione con la giustizia) alle misure alternative è estensibile alla liberazione condizionale in base ad una interpretazione tutt'altro che certa e persuasiva; non sembra opportuno intervenire nella questione escludendo la inammissibilità (salva collaborazione con la giustizia) per la liberazione condizionale? Si ritiene di dovere dare una risposta affermativa sul punto, ritenendo, in particolare, che questa sia la sede opportuna, in un quadro di riesame e di riorganizzazione generale della normativa penitenziaria, per arrivare a tale conclusione.

D. Non sono riducibili i livelli di flessibilità.

      Nella presente proposta di legge ci si preoccupa di dare maggiore razionalità ed efficacia in determinati settori ai livelli di flessibilità nella esecuzione della pena ovvero ai livelli di ammissibilità alle misure alternative raggiunti dalla normativa vigente. Si interviene anche per non rendere definitive ed insuperabili le limitazioni alla ammissibilità alle misure alternative introdotte dalla legislazione di emergenza contro la criminalità organizzata: come accennato prima alla lettera B, dove si è ricordata la giurisprudenza costituzionale che ha contenuto la applicabilità delle limitazioni, avanzando, inoltre, in linea generale, specifiche riserve e perplessità.
      Non si adotta, invece, la linea di una riduzione dei livelli di flessibilità raggiunti, nella convinzione che le disposizioni che li prevedono siano maturate attraverso una riflessione ragionevole ed equa circa la concreta applicazione del sistema.
      Va chiarito che il problema centrale investe la misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale, ordinario e terapeutico. Di riflesso, il problema interessa anche le altre misure alternative, in particolare la detenzione domiciliare, che, come l'affidamento in prova, calcola la ammissibilità sulla base della pena ancora da espiare (e non come la semilibertà, per la quale rileva la quota parte della pena espiata). L'affidamento in prova, d'altronde, è la misura alternativa che presenta il rilievo di gran lunga maggiore nell'area delle misure alternative o, come anche la si chiama, area penale esterna. Nel 2003 gli affidamenti seguiti dai centri di servizio sociale per adulti sono stati 30.467 (23.584 ordinari + 6.883 terapeutici). Le detenzioni domiciliari sono state 13.914 (11.322 ordinarie + 2.592 provvisorie). Molto inferiore il numero delle semilibertà. Per la rilevanza qualitativa e quantitativa della misura è sull'affidamento in prova che si concentra la riflessione che segue.
      Si è detto, dunque, che si ritiene di non potere adottare una linea di riduzione dei livelli di ammissibilità alle misure alternative, con particolare riferimento all'affidamento in prova al servizio sociale. Si ritiene che la dimostrazione di quanto si è ora detto possa svilupparsi su tre punti, tre punti che sono stati problemi rilevanti, ma anche problemi superati. Tali punti sono i seguenti e vengono esaminati in questo ordine:

          D1: la possibilità di ammissione alle misure alternative senza procedere alla osservazione in istituto;

          D2: la esecuzione delle pene non superiori a tre anni o a quattro anni, se tossico o alcooldipendenti, solo dopo la sospensione della pena stessa e la occasione data al condannato di richiedere ed eventualmente ottenere una misura alternativa;

          D3: il criterio di computo della pena detentiva ammissibile riferito alla parte residua della stessa da eseguire in concreto.

      Esaminiamo questi tre punti, cui aggiungeremo, sub D4, una considerazione conclusiva.

 

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      D1. La possibilità di procedere alla ammissione a misure alternative senza procedere ad osservazione in istituto o, come si dice, direttamente dalla libertà, trova il suo precedente in due previsioni della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (legge Gozzini):

          il comma 6 dell'articolo 50 della legge n. 354 del 1975, non sopravvissuto a successive modifiche, che consentiva, per le pene dell'arresto e della reclusione non superiore a sei mesi, la ammissione alla semilibertà «prima dell'inizio della espiazione della pena se il condannato ha dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale»;

          il comma 3 dell'articolo 47 della stessa legge, che disponeva: «L'affidamento in prova al servizio sociale può essere disposto senza procedere alla osservazione in istituto quando il condannato, dopo un periodo di custodia cautelare, ha goduto di un periodo di libertà serbando comportamento tale da consentire il giudizio di cui al precedente comma 2» (si trattava, in sintesi, del giudizio di «affidabilità» maturato attraverso la osservazione in istituto).

      Su questa seconda disposizione è intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza n. 569 del 1989, ha affermato la illegittimità costituzionale della stessa «nella parte in cui non prevede che, anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare, il condannato possa essere ammesso all'affidamento in prova al servizio sociale se, in presenza delle altre condizioni, abbia serbato un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al precedente comma 2 dello stesso articolo». Motiva la Corte che «infatti è irragionevole e privo di significato, in relazione alla finalità rieducativa della pena, escludere dall'affidamento in prova al servizio sociale chi non abbia subìto provvedimenti di custodia cautelare, tenuto conto che le misure cautelari coercitive possono essere applicate soltanto quando si procede per delitti per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, così che restano esclusi dall'affidamento in prova proprio gli autori dei reati più lievi».
      Allora: su questo primo punto di allargamento della ammissibilità alle misure alternative (e, quindi, dell'aumento del livello di flessibilità), punto concretamente rilevante, se è vero come è vero, che la ammissione delle misure alternative dalla libertà si aggira sul 70 per cento del totale, si deve prendere atto che la Corte costituzionale consente e approva la scelta operata dal legislatore ed anzi opera una rettifica in direzione di un ulteriore allargamento, escludendo non solo la necessità della osservazione in istituto, ma escludendo addirittura la esigenza di un preventivo e parziale periodo detentivo sofferto.
      Ma, nel difendere la scelta del legislatore, al di là dello specifico rilievo della Corte costituzionale, si possono menzionare anche le ragioni della stessa, risalenti agli interventi citati della legge n. 663 del 1986, che erano e sono ancora difficilmente contestabili. In sostanza, si voleva evitare che la esecuzione di una pena residua o anche la esecuzione della pena nella sua integrità, intervenendo a distanza di tempo dai reati commessi e, così, portando o riportando la persona in carcere, interrompesse un percorso di reinserimento sociale già compiuto dalla persona. Si noti che la conseguenza non era quella di non eseguire la pena, ma di eseguirla in un regime di misura alternativa: la condanna era eseguita in un regime diverso che consentiva il mantenimento del livello di inserimento raggiunto. È vero che veniva a mancare l'osservazione in istituto e, cioè, il normale strumento di valutazione per decidere sulla ricorrenza delle condizioni di merito alla concessione; ma è anche vero che avevamo una «osservazione sociale» in libertà significativa, alla quale si chiedeva esattamente lo stesso giudizio di affidabilità indicato nel comma 2 dell'articolo 47 della legge n. 354 del 1975 in esito alla osservazione in istituto. In sostanza, si assicurava, lo stesso livello di valutazione (se non migliore: in un mese o qualcosa di più in istituto non si poteva

 

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certo operare una valutazione e tanto meno una verifica analoghe a quelle fornite in libertà) e si evitava l'inconveniente grave di distruggere ciò che era già stato costruito. E l'attuazione della esecuzione non era affatto esclusa, ma si realizzava in un regime diverso, però più adeguato al caso, sempre salvi, si intende, la revoca della misura alternativa e il ritorno alla esecuzione detentiva.
      E allora la conclusione sul primo punto è che non si può tornare indietro rispetto agli spazi aperti alle misure alternative alla detenzione con la soluzione indicata.

      D2. Qui è in discussione una legge apposita, la legge 27 maggio 1998, n. 165, cosiddetta «legge Simeone-Fassone-Saraceni», che, attraverso la modifica dell'articolo 665 del codice di procedura penale, ha disposto, appunto, la temporanea sospensione della esecuzione delle pene non superiori a tre anni, o a quattro anni per i tossicodipendenti, accompagnata dall'avviso ai condannati della possibilità di avanzare, entro un termine breve, istanza di misura alternativa al tribunale di sorveglianza competente. La sospensione della esecuzione viene revocata se non viene proposta alcuna istanza nel termine o, se proposta, viene respinta.
      Questa normativa è stata introdotta per una manifesta esigenza di equità. In precedenza, ai sensi del comma 4 dell'articolo 47, ora modificato dalla stessa legge n. 165 del 1998, se l'istanza è «proposta prima dell'emissione o dell'esecuzione dell'ordine di carcerazione, è presentata al pubblico ministero o al pretore, il quale, se non osta il limite di pena di cui al comma 1, sospende l'emissione o la esecuzione fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, al quale trasmette gli atti». Era chiaro che tale sistema poteva funzionare solo per coloro che sapevano muoversi nelle procedure esecutive per la esperienza maturata in precedenza o perché adeguatamente assistiti da un difensore (anche questo con esperienza adeguata). E va detto che, anche per questi soggetti, l'esito era tutt'altro che sicuro, in quanto molto dipendeva dai tempi, più o meno solleciti, della fase esecutiva.
      Esisteva, quindi, una possibilità per il condannato che doveva essere sottoposto ad esecuzione di una pena detentiva, possibilità che era rimessa però alla buona sorte, che premiava, come spesso accade, i più esperti (il che non garantisce affatto che si tratti dei migliori) o i più provvisti di risorse difensive. Il che era evidentemente iniquo. Su questo è intervenuta la legge n. 165 del 1998 stabilendo un punto di partenza uguale per tutti, nei termini che si sono indicati.
      In tale modo non si eliminavano le disuguaglianze sostanziali fra le persone condannate, particolarmente con riferimento alle risorse diseguali delle stesse in ordine alle possibilità e alle risorse di inserimento sociale, utili ad ottenere le misure alternative. A questo proposito, subito dopo la entrata in vigore della legge n. 165 del 1998, il dipartimento della amministrazione penitenziaria invitava, con una propria circolare, i centri di servizio sociale per adulti a organizzare, anche con l'aiuto del volontariato, sportelli informativi sulle modalità di redazione e di presentazione delle istanze di misure alternative e sulle strutture sociali che avrebbero potuto agevolare l'inserimento sociale (compreso quello lavorativo, ma non solo) e favorire la effettiva ammissione alla misura alternativa. Era questa una occasione, e in qualche misura lo è stata e resta, nella quale una legge dello Stato svolgeva la funzione prevista dal secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione: di promuovere, cioè, la rimozione di disuguaglianze sostanziali e di stimolare l'inserimento sociale di fasce di persone che ne erano escluse.
      La legge in questione si preoccupava, comunque, di limitare la propria applicazione ai condannati per reati diversi da quelli previsti dall'articolo 4-bis del testo vigente.
      In conclusione, anche su questo secondo punto, non è giustificato un ritorno al sistema precedente, pur se è pacifico che il nuovo sistema deve funzionare meglio, evitando il protrarsi della sospensione

 

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delle esecuzioni per i tempi lunghi delle decisioni dei tribunali di sorveglianza. Ovvero, questi tempi lunghi non ci devono essere. Ma di ciò si dirà nella parte riservata al funzionamento della magistratura di sorveglianza.

      D3. Il calcolo per la ammissibilità della pena detentiva alle misure alternative è fatto non sulla pena inflitta, ma su quella residua da eseguire in concreto. Questo problema è stato particolarmente dibattuto per l'affidamento in prova al servizio sociale, anche se con ricadute sulle altre misure.
      Ora, è vero che tale problema trova ormai la sua risposta normativa nella legge Simeone-Fassone-Saraceni, di cui si è parlato, ma, dato che il tema viene spesso riproposto, è utile un riesame anche di questo punto.
      Il percorso giurisprudenziale e legislativo, prima di arrivare alla legge ora ricordata, è stato lungo e le varie tappe dello stesso sono state percorse per rispondere, con motivazioni che sono state sempre razionali, ad esigenze crescenti di allargamento degli spazi di ammissibilità alle misure alternative. Si tratta, quindi, di decidere se abbandonare questo percorso e fare marcia indietro.
      Si possono riepilogare per accenni le tappe del percorso indicato. Entrata in vigore nel luglio 1976 la normativa sulle misure alternative del nuovo ordinamento penitenziario, emerse subito una giurisprudenza della stessa Corte di cassazione, secondo cui, per la individuazione della pena ai fini dell'affidamento in prova al servizio sociale, dovevano avere rilevanza le eventuali cause di estinzione della pena o in genere tutti i fatti giuridici che implicassero un ridimensionamento della pena medesima rispetto a quella irrogata (vedi Cassazione sezione II, 26 aprile 1977, Bertini; Cassazione sezione I, 2 dicembre 1977, Grassi; Cassazione sezione I, 17 gennaio 1978, De Cinque). D'altronde, anche l'argomento letterale, riferibile al termine «pena inflitta», era tutt'altro che certo sia per la stessa ambiguità del termine, sia perché si correlava strettamente al termine «pena da scontare», che era determinato in base alla pena da scontare in concreto, dedotte le parti di pena non più eseguibili. Va aggiunto che la questione era stata affrontata e risolta in questo senso negli anni precedenti per la liberazione condizionale (Cassazione sezioni unite 15 dicembre 1973, Borelli).
      Tale giurisprudenza era regolarmente applicata e valeva anche per le altre misure alternative fino a che, proprio presupponendo la giurisprudenza ora citata, non interveniva la sentenza costituzionale 11 luglio 1989, n. 386, nella quale si legge: «L'articolo 47, comma 1 (...) è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede, ai fini della ammissibilità dell'affidamento in prova al servizio sociale, che nel computo delle pene, ai fini della determinazione del limite dei tre anni, non si debba tenere conto anche delle pene espiate. Tale disposizione viola, infatti, gli articoli 3 e 27, terzo comma, Costituzione, tenuto conto che nel computo anzidetto non si tiene conto delle pene già estinte e, quindi, a maggior ragione, non si deve tenere conto, agli effetti dell'affidamento, di pene che, essendo state espiate, hanno consentito una più lunga osservazione del comportamento e hanno potuto anche conseguire, sia pure parzialmente, oltre agli effetti necessariamente retributivi, quegli effetti di rieducazione e di recupero sociale che attengono alla funzione di prevenzione speciale.»
      Dopo questa sentenza costituzionale cominciava un periodo di incertezza per le giurisdizioni di merito, dovuto a due motivi.
      Il primo era rappresentato dalla sentenza della Cassazione a sezioni unite, 26 aprile 1989, Russo, che, mentre la Corte costituzionale, con la sentenza ora citata e di poco successiva, considerava diritto vivente la giurisprudenza risalente alla entrata in vigore della legge n. 354 del 1975 (e addirittura confortata da giurisprudenza analoga per la liberazione condizionale, ancora precedente alla citata legge, comprendente anche decisioni della Cassazione a sezioni unite), cambiava improvvisamente indirizzo affermando che la espressione «pena inflitta» doveva essere

 

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rigidamente interpretata come pena inflitta in sentenza. Il secondo motivo era rappresentato dal fatto che la ricordata sentenza della Corte costituzionale n. 386 del 1989 aveva deciso in un caso di concorso di pene cumulate e doveva essere limitata alla ipotesi in cui alcune delle singole pene cumulate erano state espiate, non al caso, più frequente per vero, di un'unica pena in esecuzione e di parziale esecuzione della stessa. Questa limitazione non sembrava ricavarsi chiaramente dai passi citati della sentenza, ma l'interpretazione restava, comunque, controversa.
      Si stava, però, arrivando ad una ulteriore tappa di questo travagliato percorso: l'intervento legislativo sul punto. La prima normativa ad essere toccata era quella degli articoli 90 e 94 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 sugli stupefacenti: sospensione dell'esecuzione della pena detentiva e affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari, misure relative ai tossicodipendenti. In precedenza, l'affidamento in prova in casi particolari, regolato dall'articolo 47-bis della legge n. 354 del 1975, si era modellato sulle condizioni di ammissibilità dell'affidamento in prova ordinario (due anni e sei mesi nella previsione iniziale del decreto-legge 22 aprile 1985, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 1985, n. 297, e tre anni con la successiva legge n. 663 del 1986). Invece, con un decreto-legge, rinnovato numerose volte, da quello iniziale, risalente al 1991 a quello finale 14 maggio 1993, n. 139, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 1993, n. 222, si portava il limite di ammissibilità da tre anni a quattro anni e si specificava che tale limite valeva anche se si trattava del residuo di una pena maggiore. Nel mentre queste disposizioni erano già applicate per i tossicodipendenti e gli alcooldipendenti, si arrivava all'intervento normativo anche per l'affidamento in prova ordinario. L'articolo 14-bis, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, stabiliva che «La disposizione del primo comma dell'articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui indica i limiti che la pena inflitta non deve superare perché il condannato possa beneficiare dell'affidamento in prova al servizio sociale, va interpretata nel senso che deve trattarsi della pena da espiare in concreto, tenuto conto anche dell'applicazione di eventuali cause estintive».
      Questa nuova normativa comportava nuovi interventi della Corte di cassazione, a sezioni unite, che, con sentenza n. 18 del 1993, riconosceva che la interpretazione da dare all'articolo 14-bis citato (che, pur essendo una norma di interpretazione autentica, ha avuto bisogno di ulteriore interpretazione addirittura da parte delle sezioni unite) era nel senso che dovevano ritenersi ammissibili al beneficio dell'affidamento in prova ordinario tutte le pene detentive non superiori ad anni tre, anche quale residuo di maggior pena. Era stata, intanto, chiamata a pronunciarsi anche la Corte costituzionale per la confusa situazione interpretativa esistente e per conoscere se fosse costituzionalmente ammissibile la interpretazione più larga (che calcolava la pena ammissibile sul residuo di pena comunque formatosi). È utile ricordare che la Corte, con sentenza n. 430 del 1993, chiariva che «deve peraltro escludersi che la (ormai così definitivamente acquisita) applicabilità della generalizzata misura alternativa di che si discute (in tutti i casi, quale che sia la entità della pena inflitta, in cui quella residua da espiare non superi i tre anni) possa contrastare con il precetto della ragionevolezza e della eguaglianza».
      Da questo momento le misure alternative assumevano una dimensione significativa: dai 4.961 affidamenti in prova (ordinari e terapeutici) del 1992 si passava ai 28.444 del 1997, prima ancora dell'entrata in vigore della legge n. 165 del 1998.
      Questa legge è l'ultima tappa del percorso e conferma la direzione della strada percorsa in precedenza: il comma 5 dell'articolo 656 del codice di procedura penale, così modificato, stabilisce che il particolare sistema di sospensione della esecuzione in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza sulla istanza di misura alternativa avanzata dall'interessato
 

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riguarda le pene detentive non superiori a tre anni o a quattro anni, per tossicodipendenti e alcooldipendenti, «anche se costituenti residuo di maggior pena». La legge n. 165 del 1998, come già detto, si è preoccupata di applicare il sistema dalla stessa introdotto solo ai reati diversi da quelli dell'articolo 4-bis.
      Poniamoci anche qui il problema: si può tornare indietro? La Corte costituzionale ha osservato che l'allargamento dell'affidamento in prova, ordinario e terapeutico, a tutte le pene residue non superiore ad anni tre o ad anni quattro non contrasta «con il precetto della ragionevolezza e della eguaglianza». Si può aggiungere che proprio questo allargamento ha segnato il raggiungimento di una dimensione significativa dell'area delle misure alternative, che pure resta a un livello inferiore rispetto a quella di altri Paesi europei. E la acquisita rilevanza di quella che viene chiamata area penale esterna sembra adempiere alla scelta costituzionale, descritta alla lettera A di questa parte, di dare alla flessibilità un ruolo centrale nell'ambito della esecuzione della pena.
      Aggiungiamo che sono proprio gli allargamenti nella ammissibilità all'affidamento in prova che hanno caratterizzato la crescita delle misure alternative e che l'affidamento riguarda in misura rilevante l'area detentiva di minore rilievo criminale (come detto, la legge n. 165 del 1998 non si applica ai reati di cui all'articolo 4-bis; quindi, in ordine a pene residue non superiori ad anni tre, si può essere ammessi all'affidamento in prova, anche per reati più gravi, ma solo nella fase finale di esecuzione della pena ed eventualmente dopo un periodo di semilibertà o anche dalla libertà, ma in casi del tutto eccezionali, possibili in base al comma 3 dell'articolo 47). L'affidamento in prova resta dunque lo strumento che contrasta la crescita inaccettabile del carcere. L'indebolimento dell'affidamento darebbe campo libero al sovraffollamento e alla cattiva gestione conseguente degli istituti di pena.
      Non si trovano ragioni persuasive per tornare indietro dai livelli di flessibilità raggiunti nella esecuzione della pena.

      D4. In esito a questa riflessione sul mantenimento del livello di flessibilità della esecuzione, è utile ricordare i risultati di una recentissima ricerca sui livelli di recidiva degli ammessi all'affidamento in prova al servizio sociale. La ricerca, denominata «Misura», è stata svolta dalla università di Firenze e dal provveditorato regionale della amministrazione penitenziaria della Toscana e dai centri di servizio sociale per adulti toscani.
      Va rilevato che si tratta di un intervento significativo e abbastanza nuovo, anche se avrebbe potuto essere effettuato da tempo per verificare se e quali vantaggi offrano le misure alternative rispetto alla esecuzione della pena in carcere.
      La ricerca ha portato a queste conclusioni. Su 152 casi di affidamenti, ordinari e terapeutici, eseguiti presso i centri di servizio sociale per adulti toscani, sono ricaduti nel reato, nei cinque anni successivi alla conclusione della prova, 34 soggetti, dei quali 28 tossicodipendenti e solo 6 estranei a tale condizione. La ricerca sinteticamente ha verificato:

          che la ricaduta nel reato, fatte le proporzioni fra gli affidati con problemi di tossicodipendenza (anche se in affidamento ordinario, che prevedeva, però, fra le prescrizioni, lo svolgimento di un programma terapeutico) e coloro senza tali problemi, oscilla fra il 27 per cento, per i primi, e il 12 per cento, per i secondi: quindi con l'esito positivo, della non ricaduta nel reato nei cinque anni successivi alla conclusione della prova, variante dal 73 per cento dei primi all'88 per cento dei secondi;

          che la grande maggioranza dei soggetti esaminati proveniva da lunghe storie di devianza penale (plurirecidivi), che il passaggio dalla misura alternativa ha interrotto nei casi di successo percentualmente elevati sopra indicati;

          che le statistiche fornite sulla ricaduta nel reato di coloro che espiano la pena in carcere (la ricerca non aveva, né poteva avere, un proprio campione di confronto, che avrebbe riguardato solo i

 

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non meritevoli delle misure) è stimata, per ricerche precedenti, nell'ordine del 75 per cento circa: non ricade nel reato, pertanto, solo il 25 per cento dei soggetti;

          che il problema più rilevante resta indubbiamente quello dell'intervento sulla tossicodipendenza, ancora molto limitato e da potenziare in ordine alla idoneità dei programmi terapeutici esterni e alla preparazione dell'adesione agli stessi degli interessati.

      La ricerca, comunque utile, è stata effettuata in tempi brevi e potrà essere sviluppata nelle dimensioni, negli approfondimenti e nei confronti. Ma la superiorità delle misure alternative rispetto alla esecuzione della pena in carcere nell'evitare la recidiva e, quindi, nel contenimento della devianza, sembra incontestabile.
      La conclusione deve essere questa: il sistema della flessibilità nella esecuzione della pena e delle misure alternative può essere migliorato e reso certamente più efficace. Sembra del tutto irragionevole pensare ad una sua restrizione.

Interventi specifici sulle misure alternative.

A. Premessa.

      Nei paragrafi successivi si farà riferimento agli interventi specifici su singole misure alternative, nonché su situazioni particolari, che richiedevano adeguamenti normativi.
      Così gli interventi sull'affidamento in prova per conservare allo stesso la caratteristica di misura che cerca il reinserimento sociale dell'interessato, affidata in modo esclusivo alla gestione del servizio sociale e al personale di questo. Così gli interventi sulle altre misure alternative e in particolare su semilibertà e liberazione condizionale, della seconda delle quali si cerca, attraverso modeste modifiche, l'attrazione nell'ambito delle misure alternative. La separazione da queste della liberazione condizionale sembra dovuta essenzialmente alla sua diversa storia normativa, non a ragioni di sistema, rappresentando proprio, nella giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 204 del 1974 e successive), la «apripista» di quel sistema. Oltre ad altri interventi relativi a singole disposizioni, si affronta un tema che è emerso nella casistica di questi anni, tema di vecchia data, ma che ha richiamato nuove attenzioni. È quello della esecuzione della pena a molta distanza di tempo dai fatti. Si è cercato di cogliere i vari aspetti di una tale situazione e di dare risposte al riguardo.
      Molte delle modifiche nascono anche dalle esperienze acquisite in un ormai lungo, anche se controverso, periodo applicativo. Non è male puntualizzare qui quali siano le ragioni di fondo di questi interventi. Le ragioni, in sintesi, riguardano la efficacia delle misure alternative, valutata in relazione a quella che è la loro finalizzazione: quella di sostenere il percorso riabilitativo del condannato in una fase decisiva della esecuzione della pena e di consentire che quel percorso faccia capo al suo effettivo reinserimento sociale. Se si vuole sottolineare questo punto è perché vi sono state, prevalentemente nella magistratura, compresa parte di quella di sorveglianza, più che tra gli operatori penitenziari, preoccupazioni sul rischio che le misure alternative vanificassero i caratteri essenziali della pena: erano, certamente, alternative a questa, ma dovevano restare, per così dire, «penose», mantenere una linea punitiva capace di dissuadere dal ritorno al reato.
      È un tema che può sconfinare facilmente nell'ideologico, mentre qualche precisazione può evitare questo rischio. La misura alternativa è ormai pacificamente riconosciuta come una modalità di esecuzione della pena (la più recente modifica della liberazione anticipata l'ha ammessa anche per i periodi di affidamento in prova al servizio sociale, cioè per la misura più ampia e pacificamente non detentiva). Ma questo non toglie che la struttura della misura alternativa è quella indicata dalla legge e che è stata la legge

 

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a pensare i suoi limiti e condizioni e che non deve rientrare tra le preoccupazioni di chi applica la legge di aggiungere altre limitazioni o di ampliare, sempre e comunque, quelle previste, anche quando non appaiono necessarie. Ricordare, allora, e richiamare al criterio di valutazione indicato all'inizio - quello, cioè, della efficacia delle misure al fine del reinserimento sociale - diventa necessario. Su quel criterio si dovrà valutare come sia meglio procedere.
      Si possono fare degli esempi. È diventata molto comune, praticamente costante, in molte sedi, la applicazione, nell'affidamento in prova, della prescrizione della permanenza nella abitazione in un periodo più o meno lungo della notte. A prescindere da ciò che tale prescrizione comporta nella quotidianità di una persona, specie quando si riferisce a tutti i giorni, sino a che il sistema di controlli del servizio sociale penitenziario non sarà completo, ciò significa controllo degli organi di polizia, con tutte le inesorabili pesantezze di questo. Ciò può rappresentare un elemento di distorsione del rapporto con il servizio sociale, rapporto che è, invece, centrale nello svolgimento della misura. E analoga prescrizione può condizionare la stessa possibilità dell'affidamento in prova in casi particolari da realizzare presso una comunità terapeutica, molte delle quali non accettano persone sottoposte a controllo di polizia, proprio per i problemi che comportano nell'ambito comunitario.
      Con riferimento a queste considerazioni, si è anche intervenuti normativamente su certe prescrizioni, che restano, comunque, in gran parte rimesse alla discrezionalità di chi applica la legge.

B. Affidamento in prova al servizio sociale.

      L'articolo 57 della proposta di legge traduce in testo normativo le indicazioni della giurisprudenza costituzionale in materia. Su questo punto si è scritto diffusamente alla lettera A della parte generale di questa sezione («Alcuni princìpi e finalità generali»).
      All'articolo 58 della proposta di legge è riscritto in parte l'articolo 47 sull'affidamento in prova al servizio sociale.
      La modifica del comma 1 dell'articolo 47 non fa altro che aggiornare il testo alla nuova normativa intervenuta.
      La modifica al comma 3 dà praticabilità alla previsione generale contenuta nel testo vigente e chiarisce che, pur in presenza del regime di sospensione della esecuzione ex articolo 656 del codice di procedura penale, resta possibile il sistema precedente di proposizione della istanza di misura alternativa nella fase precedente alla esecuzione della pena e in prevenzione rispetto alla esecuzione della stessa. Si noti che il testo attuale del comma 3 è quello modificato proprio dalla legge 27 maggio 1998, n. 165 (legge Simeone-Fassone-Saraceni), per cui è indubbio che lo stesso conviva con il sistema ordinario di cui all'articolo 656 del codice di procedura penale introdotto con la stessa legge. La portata pratica del comma 3 è di consentire, come in precedenza, la proposizione di istanza prevenendo la esecuzione nei casi in cui l'articolo 656 non è applicabile: cioè quelli di cui al comma 1 dell'articolo 79 di questa proposta di legge (già 4-bis), ultimo periodo. Tale inapplicabilità, infatti, è prevista solo nel nuovo testo dell'articolo 656, ma non è in alcun modo prevista nel testo dell'articolo 47, modificato dalla legge 27 maggio 1998, n. 165, citata. Premesse queste considerazioni, occorreva, però, chiarire le modalità di proposizione della istanza: e così è stato fatto.
      La modifica del comma 5 allinea il testo normativo alla prassi generale di previsione delle prescrizioni nella stessa ordinanza di ammissione.
      La modifica del comma 7 riporta la previsione normativa entro limiti che non si prestino a generalizzare l'onere del risarcimento del danno, cui condizionare la esecuzione della misura, onere che la norma non introduce affatto (ciò che è chiarito anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione). Si tratta di non inserire prescrizioni che gravino sul piano

 

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patrimoniale e che il condannato non possa adempiere. Le stesse verrebbero ad incidere sulla effettiva praticabilità del suo inserimento sociale quando, come spesso accade, le risorse economiche sono appena sufficienti ad assicurare il necessario a lui e al suo nucleo familiare. Il che non vuol dire che non possano essere date specifiche prescrizioni, in particolari situazioni e per particolari reati, quando il danno è certo, liquido ed esigibile e possono essere soddisfatti gli obblighi conseguenti senza danno al processo di reinserimento. In base a tali indicazioni, proprio per evitare generalizzazioni, si è sostituita la parola «deve» con la parola «può» e si è chiarito, cosa sempre rimasta indubbia, che il risarcimento del danno è sempre perseguibile nell'ambito della normativa che lo riguarda.
      Il comma 8 contiene una proposizione aggiuntiva per vietare una prassi abbastanza diffusa, ma che non sembra legittima: quella del magistrato di sorveglianza di modificare subito, a inizio misura, le prescrizioni date nella ordinanza ammissiva del tribunale, facendo valere visioni diverse ed eventualmente opposte a quelle tenute presenti dall'organo collegiale in sede giurisdizionale. Le modifiche delle prescrizioni, pertanto, devono sempre derivare dalle esigenze, di restrizione o di allargamento, che si manifestano nello svolgersi della prova.
      La introduzione del comma 9-bis (che diviene il comma 10, con la rinumerazione dei commi successivi) è indispensabile per riportare la esecuzione della misura nella esclusiva gestione del centro di servizio sociale per adulti affidatagli dalla legge, compresa l'attività di controllo sul rispetto delle prescrizioni, particolarmente di alcune per le quali la operatività del servizio sociale non è piena: come la prescrizione che riguarda la presenza notturna dell'affidato al domicilio, stabilita in vari casi. Per questo occorre indubbiamente che tale operatività sia potenziata (in tale senso si prevedono interventi su ulteriori figure del personale dei centri), ma ciò che è da escludere è il sovrapporsi di interventi di polizia a quelli di servizio sociale. L'eterogeneità di tali interventi disturba la linearità ed efficacia del rapporto che deve intercorrere fra affidato e servizio. A maggior ragione è assolutamente da escludere che nelle prescrizioni vengano introdotti rapporti fra affidato e organi di polizia, come presentazioni periodiche presso tali organi o simili. Tutto ciò è estraneo a un percorso di reinserimento sociale seguito e controllato da un apposito organo dello Stato, cui, come si è detto, la funzione è affidata dalla legge. In sostanza, l'affidato in prova non è un soggetto a rischio da sottoporre a vigilanza di polizia, ma è un soggetto sottoposto a prova controllata (sentenza della Corte costituzionale n. 343 del 1987), a seguito di una procedura giurisdizionale, che impegna la specifica attività di un sistema organizzativo apposito (il centro di servizio sociale per adulti) in una attività di sostegno e di controllo. Questo ovviamente non esclude che, nella loro attività di prevenzione generale, gli organi di polizia verifichino situazioni problematiche che concernono una persona affidata in prova al servizio sociale e ne riferiscano al magistrato di sorveglianza e al centro di servizio sociale per adulti competenti.
      Al comma 12 - 11 del testo vigente - si apporta una modifica che deriva dalla applicazione della regola stabilita proprio con la sentenza costituzionale n. 343 del 1987: il tribunale di sorveglianza che revoca l'affidamento deve rideterminare la pena residua secondo criteri spiegati nella sentenza e che si sono cercati di riassumere nel testo del comma.
      Resta la modifica del comma 12 - che diviene il comma 13 - la motivazione della quale è rinviata alla parte terza della presente relazione, in quanto riguarda essenzialmente gli effetti dell'affidamento in prova al servizio sociale sulle pene pecuniarie, le pene accessorie e le misure di sicurezza, alle quali appunto quella parte della relazione e il capo II di questo titolo II sono dedicati.
      Si è inserito come ultimo comma la parte dell'articolo 69-bis del testo vigente,
 

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che prevede la ammissibilità della liberazione anticipata per l'affidato in prova, e che è parsa la collocazione più conveniente. Nell'articolo compreso nel capo III, relativo alla magistratura di sorveglianza, restano le indicazioni processuali, mentre è parso più logico inserire qui la parte sostanziale, propria delle misure alternative.

C. L'affidamento in prova in situazioni particolari.

      Seguono due nuovi articoli, 59 e 60 della proposta di legge, che intervengono su situazioni che sono particolari o per le caratteristiche delle persone cui si riferiscono o per la situazione oggettiva in cui gli interessati si trovano.
      L'articolo 59 concerne le persone che si trovano in condizioni di disagio psichico o sociale.
      Come si vedrà più avanti, ma come si è accennato anche nelle pagine introduttive, la presente proposta di legge vuole soprattutto intervenire su quella vasta area della popolazione penitenziaria che è stata chiamata detenzione sociale. Rappresenta circa i due terzi dei reclusi e della stessa fanno parte tossico e alcooldipendenti, immigrati e, in minore, ma significativa misura, persone con disagio psichico e sociale. Questa ultima parte interessa le persone con problemi psichiatrici, che non hanno situazioni stabili di vita, e le persone che hanno perduto o non hanno mai avuto una radicazione sociale, come i cosiddetti «barboni». È facile per costoro incorrere in situazioni conflittuali rispetto alle regole. È parso ragionevole, in considerazione della modesta rilevanza penale delle condotte di cui normalmente rispondono e del loro bisogno essenziale di interventi di aiuto sanitario e sociale, che si preveda per loro una misura particolare di affidamento in prova, analoga a quella già prevista dall'articolo 47-bis ed ora dall'articolo 94 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, misura che, come nel caso ora ricordato, utilizza lo strumento giuridico alternativo per ancorare il soggetto ad un rapporto significativo di aiuto con i servizi pubblici o le associazioni di accoglienza private.
      All'articolo 60 della proposta di legge è, invece, affrontato un problema che sta diventando sempre più rilevante e di cui pare opportuno tracciare le linee di una definizione, probabilmente provvisoria, ma tale da avvicinare la soluzione definitiva. Il problema è quello dello spostamento fuori dal territorio italiano della persona affidata in relazione a specifiche e significative esigenze: se ne è già preso atto in sede di permessi di socializzazione.
      Le situazioni che si prospettano sono di due tipi.
      La prima presuppone (ai commi 1, 2 e 3) una semplice uscita temporanea dal territorio italiano, che può anche ripetersi con una certa periodicità, come nel caso di chi lavori in una impresa di trasporti, che effettua anche servizi all'estero, o di chi svolga cicli di cure all'estero o di chi, ancora, debba svolgere un periodo limitato di studio in una facoltà universitaria estera o di chi, infine, abbia particolari esigenze di famiglia che richiedano la sua presenza all'estero. Questa situazione aveva già avuto soluzioni positive da parte di magistrati di sorveglianza italiani, ma le stesse erano abbastanza isolate e poco condivise. È parso che si potessero dichiarare esplicitamente legittime tali situazioni, anche al fine di non compromettere possibilità di lavoro o altre possibilità personali, che non c'era alcuna ragione di negare. La norma prevede come possa essere seguito e controllato il soggetto all'estero. Questo implicherà rapporti diretti fra organi italiani e stranieri, che dovrebbero però apparire sempre più possibili, se non addirittura ordinari, nel procedere dei rapporti fra i singoli Stati dell'Unione europea.
      La seconda situazione è invece quella della esecuzione della intera misura alternativa all'estero, sia pure nell'ambito di uno degli Stati appartenenti all'Unione europea. Si è partiti dalla considerazione della scarsa efficacia e della discutibile applicabilità di convenzioni internazionali,

 

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come quella sul trasferimento delle persone condannate, adottata a Strasburgo il 21 marzo 1983 e come quella, che sarebbe proprio pertinente, per la sorveglianza delle persone condannate o liberate con la condizionale, adottata a Strasburgo il 30 novembre 1964. A riprova di questa scarsa efficacia, stanno la applicazione della seconda convenzione in casi isolatissimi e i tempi lunghissimi delle procedure. Il limite di questo sistema sta essenzialmente nella previsione di rapporti fra Stati attraverso le ordinarie rappresentanze (diplomatiche) degli stessi. Di qui la previsione nella proposta di legge, al comma 4 dell'articolo 59, di rapporti diretti fra le autorità di vertice dei singoli Stati nello specifico settore penitenziario, che, si ritiene, il legame comunitario rende ammissibili e auspicabili.
      La differenza, ancora molto rilevante, fra gli ordinamenti penitenziari applicati nei vari Paesi ha consigliato di affidare agli organi dello Stato di esecuzione dell'affidamento in prova la sola fase di gestione dello stesso. Le valutazioni e le decisioni conclusive (esito della prova e provvedimenti conseguenti) restano, così, affidate all'organo giurisdizionale italiano.

D. Le modifiche della detenzione domiciliare.

      All'articolo 61 della proposta di legge si sono apportate alcune modifiche all'articolo 47-ter del testo vigente.
      Una prima modifica è stata apportata ad uno dei casi previsti dal primo comma, alla lettera d), sopprimendo le parole «se inabile anche parzialmente», così che la disposizione vale per tutti coloro di età superiore a sessanta anni. Ha indotto a una tale modifica: da un lato, la evanescenza del termine di «inabilità anche parziale», che si prestava ad applicazioni molto discrezionali; dall'altro, il rilievo che, comunque, l'età avanzata della persona giustificasse l'agevolazione normativa.
      La seconda modifica è rappresentata dalla riscrittura del comma 5. È parso riduttivo il semplice rinvio all'articolo 284 del codice di procedura penale, relativo agli arresti domiciliari, dettato in materia di custodia cautelare, mentre qui siamo in presenza di una misura alternativa alla detenzione, che non è concessa automaticamente, ma è subordinata ad accertamenti sulla persona e sulla sua situazione. Di qui la previsione di un provvedimento che regoli le modalità di svolgimento della misura alternativa, tenendo conto degli elementi rilevanti della situazione del soggetto. Anche le disposizioni relative agli interventi di servizio sociale (che sono di solo aiuto e non di controllo, svolto, questo, dalla autorità di polizia) sarà opportuno che siano precisate.
      Al comma 9 è stata aggiunta una proposizione finale, che circostanzia la condotta di evasione, escludendo possibili applicazioni eccessivamente fiscali e fonti di trattamenti diseguali per le condizioni abitative diseguali delle persone che fruiscono della misura.
      Al comma 10 si chiarisce, come già fatto per i permessi, che la valutazione del giustificato motivo del ritardo è operata dal magistrato di sorveglianza, cioè dal giudice che segue la esecuzione della misura e decide e modifica le prescrizioni.
      Al comma 11, inoltre, si dà atto della sentenza costituzionale n. 173 del 1997, che ha dichiarato incostituzionale il vigente comma 10 nella parte in cui fa derivare automaticamente la sospensione della detenzione domiciliare dalla presentazione di una denuncia per il reato di evasione.
      Infine, si sopprime l'ultimo comma del testo vigente, che risponde a criteri di automatismo non molto lontani da quelli censurati costituzionalmente nel comma 10. Si noti che le ragioni di revoca possono essere le più diverse e che un'altra misura alternativa può essere più adeguata al caso specifico di quanto non sia stata quella in questione - comma 1-bis del testo vigente - per la quale può essere mancata la ricerca di un serio progetto di inserimento esterno, che si può, invece, riproporre attraverso una misura diversa.

 

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E. Le misure alternative fra detenzione domiciliare e semilibertà: articoli 47-quater, 47-quinquies e 47-sexies del testo vigente.

      Per le misure alternative di cui agli articoli 47-quater, 47-quinquies e 47-sexies del testo vigente, che assumono i numeri 62, 63 e 64 nella presente proposta di legge, si sono operati gli interventi che seguono.
      Nell'articolo 47-quater del testo vigente, che assume il numero 62, il comma 8 va modificato nel senso che la disciplina integrativa non va trovata nel solo articolo 47-ter - articolo 61 della proposta di legge - ma anche nell'articolo 47 - articolo 58 della proposta di legge - a seconda di quale delle due misure sia stata scelta nel singolo caso. Il comma 1 dell'articolo 47-quater del testo vigente prevede, infatti, che si possa scegliere fra l'affidamento in prova e la detenzione domiciliare, misure alternative con strutture assai diverse: la prima non prevede la evasione, prevista invece per la seconda; la prima prevede una valutazione finale di positività o meno della prova, mentre la seconda non prevede alcuna valutazione alla sua conclusione; e così via. In relazione a queste profonde diversità di struttura, la disciplina integrativa andrà ricercata nella norma relativa alla misura alternativa concessa. Il comma 8 è quindi modificato in tale senso.
      Si è anche operata una integrazione del comma 10, chiarendo in quale modo si possa applicare la norma agli internati con misura di sicurezza detentiva.
      È modificato anche l'articolo 47-quinquies del testo vigente, che assume il numero 63.
      Una prima modifica riguarda l'inserimento del comma 2, che richiama la esigenza di creare le condizioni per l'inserimento esterno della interessata, attraverso l'intervento degli operatori penitenziari al fine di favorire sia le risorse della famiglia che quelle dei servizi socio-assistenziali del territorio. È vero che il testo vigente già prevede questi interventi, ma nella parte che riguarda la esecuzione della misura, mentre il nuovo comma 2 concerne la preparazione e la definizione del progetto all'esterno, che deve presentare garanzie di efficacia e concretezza.
      Una ulteriore modifica si realizza al comma 4 attraverso il rinvio al comma 5 dell'articolo che regola la detenzione domiciliare come misura alternativa autonoma dalla dipendenza dalle regole degli arresti domiciliari, cui fa riferimento il testo vigente.

F. La semilibertà e la progressione del trattamento in tale misura.

      Non si modificano gli articoli 48 e 65 del testo vigente. Per la normativa generale sulla semilibertà, si opera soltanto una precisazione (dovuta) all'articolo 50 del testo vigente - 66 della proposta di legge - richiamando e rendendo esplicita una disposizione normativa, che rischia di essere dimenticata. Come già rilevato per il lavoro all'esterno e per i permessi premio, l'ampliamento dei periodi detentivi che devono essere espiati per la ammissione ai benefìci concerne soltanto i delitti previsti dal comma 1 dell'articolo 4-bis del testo vigente, commessi dopo la data di entrata in vigore del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203: questo secondo la esplicita disposizione della stessa legge di conversione.
      L'esperienza della esecuzione della misura alternativa della semilibertà nel corso di questi anni dimostra l'opportunità di intervenire su alcuni aspetti della misura.
      A questo è dedicato il nuovo articolo 67.
      Un primo aspetto riguarda le difficoltà che si producono nella esecuzione per tempi prolungati di tale misura. Pur con il temperamento di licenze e di permessi, vi è il rischio di una sclerosi nelle relazioni familiari e con l'ambiente e, per altro verso, di un progressivo adattamento, in qualche misura distorsivo, del vivere, nella stessa giornata e per periodi prolungati, due condizioni profondamente diverse:

 

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quella di una esistenza libera e in un ambiente libero fuori della sezione di semilibertà e quella nella stessa sezione, condizionata da regole che, sovente anche superflue, riprendono quelle consuete al carcere (la introduzione di generi alimentari o di farmaci o di oggetti, le sottoposizioni a controlli e perquisizioni). La persona è in qualche misura divisa fra modalità di vita diverse e anche contrastanti.
      Il primo problema è parso quello di intervenire sulla durata della semilibertà, prevedendo, dopo tempi pure non brevi, una indicazione di accelerazione del passaggio alla liberazione condizionale, pur sempre rimesso al provvedimento giurisdizionale del tribunale di sorveglianza.
      Questo è il primo e più generale problema, ma non è l'unico. Vi sono altri problemi, più circoscritti, ma non meno rilevanti, con i quali il detenuto semilibero si deve misurare: problemi come quello del regime da porre in essere nei periodi di malattia, nei periodi di ferie o di altra sospensione del lavoro. Al riguardo di tutte queste situazioni, va tenuto presente che la sezione di semilibertà è essenzialmente attrezzata come mero dormitorio. Nel caso di malattia se, come accade e sarebbe bene accadesse più spesso, la sezione di semilibertà è esterna al carcere ordinario, non esiste un servizio sanitario. Nel caso di ferie e di altri periodi di sospensione del lavoro e, quindi, per periodi anche non brevissimi, la sezione non è attrezzata a fornire i pasti giornalieri e occorre trovare soluzioni straordinarie per risolvere tali problemi.
      Ci sono dunque situazioni sfavorevoli per l'interessato, cui la struttura penitenziaria non è in grado di dare risposte. In tali casi, la temporanea sostituzione della libertà vigilata presso il proprio domicilio, analogamente a quanto avviene nelle licenze, rispetto alla permanenza nella sezione di semilibertà appare come la più pratica ed adeguata, anche sul piano del rispetto dei princìpi e delle esigenze di controllo, in quanto si tratta di sostituire a un regime detentivo un altro regime con un proprio sistema di controllo.
      Tale intervento, gestito dal magistrato di sorveglianza, è ammissibile per tutte le situazioni di semilibertà, essendo comuni le esigenze, quale che sia la parte eseguita della misura alternativa.
      Ma si deve rispondere anche ad un'altra situazione, già accennata: la ripetitività del regime di semilibertà e il rischio che, fra l'altro, comporta sulla riduzione degli stimoli ad una partecipazione attiva al percorso di reinserimento sociale. Di qui la previsione di interventi che realizzino una progressione nel trattamento, intervenendo prima sul particolare periodo del fine settimana e sviluppandosi, poi, in aperture maggiori, legate alla già avvenuta esecuzione di parti significative della esecuzione della pena. Anche qui la soluzione proposta dall'articolato è quella di sostituire la libertà vigilata al domicilio alla detenzione nella sezione di semilibertà. La scelta risulta decisamente ragionevole, se si considera, nel caso del fine settimana, che il programma di trattamento può prevedere la permanenza all'esterno, in famiglia o in altro ambito di accoglienza, il sabato e la domenica, imponendo, però, necessariamente la permanenza nella sezione di semilibertà nelle notti di tali giorni.
      La progressione nel trattamento si conclude, poi, alla fine, come già accennato, in un effettivo cambio di regime, con una contenuta accelerazione della ammissibilità alla liberazione condizionale.
      La parte dell'articolato modificativa della normativa vigente, prevede, infine, all'articolo 68, l'introduzione di alcuni commi rispetto al vigente articolo 51 sulla sospensione e revoca della semilibertà. Anche per la semilibertà, come già fatto per l'affidamento in prova, si sottolinea che la gestione della misura appartiene al personale penitenziario, ivi compreso il centro di servizio sociale per adulti, e che esula dai compiti degli organi di polizia ordinari. Altra precisazione riguarda la esplicitazione di quanto già conosce la prassi degli uffici di sorveglianza, ratificata dalla giurisprudenza:
 

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accanto alla revoca, che deve sempre fare riferimento ad un comportamento colpevole del semilibero (che, pure si precisa, non corrisponde ad una qualsiasi violazione, ma ad una violazione tale da fare ritenere il soggetto inidoneo alla semilibertà), si prevede la dichiarazione di inefficacia, che interviene in tutti i casi diversi dalla revoca, che possono interessare tutte le modifiche della situazione di fatto su cui è basata la semilibertà: cessazione della attività lavorativa o prolungata sospensione della stessa, inadeguatezza tecnica del semilibero alle mansioni affidategli e conseguente cessazione del rapporto di lavoro ed altre cause più varie. Da sempre, in tali casi, si è cercato di evitare il provvedimento di revoca della semilibertà, cui molte disposizioni ricollegano l'inammissibilità ai benefìci penitenziari per tempi non brevi: questa soluzione è ora resa più certa dalla esplicita menzione della proposta di legge.
      Si deve ricordare, comunque, che non è revoca neppure quella che consegue alla modificata situazione di diritto per il sopraggiungere di nuovi titoli di esecuzione, che facciano superare i limiti di ammissibilità alla misura: in tali casi si deve parlare, ai sensi del testo vigente dell'articolo 51-bis, di «cessazione» della misura.

G. La «nuova» liberazione condizionale.

      L'articolato interviene, con gli articoli 72 e 73, sulla liberazione condizionale, materia già trattata dagli articoli 176 e 177 del codice penale (dei quali si prevede, nell'ultimo articolo della proposta di legge, l'abrogazione).
      È parso logico prendere atto dello stretto legame che unisce la liberazione condizionale alle misure alternative. È vero che la creazione della prima precede quella del sistema delle misure alternative, essendo prevista dallo stesso codice penale del 1930. È vero inoltre che il codice penale aveva pensato tale strumento come una sorta di surrogato della grazia, legato a condizioni di ammissibilità e di merito specifiche, rimesso alla decisione del Ministro di grazia e giustizia. Ma non si può contestare che la storia moderna della liberazione condizionale si svolge accanto e insieme a quella delle misure alternative, tanto che manca un argomento forte per negare che la stessa sia una misura alternativa. E, per vero, vi sono argomenti decisivi per ritenere che sia proprio una misura alternativa.
      Intanto, la vicenda del riconoscimento costituzionale del sistema della flessibilità della pena passa proprio attraverso la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 1974, che riguardava, appunto, la liberazione condizionale. E su quella sentenza si innesta la giurisprudenza costituzionale successiva, nei secondi anni ottanta e negli anni novanta e sino ad oggi, nella quale le decisioni sulla liberazione condizionale seguono e si sovrappongono a quelle sulle misure alternative: vedi le sentenze n. 343 del 1987, sugli effetti della revoca dell'affidamento in prova al servizio sociale, e n. 282 del 1989, sugli effetti della revoca della liberazione condizionale, nelle quali, con argomenti ed esiti del tutto analoghi, la Corte approfondisce natura e struttura delle misure alternative, comprendendo la liberazione condizionale nello stesso discorso.
      Ma vi è stata, poi, la evoluzione normativa, nata sempre dalla sentenza n. 204 del 1974, con la attribuzione della competenza a decidere ad un organo giurisdizionale: prima alla corte di appello (legge 12 febbraio 1975, n. 6) e poi inevitabilmente al tribunale di sorveglianza.
      Si tratta, pertanto, di prendere atto di questo processo di trasformazione della liberazione condizionale in misura alternativa e di svilupparlo sotto tre profili: la struttura, il regime e la gestione che ne risultano e le condizioni di ammissibilità e di merito.
      La struttura degli articoli vigenti del codice penale. Si legge nel primo comma

 

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dell'articolo 177 del codice penale che «La liberazione condizionale è revocata se la persona liberata (...) trasgredisce agli obblighi inerenti alla libertà vigilata, disposta ai termini dell'articolo 230, numero 2)». Su questa base si considera la liberazione condizionale come una sorta di conversione della pena residua da espiare nella misura di sicurezza della libertà vigilata per un periodo corrispondente (cinque anni per il condannato all'ergastolo). Senonché, la giurisprudenza (vedi, fra le altre, la sia pure risalente Cassazione sezione V, 31 maggio 1971, Domenicana, cassazione penale mass. ann., 1971, 1638, m. 2345) ha rilevato come, nel caso, non si sia in presenza di una misura di sicurezza in senso proprio in quanto si deve rilevare che non vi è alcuna possibilità di revoca anticipata della stessa: quindi nessuna valutazione di cessazione della pericolosità sociale e nessuna possibilità di provvedimenti conseguenti, caratteristiche queste essenziali per riconoscere la presenza di una misura di sicurezza. Tale la conclusione della sentenza della Corte costituzionale n. 78 del 1977, che riprende la conclusione di altra sentenza precedente, osservando sulla libertà vigilata in questione: «Trattasi infatti della libertà vigilata di un condannato a cui é stata concessa la liberazione condizionale; e questa Corte ha già avuto occasione di rilevare come il potere di revoca anticipata delle misure di sicurezza, ed in specie della libertà vigilata, non possa estendersi a questa fattispecie, per l'impossibilità di assimilare la comune figura della libertà vigilata a quella particolare conseguente alla liberazione condizionale, che necessariamente, nel sistema legislativo vigente, deve durare tanto quanto dura il periodo della liberazione condizionale» (sentenza n. 11 del 1970).
      Conclusione: non si è in presenza di una libertà vigilata nel senso proprio della misura di sicurezza con questo nome e questa struttura.
      Si può allora concludere che la liberazione condizionale non può essere costruita come conversione della pena in misura di sicurezza della libertà vigilata. Il che significa che la stessa, più semplicemente, va costruita con una propria struttura autonoma. Come accade per le altre misure alternative, essa ha un proprio regime, quello della liberazione condizionale: consisterà in prescrizioni limitative con caratteristiche definite in linea generale, ma da specificare, personalizzandole al caso. Come, appunto, accade per l'affidamento in prova al servizio sociale.
      Il che consente, però, di rivedere i referenti o gestori di tale misura, che si ritiene possano essere ad un tempo un organo di polizia e il servizio sociale penitenziario. Si è detto che ciò è controindicato per una misura alternativa come l'affidamento in prova. Ma la situazione fra questo e la liberazione condizionale è diversa. Diversa, intanto, per coloro che fruiscono delle due misure: per la liberazione condizionale sono, generalmente, condannati a pene maggiori, reduci di detenzioni non brevi, con prospettive di esecuzione pure non brevi; per l'affidamento in prova, sempre in linea generale, la situazione è opposta, anche se la durata dell'affidamento può essere non breve, ma sempre inferiore, salvo eccezioni, a quella della liberazione condizionale. Diversa anche la struttura delle due misure: nell'affidamento in prova la gestione unitaria da parte del servizio sociale è una caratteristica di sostanza, che è bene espressa dal termine «affidamento». Nella liberazione condizionale la diversità dei ruoli di controllo della polizia e di sostegno del servizio sociale è abbastanza evidente sia nella realtà concreta della esecuzione della misura sia nelle stesse indicazioni legislative della situazione vigente.
      Dunque, nella liberazione condizionale, gli interventi diversi di polizia e di servizio sociale non sono incompatibili e possono coesistere. Il che non rappresenta, d'altronde, che una conferma della situazione attuale (resa formalmente esplicita) e, rispetto alla concreta esperienza della stessa, una migliore efficacia della medesima. In effetti oggi la libertà vigilata - che non è libertà vigilata - individua il referente-gestore nell'organo di polizia, ma già oggi è presente, ex articolo 55 della legge
 

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n. 354 del 1975, il centro di servizio sociale per adulti, che, nei confronti degli interessati, «svolge interventi di sostegno e di assistenza al fine del loro reinserimento sociale». Nella pratica accade che l'intervento dell'organo di polizia è di solo controllo e che la presenza del servizio sociale è sostanzialmente eventuale, determinata dalla richiesta di aiuto dell'interessato. La valutazione dell'andamento della liberazione condizionale è affidata, quindi, alle scarne comunicazioni degli organi di polizia che segnalano eventuali inadempienze alle prescrizioni stabilite. È rimesso alla iniziativa autonoma dei singoli uffici di sorveglianza la verifica di come proceda il percorso di reinserimento sociale nell'ambiente familiare, sociale e di lavoro. Non resta, allora, nello sviluppo logico di questa riflessione, che corresponsabilizzare, rispetto alla esecuzione della liberazione condizionale, gli organismi di polizia e di servizio sociale, rendendo tutto ciò evidente fin dal contenuto delle prescrizioni, prevedendo, così, che il rapporto per la esecuzione della misura alternativa in prova controllata e assistita (sentenze della Corte costituzionale n. 343 del 1987 e n. 282 del 1989) si radichi sia con l'organo di polizia che con quello di servizio sociale. Per la precisione, si dovrà dire che, per il servizio sociale, la funzione di sostegno potrà essere, più propriamente, un mix di sostegno-controllo: sia sul rispetto delle prescrizioni concernenti i rapporti con il centro di servizio sociale per adulti, sia sulla evoluzione positiva dell'inserimento sociale.
      Si compie così il percorso della liberazione condizionale verso le misure alternative con un corollario. Come per l'affidamento in prova, la valutazione dell'esito della liberazione condizionale non è automatico, ma deve essere rimesso ad una sede specifica della magistratura di sorveglianza, che giudica se la prova è stata o meno positiva con le pronunce consequenziali: articolo 236, comma 1, delle norme di coordinamento del codice di procedura penale.
      Congruamente alla impostazione dell'inserimento della liberazione condizionale fra le misure alternative, si riscrivono le condizioni di merito rilevanti per la concessione, con le quali viene dato spazio all'apprezzamento dei progressi trattamentali, da un lato, e della finalizzazione al reinserimento sociale, dall'altro lato.
      Quanto alle condizioni temporali di ammissibilità non viene toccato il regime attuale, comprendente anche le modifiche e limitazioni introdotte con il decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, che porta a due terzi la pena da espiare inflitta per i delitti di cui al comma 1 dell'articolo 79 (già 4-bis). Invece, si esplicita, nel testo della norma, la non applicabilità della inammissibilità (salva collaborazione) per i reati di cui alla prima proposizione del comma 1 dell'articolo 79, inammissibilità introdotta dal decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356: le ragioni sono state sviluppate alla lettera C di questa sezione, riservata ad «Alcuni princìpi e finalità generali», alla quale si rinvia.
      Va detto, inoltre, che gli automatismi, descritti nel testo iniziale dell'articolo 177 del codice penale, sono tutti venuti meno attraverso una serie di sentenze della Corte costituzionale, n. 282 del 1989, n. 161 del 1997 e n. 418 del 1998. Se ne dà atto nel testo del nuovo articolo. In particolare:

          con riferimento alla sentenza n. 282 del 1989, si chiarisce che, a seguito della revoca della misura, la pena ancora da espiare viene rideterminata dal tribunale di sorveglianza secondo i criteri stabiliti dalla stessa sentenza della Corte costituzionale;

          con riferimento alla sentenza n. 161 del 1997, si sopprime l'ultimo periodo del primo comma dell'articolo 177 vigente del codice penale che vietava una nuova concessione della liberazione condizionale dopo la revoca. Tale sentenza è stata enunciata per i condannati alla pena dell'ergastolo, ma, secondo un criterio di

 

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ragionevolezza, deve considerarsi estensibile anche ai condannati a pene temporanee;

          con riferimento alla sentenza n. 418 del 1998, viene riscritta la parte del vigente articolo 177 che indicava i casi di revoca della liberazione. Per la sentenza della Corte costituzionale non basta la condanna per un delitto o una contravvenzione della stessa indole (commessi nel corso della misura), ma occorre valutare se la condotta del soggetto, in relazione alla condanna subita, appare incompatibile con il mantenimento del beneficio. Nell'operare la modifica della norma inserendo tale principio si è applicato lo stesso anche all'altra causa di revoca della liberazione condizionale, cioè la violazione delle prescrizioni stabilite nel provvedimento di concessione della misura: anche queste, per determinare la revoca, devono essere incompatibili con il mantenimento del beneficio. Il che non fa che confermare la giurisprudenza in materia.

      La nuova disciplina della liberazione condizionale viene inserita agli articoli 72 e 73, che riscrivono, subito dopo la semilibertà e la progressione nella stessa, la materia già trattata dagli articoli 176 e 177 del codice penale. Si ritiene, appunto, che la conclusione più logica sia quella di togliere la disciplina della liberazione condizionale dal codice penale e inserirla nell'ordinamento penitenziario, nella parte delle misure alternative, cui appartiene ormai ad ogni effetto.
      Le parti essenziali degli articoli 72 e 73 sono già state indicate e motivate qui sopra. Si aggiungono alcune precisazioni.
      Come si è operato per l'affidamento in prova, si sono evidenziati tutti gli effetti che si ricollegano alla declaratoria di estinzione della pena, pronunciata a seguito dell'esito positivo della liberazione condizionale: si veda il nuovo testo dell'articolo 73. Come si è detto per l'affidamento in prova, le ragioni del chiarimento modificativo della normativa in questione vengono dettagliatamente riportate più avanti, nella parte successiva di questa relazione, concernente la esecuzione dei trattamenti penali diversi dalla pena detentiva.
      Sempre in analogia all'affidamento in prova si è prevista la concedibilità della liberazione anticipata anche per i periodi di liberazione condizionale. Come è noto, tale possibilità è stata introdotta per l'affidamento in prova con la legge 19 dicembre 2002, n. 277, che ha inserito il comma 12-bis nell'articolo 47 della legge n. 354 del 1975. Sembra del tutto ingiustificata una previsione diversa per la liberazione condizionale. Il problema concettuale è identico: si vuole dare atto che anche i periodi di misura alternativa, pur se fuori di un regime detentivo, si configurano come esecuzione della pena e sono suscettibili, quindi, di applicazione dell'articolo 54 del testo vigente. Questa considerazione non può non valere anche per la liberazione condizionale.
      All'articolo 77 della proposta di legge è risolto un problema interpretativo, che, nella prassi della magistratura di sorveglianza, era risolto in modo diverso nelle varie sedi territoriali: se gli articoli 51-bis e 51-ter della legge n. 354 del 1975 siano applicabili anche nel corso della esecuzione della liberazione condizionale, per la quale manca un rinvio espresso di applicazione. Se, quindi, in presenza di aspetti problematici di merito e di modifica della posizione giuridica circa l'andamento della liberazione condizionale, possano essere adottati i provvedimenti di sospensione provvisoria e urgente del magistrato di sorveglianza, funzionali alle successive decisioni del tribunale di sorveglianza di revoca o meno della stessa misura. Vi sono uffici nei quali tali applicazioni avvengono, ma secondo una interpretazione molto dubbia. La estensione esplicita, introdotta con il citato articolo 77, sembra molto opportuna, perché il problema esiste ed è molto serio: il sistema delle misure alternative regge ed è efficace se vi è la possibilità di interventi immediati quando le cose non vanno bene. Spesso, per tale via, oltre a interrompere le misure che vanno chiaramente male, si riesce, talvolta, ad evitare il deteriorarsi di situazioni incerte

 

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e si può anche salvare una misura pericolante.

H. Rapporti fra misure alternative e altri interventi penali o amministrativi.

      L'articolo 74 della proposta di legge affronta e cerca di risolvere un tema che pone spesso problemi applicativi, particolarmente con riferimento al comma 2 dell'articolo 298 del codice di procedura penale: i problemi sono quelli del rapporto fra le misure alternative e altri interventi variamente limitativi della libertà delle persone. Alla base della risposta del comma 1 deve stare il fatto che le misure alternative concretano la esecuzione della pena: le misure di sicurezza non possono, pertanto, essere eseguite e così le misure di prevenzione, ivi compresa quella della cosiddetta «diffida», che spesso crea difficoltà alla esecuzione delle misure alternative in determinati luoghi.
      Nel comma 2 si dà atto delle conseguenze della conclusione positiva, con la estinzione della pena, delle due misure alternative dell'affidamento in prova e della liberazione condizionale. Richiamati, per le due misure, gli effetti indicati nel comma 13 dell'articolo 58 e nel comma 3 dell'articolo 73 e ricordata, fra tali effetti, la revoca delle misure di sicurezza, si dà atto delle conseguenze che tale revoca ha sulle misure di prevenzione, compresa quella della diffida. Se per le misure di prevenzione la applicazione delle misure di sicurezza ha come effetto la cessazione delle prime (articolo 10 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423), la revoca delle seconde deve avere, a maggiore ragione, l'effetto del venire meno delle stesse. Infatti se la applicazione delle misure di sicurezza significa che esiste uno strumento specifico di prevenzione della pericolosità sociale, basato su precise indicazioni della legge penale, e a questo si ricollega il venire meno di uno strumento generale di prevenzione, basato su sole indicazioni di polizia, la revoca delle misure di sicurezza significa la cessazione della pericolosità sociale e impone il venire meno di tutte le misure di contrasto della stessa.
      Nel comma 3 si richiamano, per le altre misure alternative, gli effetti indicati nell'articolo 679 del codice di procedura penale, come sostituito dalla proposta di legge, molto più ridotti rispetto a quelli previsti al comma 2.
      Al comma 4 si affronta e si regola il problema della compatibilità delle misure alternative con la custodia cautelare in regime di arresti domiciliari, dando la soluzione che è propria della prassi di alcuni uffici di sorveglianza. Si rimanda al testo della norma.
      Infine, al comma 5, si precisa che le disposizioni dell'articolo relative all'affidamento in prova ordinario valgono anche per l'affidamento in prova in casi particolari.
      Il comma 6 abroga il comma 2 dell'articolo 298 del codice di procedura penale, all'origine dei problemi interpretativi.

I. La revisione della liberazione anticipata.

      Si è ritenuto che meritasse una revisione anche la misura, non propriamente alternativa alla detenzione, della liberazione anticipata. Ciò è stato fatto all'articolo 78 della presente proposta di legge. Dopo l'aumento, da venti a quarantacinque giorni a semestre, apportato dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (legge Gozzini), si erano affacciate, in progetti di legge parlamentari, ipotesi di ulteriori aumenti. Ciò era accaduto anche nei progetti di legge che hanno portato all'emanazione della legge 19 dicembre 2002, n. 277, nei quali era apparsa, per essere, poi, abbandonata, anche una liberazione anticipata «in casi particolari», che prevedeva una riduzione di sessanta giorni a semestre a favore di coloro che si fossero distinti, con specifiche condotte, nella partecipazione all'opera di rieducazione, sulla quale si basa il beneficio in questione. Nella presente proposta di legge si è optato per una soluzione che si muove nello stesso senso, ma inserisce la flessibilità nella stessa misura del beneficio. La riduzione è indicata,

 

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pertanto, nella misura variabile da quarantacinque a sessanta giorni a semestre. La scelta della misura, che riguarda ogni singolo semestre, è fatta attraverso un giudizio articolato, che deve tenere conto, da un lato, della presenza di elementi significativi che si stacchino dalla semplice regolare condotta e della importanza degli stessi, e, dall'altro lato, della rilevazione delle occasioni di impegno effettivamente offerte al condannato. Questi due criteri devono operare insieme, equilibrandosi. Il premio dato a chi si è distinto nella partecipazione pone un problema di trattamento differenziato per coloro per i quali le occasioni di partecipazione sono mancate: ignorare questo secondo aspetto vorrebbe dire esaltare gli effetti di un trattamento vuoto e negativo, non raro purtroppo nella nostra realtà penitenziaria.
      I primi due commi dell'articolo 78 rispecchiano quanto ora detto. Al comma 4 - comma 3 del testo vigente - si dà atto dell'intervento della sentenza n. 186 del 1995 della Corte costituzionale, che considera inaccettabile l'automatismo stabilito nel testo originario e stabilisce che la riduzione di pena può essere revocata solo se il nuovo reato commesso, durante la esecuzione dopo la concessione del beneficio, sia incompatibile con il mantenimento dello stesso.

L. La sostituzione dell'articolo 4-bis: l'articolo 79 della proposta di legge.

      Il punto essenziale dell'intervento sull'articolo 4-bis del testo vigente - ora articolo 79 della proposta di legge - è trattato alla lettera A della prima parte di questa sezione («Alcuni princìpi e finalità generali»). Si tratta di un intervento sulle preclusioni alla ammissione ai benefìci, salva la collaborazione alla giustizia, stabilite per i reati più gravi.
      Vi sono, però, alcuni ulteriori interventi che si devono ricordare.
      Il primo intervento è rappresentato da un chiarimento interpretativo. Sono compresi fra i reati che comportano le preclusioni ricordate i «delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste». Si è voluto chiarire che tali delitti devono concorrere con il delitto di cui all'articolo 416-bis. Altrimenti poteva sorgere, come è sorta, la interpretazione che tale concorso non fosse necessario e veniva, però, meno un reale aggancio oggettivo alla aggregazione mafiosa e si rischiava di adottare un criterio troppo discrezionale per la valutazione di condotte genericamente considerate mafiose. Alla discrezionalità di tale valutazione si ricollegava l'effetto, troppo pesante, della preclusione ai benefìci penitenziari.
      Il secondo intervento riguarda la formulazione dell'oggetto degli accertamenti richiesti agli organi di sicurezza e di polizia. Tale oggetto viene indicato in modo diverso nel terzo e nel quarto periodo del comma 1 della norma in questione. La sostanza degli accertamenti richiesti è la stessa: si vuole sapere se vi siano o meno legami degli interessati con la criminalità organizzata, solo che, nel terzo periodo, si inserisce l'accertamento in modo negativo - che, cioè, vi siano elementi negativi su collegamenti attuali - mentre, nel quarto periodo, l'accertamento è posto in modo positivo - che, cioè, vi siano elementi tali da fare ritenere la sussistenza dei collegamenti, senza fare, peraltro, riferimento alla attualità di tali elementi, ricordata invece nel periodo precedente. Si ritiene che differenze così sottili non garantiscano in alcun modo un maggiore approfondimento delle situazioni, che, inevitabilmente, dovrebbe essere più accurato quando si sia in presenza dei reati maggiori. Ciò che sarebbe essenziale, in effetti, sarebbe un migliore livello di conoscenza, acquisito attraverso una costante monitorizzazione dei fenomeni criminali e dei partecipanti agli stessi. Va aggiunto che, nel quarto periodo, si è aggiunto il riferimento alla «attualità» dei collegamenti da accertare o meno, che è indubbiamente essenziale (tanto che viene puntualmente indicato nel terzo periodo)

 

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ai fini che interessano e che, nel testo vigente, mancava.
      Si sono, poi, aggiunte precisazioni circa gli organi cui chiedere gli accertamenti, razionalizzando il regime attuale, abbastanza lacunoso. Inoltre, si è sottolineata la esigenza che gli accertamenti devono fornire al giudice informazioni e non pareri, come purtroppo spesso accade.
      Si chiarisce, infine, che le regole relative agli accertamenti sui collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, nei casi di detenuti per i delitti indicati nello stesso articolo 79, valgono anche per la liberazione condizionale. Per questa, invece, non valgono le preclusioni alla ammissione, secondo quanto ritenuto e motivato alla lettera C della prima parte di questa sezione.

M. Altri interventi modificativi.

      Le ultime annotazioni sulle modifiche a questo capo I del titolo II riguardano alcune norme distribuite tra altri punti, sempre attinenti alle misure alternative.
      All'articolo 71 della proposta di legge una prima modifica riguarda l'articolo 53-bis del testo vigente. Al comma 2 si dà atto dell'intervento operato con la sentenza della Corte costituzionale n. 53 del 1993, che prevede una giurisdizionalizzazione più completa del reclamo al tribunale di sorveglianza, previsto dal comma predetto. Seguendo le indicazioni della sentenza costituzionale citata, la decisione deve avvenire con la procedura ordinaria di cui agli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale, come modificato dalla proposta di legge.
      Un altro intervento modificativo riguarda l'articolo 58-quater, che mantiene la rubrica «Divieto di concessione di benefìci», ma è riscritto, in parte per chiarificazione e in parte per ridimensionamento degli automatismi che contiene. Nel presente articolato assume il numero 81.
      Il primo intervento concerne il campo di applicazione. Si è sottolineato che lo stesso riguarda i detenuti per i delitti di cui all'articolo 4-bis vigente, ora articolo 79, non quelli per altri reati. Parrebbe che questo sia il senso della norma, confermato sia dal rinvio del comma 2 al comma 1 dell'articolo 79 e dall'esplicito riferimento allo stesso campo di applicazione nel comma 5. Va detto che, per i reati minori e particolarmente per quelli di tossicodipendenti, un blocco dei benefìci di questa entità renderebbe difficile lo svilupparsi di percorsi riabilitativi abbastanza tormentati, frequenti in tali casi.
      Il secondo intervento introduce temperamenti a tale blocco per i casi di minore gravità.
      Il terzo intervento chiarisce che la commissione di un ulteriore reato è rilevante anche se oggetto di sentenza emessa a seguito di patteggiamento. Nonostante la equiparazione della normativa ad una sentenza di condanna, la giurisprudenza si è mossa in senso contrario. Non pare che la scelta processuale, rimessa all'accortezza delle difese, possa influire sulla valutazione penitenziaria.
      Infine, si è lasciato alla discrezionalità della magistratura di sorveglianza la decisione sulla operatività della normativa degli ultimi tre commi del testo vigente, nel caso di procedimento pendente per la commissione di un nuovo reato.
      La decisione sarà rimessa ad una valutazione dei dati processuali acquisibili da parte della magistratura di sorveglianza competente, che potrà sospendere il proprio giudizio fino alla pronuncia della sentenza definitiva o anche accogliere la istanza, con riserva di riesame all'esito del procedimento. .
      Si è ritenuto inevitabile che questa disciplina si applichi anche nei confronti di chi fruisce di liberazione condizionale. L'inserimento di questa fra le misure alternative non può non avere tale conseguenza.
      All'articolo 85 della proposta di legge è operata una modifica abbastanza profonda dell'articolo 56 del testo vigente, che concerne la remissione del debito. Anche se resta ferma la collocazione della norma in tale capo, è più conveniente esaminare le ragioni delle modifiche al capo successivo, dedicato appunto alla riflessione e

 

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alla revisione della normativa concernente i trattamenti penali diversi dalla pena detentiva: il debito cui la remissione si riferisce è infatti quello derivante dalla condanna alle spese processuali e di mantenimento in carcere.
      Le significative modifiche alla normativa rappresentate dalla introduzione di due nuovi articoli 82 e 83 meritano un esame specifico, che è effettuato nelle pagine successive.

N. Il distacco temporale fra i reati e la esecuzione della pena.

      L'esperienza di questi anni (quasi trenta) di misure alternative ha dimostrato il rilievo dello stacco temporale fra reato ed esecuzione della pena. Su questo tema hanno anche interferito gli anomali tempi dei nostri processi, ora abbastanza rivoluzionati dalla normativa sui procedimenti speciali, fortemente condizionata, però, dall'efficacia delle difese, pertanto con una notevole componente di diseguaglianza.
      Si può, comunque, osservare che i lunghi tempi processuali, che erano e sono in parte rimasti la regola, spostano il momento della esecuzione della pena inflitta a un tempo abbastanza lontano da quello in cui il reato è stato commesso. Questo potrà giocare un ruolo favorevole al condannato, quando si dovrà parlare di benefìci penitenziari, sia perché la lontananza dal fatto ne smorza echi e reazioni, sia perché il periodo intercorrente fra reato ed esecuzione della pena può fare emergere dati positivi sul recupero sociale nel frattempo messo in opera spontaneamente dalla persona interessata. Per converso, la riduzione dei tempi processuali, che pure dovrebbe essere auspicabile e che resta oggi abbastanza casuale, determina una situazione opposta: la vicinanza al reato conserva attualità alle dinamiche che si sono espresse e che possono ancora sopravvivere allo stesso.
      Teniamo presente che la prima e più frequente situazione (distanza della esecuzione della pena dalla commissione del reato) ha di fatto consigliato, nella legge 10 ottobre 1986, n. 663 (legge Gozzini) le disposizioni di cui al comma 3 dell'articolo 47 del testo vigente e al comma 6 dell'articolo 50, oggi trasformato dalle modifiche successive. E in seguito il tutto è confluito nella estensione operata dalla legge 27 maggio 1998, n. 165 (legge Simeone-Fassone-Saraceni). Se è vero che questo ultimo e generale regime riguarda la esecuzione di tutte le pene, anche quelle eseguibili a breve distanza di tempo dai reati, nei fatti questa normativa (particolarmente quella iniziale della legge Gozzini) è nata quando e perché il dato ordinario era quello dei lunghi tempi processuali e del distacco temporale rilevante fra tempo del reato e tempo della esecuzione.
      Questa riflessione si muove su una situazione ordinaria: si potrebbe parlare di una situazione fisiologica, se non si dovesse ammettere che i tempi dei nostri processi sono manifestamente patologici. La riflessione manifesta, comunque, il rilievo effettivo che ha il tempo intermedio fra reato ed esecuzione della pena. Senonché, anche questa situazione ordinaria può diventare straordinaria quando il tempo diventa troppo grande e questo per due motivi.
      Il primo motivo è che i fatti, quando il tempo trascorso è troppo elevato, perdono qualunque attualità, risultano superati dalla evoluzione di un percorso di vita, che può essere ormai completamente staccato da quei fatti e da quei tempi.
      E il secondo motivo è legato al primo: la esecuzione dopo molto tempo dal reato perde legittimazione, può ragionevolmente non essere compresa dal condannato, può essere dannosa per un percorso di inclusione sociale che ormai si è svolto e concluso. Di fatto scompare l'ottica riabilitativa e si conserva soltanto quella punitiva.
      Da qui le modifiche che si propongono, che agiscono su due piani:

          a) il primo: intervenire sulle anomalie del sistema esecutivo penale che producono esecuzioni di pena per fatti risalenti molto indietro nel tempo;

 

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          b) il secondo: recuperare il sistema delle misure alternative per contenere gli effetti del distacco temporale in questione quando è eccessivo, attraverso l'adattamento del sistema stesso alle situazioni eccezionali in questione.

N1. L'intervento per evitare la eccessiva tardività della esecuzione rispetto al tempo del reato.

      L' intervento sul primo piano agisce in due direzioni ed è trattato nell'articolo 82.
      La prima direzione consiste nella abrogazione dell'ultimo comma dell'articolo 172 del codice penale, che dispone che la prescrizione della pena o, meglio, la estinzione delle pene della reclusione e della multa per decorso del tempo, «non ha luogo se si tratta di recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell'articolo 99 o di delinquenti abituali, professionali o per tendenza; ovvero se il condannato, durante il tempo necessario per l'estinzione della pena, riporta una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole». Analogamente si modifica il primo comma dell'articolo 173 del codice penale, che dispone che il termine per la estinzione delle pene dell'arresto e dell'ammenda è raddoppiato se si tratta di recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell'articolo 99, ovvero di delinquenti abituali, professionali o per tendenza.
      In sostanza queste norme introducono preclusioni alla estinzione delle pene o all'aumento dei termini per l'operare della stessa, che sono basati su automatismi ormai venuti meno. Molte norme del codice penale sono state modificate in modo sostanziale senza che se ne traessero le conseguenze sulla normativa collegata.
      Così tutto il sistema della recidiva, prevista dall'articolo 99, da obbligatorio che era è diventato da molto tempo facoltativo (decreto-legge n. 99 del 1974, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 220 del 1974). Così il sistema delle declaratorie di delinquenza abituale, professionale e per tendenza, anche questo condizionato all'origine da automatismi e destinato alla irrevocabilità, prevede oggi la possibilità di revoca delle declaratorie (articolo 69, comma 4, della legge 26 luglio 1975, n. 354) e il venire meno di qualsiasi automatismo per le nuove dichiarazioni, legate, invece, secondo la giurisprudenza, all'accertamento del dato sostanziale della dedizione del soggetto al delitto. Quanto alla commissione di un nuovo reato nel periodo di tempo della prescrizione, abbiamo anche qui un automatismo negativo, del tutto indeterminato (che può spaziare da una pena minima ad un'altra molto grave: un tempo, il caso più frequente poteva essere quello di un assegno a vuoto sanzionato con la reclusione o di un piccolo furto). Fare dipendere la esecuzione o meno della pena, pur in presenza di una lunga distanza di tempo dai fatti, da queste circostanze voleva dire individuare persone per le quali la legge era più uguale che per altri e non a caso queste circostanze erano denominate come «inerenti la persona del colpevole» (articolo 70 del codice penale). Sinteticamente, nel sistema penale originario, per tali persone, la pena aveva efficacia di esclusione sociale e di negazione della possibilità di percorsi riabilitativi: il che emergeva attraverso varie manifestazioni, una delle quali è quella su cui ci si sofferma (come altre saranno quelle su cui ci si soffermerà fra poco). Ma abbiamo ben visto come la pena abbia cambiato natura e come la finalità riabilitativa debba, per principio della Costituzione, inerire alla stessa.
      Di qui le modifiche normative del codice penale indicate all'inizio. Si configurano nel nuovo articolo 82, al comma 1.
      La seconda direzione del primo piano di intervento riguarda la limitazione nel tempo degli interventi di revoca dei vari benefìci concessi. Un limite attuale manca. Su questo si innesta ancora la lentezza di funzionamento di tali interventi. Così che i provvedimenti relativi sono adottati quando una qualche circostanza casuale richiama la attenzione sulle singole posizioni. In passato, l'occasione classica di

 

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queste ricapitolazioni di posizioni esecutive era data dalle varie amnistie e condoni che si susseguivano negli anni, successione che si è ormai interrotta dalla fine del 1990. L'occasione è oggi abbastanza casuale, rimessa generalmente al riesame di una singola esecuzione, che riaccende la attenzione su tutte le esecuzioni presenti e passate del singolo interessato, che si trova in genere davanti a cumuli di pene da eseguire sovente impressionanti.
      Sembra che si debbano riconoscere due interessi oggettivi del sistema della esecuzione penale.
      Il primo, sul quale ci siamo soffermati prima, è quello di evitare la esecuzione delle pene ad una eccessiva distanza di tempo dai reati e, quindi, anche dai fatti che hanno determinato la ulteriore esecuzione di parti della pena già coperte da benefìci di vario tipo, poi revocati.
      Il secondo è quello che se la legge affida un controllo al sistema giudiziario sulla corretta fruizione di tali benefìci, quel sistema deve trovare le modalità per esprimersi in tempi ragionevoli. In caso contrario, si deve dire semplicemente che quel sistema non funziona.
      Di qui, sempre nel nuovo articolo 82, si stabiliscono nuovi termini entro i quali è necessario provvedere alle revoche dei vari benefìci concessi e porre in esecuzione le pene relative.

N2. La esecuzione della pena a grande distanza di tempo dai fatti e il ricorso alle misure alternative.

      E veniamo al secondo piano di intervento indicato sopra e ripetuto ora nel titolo.
      L'articolo 83 riguarda il tema ora indicato.
      L'intervento si articola in due parti:

          1) la detenzione comune;

          2) la detenzione politica (nel senso ampio della espressione).

      Anche se vi è qualche differenza nel trattamento delle due materie, la premessa è la stessa trattata all'inizio di questa parte. Quando la pena ha finalità puramente afflittiva e non vi è alcun interesse alla sua efficacia riabilitativa sul piano sociale, vi può essere indifferenza alla esecuzione della pena a molta distanza di tempo dal reato che l'ha determinata. La circostanza che la pena intervenga, passato molto tempo, in una situazione e nei confronti di una persona entrambe cambiate e possa fortemente incidere e pregiudicare una situazione di inserimento sociale ormai compiuta non può essere accettata se si entra nell'ottica opposta della necessaria efficacia riabilitativa della pena, così come indicata dalla Costituzione e dalla giurisprudenza costituzionale che la riguarda.
      È vero, però, che la pena inflitta esiste, anche se molto tempo è trascorso dal reato e sovente, ma non sempre, dalla sentenza da cui deriva. La soluzione che si propone è quella che ricorre al sistema delle misure alternative, agendo, però, sui tempi di ammissibilità alle stesse. Le rigidità inevitabili nei tempi di ammissione alle misure possono essere temperate proprio in considerazione del tempo trascorso, al momento della esecuzione, da quello di commissione del reato.
      Il ricorso al sistema delle misure ha vari vantaggi rispetto alle esigenze sistematiche di esecuzione della pena, che non possono essere ignorate. Intanto, l'intervento con misure alternative presuppone la applicazione attraverso un provvedimento giurisdizionale, che apre alla valutazione degli aspetti concreti dei singoli casi. Se, ad esempio, nel tempo intermedio, la condotta dell'interessato è stata negativa e vi sono state manifestazioni significative di una mancata integrazione e di un mancato reinserimento sociale, l'anticipazione dell'intervento con alternative alla detenzione non si giustifica. E ancora: anche prescindendo da nuove e significative manifestazioni antigiuridiche, la ammissione ad alternative alla detenzione non potrà ignorare che

 

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devono esistere le condizioni generalmente richieste per le stesse: il superamento delle situazioni conflittuali del tempo del reato, la esistenza di condizioni di accoglienza e di risorse utili a mantenere o a realizzare un inserimento sociale costruttivo. Anche qui, pertanto, si valuterà se i singoli casi presentano quelle ragioni giustificatrici dell'intervento normativo indicate all'inizio: è ovvio che solo in questi casi l'intervento normativo potrà avere ragione di essere.
      In particolare, nel caso di condannati per i delitti di cui all'articolo 79 (già 4-bis), si è previsto che debbano essere svolti gli accertamenti previsti da tale norma sulla permanenza o meno di legami con la criminalità.
      La lettura dell'articolo 83 rivela i punti essenziali dell'intervento normativo.
      La norma dedica i primi tre commi a situazioni generali della detenzione comune, ed i commi 4 e 5 ad una situazione specifica, che è quella della detenzione politica. Gli ultimi quattro commi sono riferibili sia alla situazione generale che a quella specifica.

La detenzione comune.

      Ai commi 1 e 2 dell'articolo 83 è previsto il superamento delle condizioni temporali di ammissibilità, mentre sono confermate tutte le condizioni di merito previste per le singole misure. È decisiva la osservazione di cui all'articolo 18 della legge n. 354 del 1975 per fornire i dati essenziali per la decisione della magistratura di sorveglianza.
      Sono enunciati i tempi decorsi dal reato perché lo speciale intervento possa essere legittimato e gli stessi sono graduati in relazione alla importanza della pena da eseguire. Tali tempi sono abbreviati se è già stata espiata una parte sufficientemente significativa della pena.
      Al comma 3 si chiarisce che restano ferme le preclusioni alla ammissibilità alle misure (salva la collaborazione con la giustizia) per i reati di maggiore gravità di cui al primo periodo del comma 1 dell'articolo 79 (già articolo 4-bis).

La detenzione politica.

      Il tema di un intervento normativo sulla detenzione politica è stato più volte riproposto e mai risolto. Ci si è sempre riferiti alla detenzione politica relativa a fatti risalenti nel tempo e con i quali gli episodi più recenti, limitandoci all'ambito italiano e prescindendo da quello internazionale, non si manifestano in rapporto di significativa continuità. La distanza di tempo trascorsa da quei fatti può fare ritenere che gli stessi non abbiano più una attualità problematica per la stabilità democratica.
      L'intervento, salvo alcune modifiche, è analogo a quello previsto per la detenzione comune: è data una indicazione per il ricorso al sistema delle misure alternative (si veda il comma 4 dell'articolo 83).
      È da dire, comunque, che all'accertamento condotto con l'osservazione penitenziaria, si aggiunge qui una valutazione su dati - di cui si sottolinea la oggettività - che fanno ritenere il ripudio della violenza come strumento di lotta politica da parte degli interessati. In questa linea si prevede, al comma 5, l'inserimento nelle prescrizioni relative alle singole misure alternative dello svolgimento di attività socialmente utili, operative quale conferma dell'abbandono di ogni strumento di violenza politica.
      C'è da rilevare che, per gran parte dei delitti in questione, esistevano, con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, limiti temporali di ammissibilità più ampi, che sono diventati vere e proprie preclusioni alla ammissibilità (salva la collaborazione con la giustizia) con le modifiche di cui alla legge 23 dicembre 2002, n. 279. Si deve osservare, al proposito, che si deve scegliere qui di ragionare nei termini indicati nel nuovo testo dell'articolo 79, con il quale si è sostituito l'articolo 4-bis del testo vigente. In tale norma si è previsto che le preclusioni in

 

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questione cessano di avere effetto dopo un considerevole lasso di tempo in detenzione. Nella situazione che qui interessa, il lasso di tempo trascorso è particolarmente rilevante, anche se non trascorso in detenzione. D'altronde, si deve anche rilevare che i casi per cui viene previsto questo intervento normativo riguardano aggregazioni criminali risalenti a periodi di tempo ormai lontani. Questa ultima considerazione giustifica anche la differenza di trattamento di quella che abbiamo chiamato detenzione politica da quella che abbiamo chiamato detenzione comune: per questa, nei casi in cui i condannati abbiano agito nel quadro di attività di organizzazioni criminali, queste, anche se mutate nel tempo, restano generalmente ancora operative.
      Va rilevato, in conclusione, che il precedente provvedimento sulla dissociazione (legge 18 febbraio 1987, n. 34), risalente, quindi, a ben diciassette anni fa, ebbe risultati molto positivi sia sul piano della problematicità di gran parte della detenzione politica, sia nel concreto recupero ad una corretta vita sociale delle molte persone che ne fruirono.

Le disposizioni comuni.

      Gli ultimi quattro commi dell'articolo 83 contengono disposizioni concernenti sia la detenzione comune che quella politica.
      Al comma 6 si dispone che, quando i tempi decorsi dai fatti sono particolarmente lunghi, si attribuisce la preferenza, fra le altre misure, alla liberazione condizionale.
      Al comma 7 si stabiliscono regole specifiche per i tempi di durata della liberazione condizionale.
      Il comma 8 reca una disposizione relativa alla composizione dell'organo che può proporre la concessione dei benefìci.
      Al comma 9, come già rilevato, si riconferma che per i reati di cui all'articolo 79 restano fermi gli accertamenti relativi ai collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, di cui ai commi 3, 4 e 5 del medesimo articolo 79.

Sezione II. Relazione sul capo II del titolo II, concernente i trattamenti penali ed extrapenali diversi da quello detentivo.

A. Premessa.

      La finalità di risocializzazione e di riabilitazione da situazioni di devianza della esecuzione penale è chiaramente affermata dalla Costituzione, ribadita nelle articolazioni concrete dalla giurisprudenza della Corte costituzionale: si vedano, in particolare, le sentenze n. 204 del 1974, n. 343 del 1987 e n. 282 del 1989.
      A tali princìpi si attiene l'ordinamento penitenziario, in particolare con lo strumento delle misure alternative alla detenzione.
      Queste favoriscono la utilizzazione della fase della esecuzione penale come momento di concreta progettazione ed attuazione dell'inserimento sociale del condannato e in modo specifico del suo inserimento lavorativo.
      Il riconoscimento e l'attuazione di tali princìpi sono ormai propri della esecuzione della pena, riferendoci alla pena principale e in particolare alla pena detentiva.
      Per la pena nel suo complesso va particolarmente sottolineata la necessità della sua «congruenza» rispetto alle finalità che sono proprie alla stessa, «congruenza» che viene affermata in un'altra sentenza della Corte costituzionale, la n. 313 del 1990, che ha portato alla modifica dell'articolo 444 del codice di procedura penale (di recente ulteriormente modificato e non pare nel rispetto della sentenza ora citata), nella parte in cui richiedeva che, in caso di patteggiamento sulla pena, la stessa debba essere «congrua», ovvero adeguata ai fini propri della pena medesima. Ciò che viene richiesto non è solo l'obbligo di «congruenza» circa l'entità minima della pena, ma anche quello sulla entità massima, che non può essere tale da rimettere ad un futuro incerto e remoto la possibilità di orientare la esecuzione penale alla progettazione e allo sviluppo di percorsi di riabilitazione e

 

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di inclusione sociali. Si tratta, comunque, di un punto che ci si limita a segnalare, richiedendo, per una proposta di modifica normativa, una sede diversa da quella attuale.
      Questo aspetto riguarda, comunque, la pena nel suo complesso. Ma, come si è accennato, il lavoro che si ritiene necessario affrontare qui riguarda tutti gli aspetti ed effetti ulteriori della pena, oltre la pena detentiva, sui quali la legislazione vigente attende una verifica costituzionale: in proposito non vi è stato un impegno adeguato o, meglio, per molti aspetti, non vi è stato impegno alcuno.
      Non è stata, infatti, compiuta una adeguata ricognizione di tutte quelle disposizioni penali e amministrative che, generalmente alla conclusione della pena detentiva, e quando, sovente, i percorsi di risocializzazione e di riabilitazione sono avviati o conclusi, impediscono un regolare svolgimento di questi o il mantenimento dei risultati raggiunti: sul versante dell'inserimento lavorativo, ma, come si vedrà, anche su altri versanti e soprattutto sulla esigenza essenziale di pervenire ad una situazione definita e definitiva, nella quale la esecuzione complessiva della pena e i suoi effetti si possano ritenere conclusi.
      Sinteticamente: la esecuzione della pena, nel regime attuale, tende a non finire mai.
      Le indicazioni che seguono colgono i punti critici più rilevanti e costruiscono delle soluzioni normative che non appaiono irragionevoli, ma, al contrario, riparano alcune irrazionalità che la normativa vigente presenta. Su questo ci soffermeremo nelle relazioni concernenti i singoli punti dell'intervento proposto.
      Esamineremo i seguenti punti:

          I: le pene pecuniarie;

          II: le pene accessorie;

          III: le spese processuali e le spese di mantenimento durante i periodi detentivi, nonchè la remissione del debito;

          IV: le misure di sicurezza;

          V: gli effetti penali ed extrapenali della condanna; disposizioni di agevolazione all'inserimento sociale.

B. Le pene pecuniarie.

      Deve chiarirsi che le considerazioni e gli interventi che seguono fanno riferimento al sistema attuale delle pene pecuniarie e alla gestione dello stesso. Il che non esclude e non contrasta una possibile rivisitazione e riorganizzazione del sistema delle pene pecuniarie, rimesse evidentemente ad una revisione del codice penale, che pare non attenere alla immediatezza.
La esecuzione della pena pecuniaria, oggi, è uno dei punti che pongono particolari problemi nella fase conclusiva della espiazione. Va anche ricordato che molti dei condannati sono tossicodipendenti e che, per i reati commessi in violazione delle leggi relative - testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 -, si applicano pene molto elevate e che tali sono, in particolare, quelle pecuniarie. L'effettivo pagamento di tali pene è assolutamente infrequente, specie quando le stesse sono molto consistenti: e ciò per la buona ragione che i destinatari sono sovente in pessime condizioni economiche. È poi particolarmente dannoso il sistema che consegue all'inevitabile mancato pagamento: dannoso anche per gli effetti che produce nella sfera di relazioni del soggetto.
      In primo luogo, il tempo della procedura di esecuzione è del tutto imprevedibile. È questo un aspetto che contribuisce alla incertezza sulla conclusione della espiazione e lascia il condannato in una situazione precaria, che non contribuisce alla sua ricerca di soluzioni di inserimento costruttive e definitive.
      In secondo luogo, il ricorso alla esecuzione forzata, quando arriverà, porta al condannato: precetto e pignoramento di quanto sia pignorabile, in danno generalmente della famiglia del condannato, presso la quale questi è rientrato al termine della pena detentiva. E, inoltre, quando l'esecuzione forzata conferma che non c'è da pagare nulla, arriva, anche questa con tempi imprevisti e imprevedibili, la conversione della pena pecuniaria in libertà controllata, sanzione sostitutiva

 

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particolarmente pesante e di durata notevole (in relazione alla entità delle pene, fino ad un anno o, in caso di concorso di pene, fino ad un anno e mezzo), che trova, fra l'altro, applicazione dopo la esecuzione della pena detentiva, anche se si sia trattato di esecuzione in misura alternativa, e quando, pertanto, il processo di riabilitazione è ormai avviato o già concluso.
      Per evitare queste conseguenze, si tratta di modificare, per certi aspetti anche radicalmente, il sistema e pare ragionevole distinguere fra coloro che hanno concluso la espiazione della pena detentiva in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale e coloro che l'hanno, invece, conclusa in altra misura alternativa o con la espiazione effettiva in carcere.
      Se è vero che ciò può creare una situazione di disparità, si può osservare: da un lato, che questa deriva dal regime diverso attuato in passato (e cioè dalla prassi seguita per molti anni di ritenere estinta la pena pecuniaria a seguito dell'esito positivo della prova in misura alternativa) e, dall'altro lato, che, comunque, tale disparità può essere spiegata con la natura maggiormente responsabilizzante e, quindi, più impegnativa, delle due misure alternative che verranno a fruire della soluzione più favorevole.

1. Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale

      Il testo vigente del comma 12 dell'articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, è stato a lungo interpretato, da una parte dei magistrati di sorveglianza ed anche da una parte degli uffici della esecuzione penale, nel senso che l'esito positivo della prova in misura alternativa estingueva la pena nella sua interezza, compresa la pena pecuniaria: la cessazione degli effetti penali pareva ribadire tale conclusione. La Corte di cassazione, dopo decisioni contrastanti, è pervenuta ad una giurisprudenza contraria, in base alla quale si ritiene che l'esito positivo della prova estingue soltanto la pena detentiva, in quanto la normativa sull'affidamento non fa mai riferimento alla pena pecuniaria. Anche la estinzione degli effetti penali si limiterebbe, pertanto, a quelli ricollegabili alla pena detentiva.
      La soluzione qui adottata - al comma 13 dell'articolo 58 - è quella che ha avuto lunghi anni di applicazione, e che sembra anche più logica rispetto al testo della norma. È apparso necessario, comunque, rendere esplicito, per superare la giurisprudenza della Corte di cassazione, l'effetto della estinzione della pena pecuniaria. L'aggiunta, nel testo che segue, della estinzione delle pene accessorie è spiegata, più oltre, nella parte riservata a queste (si tratta, come si vedrà, di una puntuale applicazione dell'articolo 20 del codice penale).
      Analoga modifica è da praticare nel secondo comma dell'articolo 177 del codice penale, trasformato nel comma 3 dell'articolo 73 di questa proposta di legge: il problema interpretativo è lo stesso e richiede analoga soluzione.
      La modifica del testo del secondo comma dell'articolo 177 del codice penale propone un ulteriore problema interpretativo sulla revoca delle misure di sicurezza, esplicita in tale norma, ma assente nella normativa sull'affidamento in prova. Si parlerà di questo nella parte che riguarda, appunto, le misure di sicurezza.
      Le modifiche normative, per questa parte, sono già state inserite, come già detto, nel capo I di questo titolo: per l'affidamento in prova, al comma 13 dell'articolo 58 e, per la liberazione condizionale, al comma 3 dell'articolo 73.

2. Esecuzione della pena conclusa in altra misura alternativa o in effettiva espiazione della pena in carcere.

      Come si è accennato, nei casi ora indicati, non vi è spazio ad una soluzione analoga a quella adottata sub 1 e si è anche cercato di indicare le ragioni che giustificano questa differenza di trattamento. Comunque, si realizza una serie di

 

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interventi che pongono rimedio agli inconvenienti più gravi del regime attuale.
      Gli interventi sono sostanziali e di procedura.
      Gli interventi sostanziali affrontano il problema della conversione delle pene pecuniarie insolute, sempre rimasto aperto, perchè la soluzione della legge n. 689 del 1981 può suscitare, attraverso la esperienza della concreta applicazione, notevoli perplessità.
      Gli interventi procedurali cercano la via della semplificazione e di mettere a punto un sistema, rimesso anche alla iniziativa degli interessati, che sia in grado di eliminare i tempi morti e la lunga durata delle procedure di esecuzione e di conversione nel trattamento sanzionatorio sostitutivo, con allungamento, in larga misura imprevedibile, del periodo conclusivo di espiazione.
      Per gli interventi procedurali, la fase attuale è particolarmente travagliata. Vi è stata una modifica legislativa della competenza del magistrato di sorveglianza con attribuzione della stessa al giudice della esecuzione. Una recentissima sentenza costituzionale (vedi oltre) ha ritenuto incostituzionale questo passaggio di competenza, facendo pertanto rivivere quella del magistrato di sorveglianza. Il punto è particolarmente delicato, così che merita un esame a parte, che si svolgerà nella conclusione di questa parte. Ci si soffermerà sugli interventi processuali dopo avere approfondito i problemi di quelli sostanziali ed averne individuato le soluzioni.

2A. I problemi e gli interventi sostanziali.

      E veniamo agli interventi sostanziali. Due sono gli aspetti non persuasivi, specie nell'ottica del presente progetto di legge, nella legislazione introdotta dalla legge n. 689 del 1981. Il primo è rappresentato dal trattamento sanzionatorio conseguente alla conversione: la sanzione sostitutiva della libertà controllata (articolo 102 della legge citata); il secondo è che, in caso di violazione delle prescrizioni della libertà controllata, il residuo non eseguito di tale sanzione è convertito in un periodo di pena detentiva uguale alla pena pecuniaria residua. Si ritorna, pertanto, alla fine, ancora al trattamento sanzionatorio detentivo.
      Si tratta di rileggere la sentenza n. 131 del 1979 della Corte costituzionale, che dichiarava la illegittimità costituzionale dell'articolo 136 del codice penale, che prevedeva che la pena pecuniaria non pagata per insolvenza del condannato venisse convertita, secondo un criterio dato di ragguaglio, nella pena detentiva corrispondente. Osservava la Corte: «La conversione della pena pecuniaria in detentiva alla stregua della normativa vigente, finisce infatti per attuarsi soltanto a carico dei nullatenenti, dei soggetti, cioè, costretti alla solitudine di una miseria che preclude anche ogni solidarietà economica e reca, perciò, l'impronta inconfondibile di una discriminazione fondata sulle condizioni personali e sociali, la cui illegittimità è apertamente, letteralmente, proclamata dall'articolo 3 della Costituzione».
      Nell'altra decisione n. 108 del 1987, la Corte precisava che «la sentenza 131/79 (sopra citata) non ha ritenuto illegittima ogni forma di conversione di pena pecuniaria, bensì ha indicato un bilanciamento di valori costituzionali in cui il rilievo preminente del principio di eguaglianza rispetto a quello di inderogabilità della pena impone di agevolare l'adempimento della pena pecuniaria e comunque di prevedere misure sostitutive che riducano al minimo il margine di maggiore afflittività che esse inevitabilmente comportano rispetto all'originaria sanzione, che, pertanto, non rappresenta un ritorno alla previgente disciplina, ritenuta illegittima con la citata sentenza n. 131/79».
      Da queste premesse si può pervenire alle seguenti conclusioni. La Corte non ha ritenuto incostituzionale il regime di conversione della pena pecuniaria previsto dalla legge n. 689 del 1981. Ciò non toglie che si possa trovare una soluzione diversa, dopo avere verificato, nella esperienza applicativa della legge, che si può realizzare in modo più soddisfacente il rispetto dei princìpi relativi alla esecuzione della pena,

 

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specie di quei princìpi, richiamati nella relazione introduttiva, sulla finalità risocializzativa che la pena nel suo complesso non deve mai perdere di vista.
      La pena pecuniaria colpisce le disponibilità patrimoniali di una persona, esercitando un effetto dissuasivo circa il comportamento antigiuridico posto in essere. Quando la persona è priva di disponibilità patrimoniali, il meccanismo non può funzionare ed, allora, si è ritenuto costituzionalmente legittimo di agire ancora su ciò che una tale persona ha comunque: la propria libertà. Era incostituzionale una limitazione drastica di tale libertà quale veniva posta in essere con la conversione in pena detentiva, ma si poteva arrivare a restrizioni della libertà di tipo non detentivo ed, in ultima istanza, e quando non si rispettavano quelle restrizioni, anche a restrizioni della libertà di tipo detentivo. Due osservazioni sono, però, da fare a sostegno di una risposta diversa rispetto a quella della legge n. 689 del 1981. La prima osservazione è ricavata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 108 del 1987, sopra citata, nella quale si legge che le misure sostitutive da prevedere, in caso di insolvenza del condannato, devono essere tali da «ridurre al minimo il margine di maggiore afflittività che esse inevitabilmente comportano rispetto alla originaria sanzione». La seconda osservazione è che la esperienza applicativa della soluzione della legge n. 689 del 1981 dimostra che la «riduzione al minimo del margine di maggiore afflittività» può essere raggiunta in modo più soddisfacente di quanto non sia stato fatto e in modo più coerente alla espiazione complessiva della pena e alle sue finalità. L'applicazione della libertà controllata anche per periodi non brevi (fino a un anno o a un anno e mezzo), con tutte le limitazioni che comporta, protrae ancora le conseguenze della condanna e limita le possibilità di movimento, di fruizione di occasioni di lavoro e di inserimento, di sistemazione dei regimi di vita. Chi può pagare e paga la pena pecuniaria non deve affrontare nulla di tutto questo. Chi non può, invece, subirà la libertà controllata e, se non rispetterà le prescrizioni della libertà controllata, vedrà riproporsi alla fine la conversione in pena detentiva. Questa ultima e più grave conseguenza può suggerire di cambiare completamente la risposta normativa vigente al mancato pagamento per insolvibilità. L'articolo 108, primo comma, della legge n. 689 del 1981, in fine, prevede che la pena detentiva (in conversione dalla libertà controllata) può essere eseguita in misura alternativa alla pena detentiva.
      La soluzione che qui si propone è allora questa: di mettere al principio ciò che qui si prevede solo alla fine. Di scegliere, cioè, per il trattamento sanzionatorio sostitutivo alla pena pecuniaria, non una sanzione sostitutiva, come la libertà controllata, ma la misura alternativa più classica e operativa, che è l'affidamento in prova al servizio sociale; misura la cui capacità costruttiva e riabilitativa è del tutto coerente con la misura alternativa fruita per la esecuzione della pena detentiva (semilibertà, ad esempio) o fornisce una opportunità di inserimento e di socializzazione che la totale espiazione della pena in carcere non ha offerto.
      Questa soluzione presenta, fra l'altro, un indubbio vantaggio: risolve i problemi posti dalla coesistenza di due trattamenti sanzionatori molto dissimili, come erano la libertà controllata e il lavoro sostitutivo. La sentenza della Corte costituzionale n. 206 del 1996 aveva dichiarato incostituzionale il secondo comma dell'articolo 102 della legge n. 689 del 1981, che limitava la ammissibilità del lavoro sostitutivo alle pene pecuniarie non superiori al milione di lire. Non essendo intervenuta alcuna modifica legislativa, le condizioni esecutive del lavoro sostitutivo restavano fissate entro il limite massimo di sessanta giorni, con la prestazione di almeno una giornata lavorativa settimanale, senza alcuno degli obblighi e degli effetti che l'articolo 56 della legge n. 689 del 1981 fissa per la libertà controllata. La differenza fra le due misure sanzionatorie era stridente e la scelta dell'una o dell'altra era molto legata all'impegno del magistrato di sorveglianza decidente nel ricercare, accettare e costruire, nell'assenza di
 

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concreti indirizzi generali, la ipotesi del lavoro sostitutivo. Quindi, poteva capitare, per la stessa pena pecuniaria, di avere un anno e mezzo di libertà controllata, con tutti gli obblighi capillari e i pesanti effetti previsti (sospensione della patente, ritiro del passaporto o di documento equipollente) o sessanta giorni di lavoro sostitutivo, senza obblighi, né effetti collaterali. La soluzione qui indicata supera questa situazione di scarsa equità. Si aggiunga che, essendo il lavoro sostitutivo previsto in una fase successiva e a richiesta dell'interessato, lo stesso resta, comunque, misura abbastanza eccezionale e discrezionale.
      Fatto questo rilievo, ci si sofferma su due chiarimenti ed una precisazione finale.
      I chiarimenti. Il primo è che è conveniente abbandonare un ragguaglio puramente aritmetico fra entità della pena pecuniaria ed entità della misura alternativa: è preferibile un ragguaglio a scaglioni, che esclude durate minime irrisorie e improduttive e limita comunque le durate massime previste oggi per la libertà controllata.
      Il secondo chiarimento è che la violazione delle prescrizioni dell'affidamento in prova deve trovare una risposta nello stesso regime, anche se eventualmente aggravato. È un punto delicato, che si è cercato di risolvere in modo che si ritiene adeguato. Qui non si tratta tanto, come è previsto nell'articolo 47 del testo vigente, di verificare se la prova in affidamento ha avuto «esito positivo», quanto se la stessa, per le restrizioni alla libertà del soggetto, gli impegni posti allo stesso e la sua complessiva risposta alle prescrizioni, abbia posto in essere quel «margine di maggiore afflittività (...) rispetto alla originaria sanzione», che, pur se «ridotto al minimo», deve inerire al trattamento sanzionatorio sostitutivo (le parti fra virgolette appartengono alla sentenza della Corte costituzionale n. 108 del 1987, già citata). Si ripetono allora, da parte del magistrato di sorveglianza, al termine del periodo di affidamento in prova, quel giudizio e quella conclusione, affermati nella sentenza della Corte costituzionale n. 343 del 1987, sulla rideterminazione del trattamento sanzionatorio da attuare quando la prova non sia stata positiva: solo che il criterio di valutazione sarà abbastanza diverso (da quello sopra indicato) e la conseguenza non sarà la rideterminazione di una pena detentiva residua, ma ancora un periodo di affidamento, sia pure con un rafforzamento delle prescrizioni.
      La precisazione finale. Fra le prescrizioni può essere inserita quella relativa allo svolgimento di attività di volontariato o di lavori socialmente utili: può rappresentare, ove occorra, un recupero di quella finalità riparativa, in senso ampio, che può essere attribuita alla pena pecuniaria e che, nel caso dell'insolvente, non può essere compiuta.
      Infine, va ricordato che le modifiche sono operate sul testo normativo originario del codice di procedura penale, che ha ripreso ad avere validità dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 212 del 2003, che ha ritenuto costituzionalmente illegittime le modifiche apportate al testo originario dell'articolo 660 del codice di procedura penale e all'altra normativa connessa (competenze del pubblico ministero e del magistrato di sorveglianza).

2B. La semplificazione procedurale.

      La sentenza della Corte costituzionale n. 212 del 2003 ha dichiarato la incostituzionalità «degli articoli 237, 238 e 299 - quest'ultimo nella parte in cui abroga l'articolo 660 del codice di procedura penale - del decreto legislativo 30 maggio 2002, n. 113 (testo unico delle disposizioni legislative in materia di spese di giustizia)». È pertanto venuta meno la disciplina ora detta nella parte in cui disponeva il passaggio della competenza alla conversione delle pene pecuniarie (nel trattamento sanzionatorio sostitutivo) dalla magistratura di sorveglianza al giudice della esecuzione.
      Alla base di questi interventi normativi c'è la difficoltà dei diversi uffici di accettare

 

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la gestione di una materia molto problematica, come quella della conversione delle pene pecuniarie insolute e dei trattamenti sanzionatori sostitutivi conseguenti. Materia, fra l'altro, per certi versi, rischiosa, dato che gli uffici ispettivi ministeriali avanzano la tesi che il danno da intervenuta prescrizione della pena pecuniaria sia da addebitare ai funzionari che gestiscono le procedure relative e che dovrebbero pertanto rispondere per l'ammontare delle pene pecuniarie insolute (tesi peregrina, se si vuole, dato che la prescrizione riguarda crediti dello Stato pervenuti alla fase della conversione proprio per la insolvibilità dei debitori; tesi, pur sempre, non meno allarmante, data l'autorità amministrativa da cui proviene). Si noti che la dimensione del lavoro è molto notevole, con un forte carico processuale e burocratico, frutto di una giurisdizionalizzazione esasperata e sostanzialmente improduttiva.
      La scelta che si ritiene di dovere operare è questa: mantenere la competenza della magistratura di sorveglianza, cui si è ora tornati, con il recupero dell'articolo 660 del codice di procedura penale (a seguito della sentenza della Corte costituzionale ora citata), ma snellire gli interventi, lasciando pur sempre aperto il ricorso a tutte le garanzie utili, liberando l'attività dal carico burocratico che soffoca gli uffici, senza alcun vantaggio reale del servizio e degli stessi destinatari del medesimo.
      Una risposta efficace alla situazione e ai problemi che pone passa, pertanto, attraverso questi punti:

          1) recuperare il sistema previsto dalla legge n. 689 del 1991, all'articolo 107, primo comma, modificato dall'articolo 660, comma 2, del codice di procedura penale, sistema nel quale era il pubblico ministero competente alla esecuzione che adottava il procedimento di conversione;

          2) riconoscere al magistrato di sorveglianza e non al giudice della esecuzione la competenza su tutte le attività successive alla conversione, quelle di cui all'attuale comma 3 dell'articolo 660 del codice di procedura penale (rateizzazione o differimento dell'esecuzione), e quelle attinenti alla definizione delle prescrizioni del trattamento sanzionatorio sostitutivo, e quelle, infine, relative alla gestione esecutiva di tale trattamento, che - si è sopra proposto - è l'affidamento in prova al servizio sociale e non più la libertà controllata;

          3) utilizzare per la attività del magistrato di sorveglianza una procedura a contraddittorio eventuale, che assicura egualmente la garanzia dei diritti degli interessati (e, anzi, la migliora, per una maggiore speditezza) e favorisce la reale efficacia della azione giudiziaria, altrimenti affogata dal carico qualitativo e quantitativo di una giurisdizionalizzazione piena;

          4) costruire una soluzione abbreviata, rimessa all'iniziativa dello stesso condannato, che «salti» tutta la fase iniziale della esecuzione e ne anticipi i tempi, prevedendo una richiesta rivolta direttamente al magistrato di sorveglianza, accompagnata dalle indicazioni sulla insolvibilità, che potranno essere oggetto di accertamento da parte dello stesso magistrato;

          5) non intervenire, invece, sulla competenza e sulla procedura in materia di esecuzione della libertà controllata e della semidetenzione applicate in sentenza, che mantengono caratteristiche autonome e particolari rispetto alle materie esaminate.

      È utile un approfondimento dei singoli punti indicati.

La conversione della pena pecuniaria operata dal pubblico ministero.

      Si noti che è il passaggio, ex articolo 660 del codice di procedura penale, di tale competenza al magistrato di sorveglianza che ha aggravato moltissimo la situazione. Nella vigenza dell'articolo 107 della legge n. 689 del 1981, il pubblico ministero trasmetteva il provvedimento di conversione già effettuato: il magistrato di sorveglianza doveva soltanto, come nel caso di sanzione sostitutiva data in sentenza, stabilire le concrete

 

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modalità di esecuzione della sanzione sostitutiva. Si può rilevare:

          1) che si dovrebbero avere due accertamenti di insolvibilità, sia presso il pubblico ministero, sia presso il magistrato di sorveglianza (comma 2 dell'articolo 660 del codice di procedura penale: e si veda anche, tanto per semplificare (!) ulteriormente le cose, l'articolo 30 del regolamento di esecuzione del codice di procedura penale, con la restituzione degli atti dal magistrato sorveglianza al pubblico ministero e da questi alla cancelleria del giudice dell'esecuzione se la insolvibilità non è confermata): questa è una disposizione di pessima organizzazione, che produce, nei fatti, la deresponsabilizzazione del pubblico ministero, che manda ora al magistrato di sorveglianza tutti i casi di mancato pagamento, senza accertare la insolvibilità. Di qui la crescita esponenziale di questo servizio presso il solo ufficio di sorveglianza;

          2) che siamo, d'altronde, in una fase di esecuzione di una pena già definita con sentenza di condanna, che ha stabilito la entità della pena pecuniaria senza ombra di dubbio;

          3) che la conversione è disposta in presenza dell'accertamento di un fatto, che è compito del pubblico ministero di verificare (anche secondo l'articolo 660 del codice di procedura penale vigente): l'accertamento «della impossibilità di esazione della pena pecuniaria»;

          4) che, in qualunque momento, la conversione può essere bloccata con il pagamento: si tratta, quindi, di un provvedimento reso allo Stato;

          5) che, inoltre, in qualsiasi momento, è possibile un incidente di esecuzione, questo, certo, presso il giudice della esecuzione, finché gli atti sono presso il pubblico ministero;

          6) che nulla vieta, comunque, che, dell'articolo 660 del codice di procedura penale venga conservata la possibilità del magistrato di sorveglianza di accedere alle richieste del condannato di rateizzazione o differimento del pagamento: il che avvalora, anche secondo questo ulteriore aspetto, la natura del provvedimento di conversione come non definitivo, reso allo Stato e, come tale, quindi, non necessariamente tale da coinvolgere il giudice e, inoltre, con una procedura completamente giurisdizionalizzata.

      Si ritiene che, ritornando al sistema di cui al citato articolo 107 della legge n. 689 del 1981, riconfermando al pubblico ministero la competenza alla conversione, si torni alla soluzione più pratica e che tale soluzione non violi in alcun modo le ragionevoli garanzie del condannato. Questa modifica è da realizzare attraverso il comma 2 dell'articolo 660 del codice di procedura penale, il quale applicherà i criteri di conversione indicati nell'articolo 102 della legge n. 689 del 1981.
      Ovviamente, come accadeva per la libertà controllata, il pubblico ministero dovrà soltanto indicare la misura dell'affidamento in prova secondo le precise indicazioni normative. La specifica delle prescrizioni apparterrà alla competenza del magistrato di sorveglianza.

La competenza del magistrato di sorveglianza per le attività successive alla conversione.

      La competenza della magistratura di sorveglianza in merito alla applicazione delle sanzioni sostitutive e, si noti, anche alla loro esecuzione concreta, è apparsa, nella legge n. 689 del 1981, una scelta sistematica che individuava nella magistratura di sorveglianza quella che doveva affrontare, per le sue caratteristiche, tutte le questioni che attenevano alla concreta esecuzione della pena. Questo vale, in particolare, per la concreta applicazione delle sanzioni sostitutive (fra le quali c'è anche la semidetenzione, che comporta, fra l'altro, anche il riferimento a norme penitenziarie: vedi ultimo comma dell'articolo 55 della legge n. 689 del 1981); e vale, inoltre, anche per la fase esecutiva (cioè, per la gestione operativa) di tutte le sanzioni sostitutive, sia da sentenza che da conversione di pene pecuniarie. Se tale è il giudice naturale sulla concreta applicazione

 

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delle sanzioni sostitutive applicate in sentenza, lo stesso non può non esserlo nel caso di applicazione successiva in conversione di pena pecuniaria non pagata.
      È chiaro che, per converso, appare ben definita la competenza del giudice dell'esecuzione quando è in giuoco la valutazione del titolo di esecuzione; la commistione, a tale competenza sul titolo, di quella sulla concreta esecuzione della sanzione sembra fuori sistema.
      In sostanza: nella materia in esame la competenza del magistrato di sorveglianza appare quella più logica e naturale, mentre non è così per il giudice dell'esecuzione.
      Va aggiunto che il giudice, in materia, affronta problemi che sono inconsueti per il giudice della esecuzione e che, sul piano pratico, possono anche essere di difficile gestione per il giudice della esecuzione. Così, la definizione delle prescrizioni delle sanzioni che comporta, attraverso la acquisizione della conoscenza delle situazioni di inserimento socio-lavorativo degli interessati, decisioni analoghe a quelle consuete del magistrato di sorveglianza, ma profondamente eterogenee rispetto a quelle del giudice della esecuzione. Così, ancora, le decisioni in materia di modificazioni urgenti delle prescrizioni, che pongono problemi gestionali della attività, consueti per la magistratura di sorveglianza e inconsueti per i giudici della esecuzione. E così, infine, tutti gli interventi valutativi sull'andamento del trattamento sanzionatorio sostitutivo, così come previsto nelle modifiche che si sono proposte, interventi che non possono non essere del magistrato di sorveglianza, naturale gestore di tale trattamento, e che non possono che essere estranee al giudice della esecuzione.
      Conclusione: dopo la conversione della pena pecuniaria operata dal pubblico ministero, la competenza per le attività successive è tutta del magistrato di sorveglianza: sia per la rateizzazione e il differimento della esecuzione; sia per la definizione delle prescrizioni dell'affidamento in prova sostitutivo della pena pecuniaria; sia, infine, per la fase della concreta esecuzione dello stesso.
      Il rinnovato testo dell'articolo 660 del codice di procedura penale e degli articoli rilevanti della legge n. 689 del 1981 indicherà tutto questo.

La semplificazione della procedura.

      Tutto l'intervento del magistrato di sorveglianza in sede di concreta applicazione delle sanzioni sostitutive e di modifica delle stesse, è giurisdizionalizzato: vedi articolo 678, con riferimento all'articolo 666, del codice di procedura penale.
      Per vero, anche di tali garanzie giurisdizionali si potrebbe fare a meno nei termini attuali, attraverso un sistema basato su un provvedimento senza formalità, da adottare sentito l'interessato, con la previsione di una giurisdizionalizzazione eventuale, attraverso una opposizione con incidente di esecuzione presso il magistrato di sorveglianza. Il termine per la opposizione deve essere breve e la stessa deve avere efficacia sospensiva. A sostegno di questa soluzione, si può osservare:

          1) la predeterminazione del contenuto delle sanzioni sostitutive pone al giudice limiti di discrezionalità minimi ed è minima pertanto la portata decisoria del provvedimento: di qui la valutazione che una giurisdizionalizzazione piena non è necessaria. Quando si dovrà procedere a conversione in affidamento in prova per mancato pagamento della pena pecuniaria, il discorso sarà più complesso, ma pur sempre gestibile;

          2) si può osservare che, per la determinazione delle prescrizioni della misura di sicurezza della libertà vigilata, assai simile alla libertà controllata, e, tutto sommato, non dissimili dalle prescrizioni da dare in caso di affidamento in prova sostitutivo, l'articolo 190 delle norme di attuazione del codice di procedura penale prevede una decisione senza formalità, non menzionando neppure la condizione di sentire l'interessato, prevista dal vecchio codice (articolo 636 del previgente codice di procedura penale); anche le prescrizioni della semilibertà, simile alla semidetenzione,

 

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sono date, addirittura, con provvedimento amministrativo della direzione penitenziaria, controllato con provvedimento giudiziario del magistrato di sorveglianza adottato senza formalità. Se si vuole, è adottato senza formalità anche il provvedimento che definisce le prescrizioni dell'affidamento e, in modo ancora più evidente, quello che le modifica; la legge 19 dicembre 2002, n. 277, ha introdotto l'articolo 69-bis della legge n. 354 del 1975, in materia di decisione sulla liberazione anticipata, prevedendo una procedura nella quale una effettiva giurisdizionalizzazione è eventuale e interviene soltanto in fase di impugnazione. Tutti i casi indicati comportano discrezionalità sovente maggiori perché intervengono rispetto a situazioni non così predeterminate come accade per il trattamento sanzionatorio sostitutivo di cui si sta parlando;

          3) non si dimentichi che si tratta, per la concreta determinazione delle modalità del trattamento sostitutivo, di un provvedimento reso allo Stato, che può essere sempre modificato: oggi, sempre con procedura giurisdizionalizzata, che potrebbe, invece, essere, anche questa, semplificata negli stessi termini di cui al procedimento iniziale;

          4) si noti che, ai sensi dell'articolo 64 della legge n. 689 del 1991, come si è ora detto, le modifiche delle prescrizioni delle sanzioni sostitutive dovrebbero essere fatte con procedura giurisdizionalizzata (salvi i casi di urgenza, nei quali si può provvisoriamente adottare un provvedimento senza formalità, cui deve seguire la procedura giurisdizionalizzata): ebbene, nella prassi, si adottano, invece, solo e soltanto, provvedimenti senza formalità, senza la prevista, successiva procedura. Questo dimostra come, sempre nella pratica, il regime di giurisdizionalizzazione attuale è eccessivo e, proprio per questo, non osservato.

      Su questo ultimo punto, si ritiene, però, di non modificare l'articolo 64 citato, che resta come è per la esecuzione delle sanzioni sostitutive applicate in sentenza, in quanto non si ritiene di modificare tale normativa, come si precisa qui di seguito. In materia di conversione delle pene pecuniarie si prende, invece, atto di quanto ora osservato e si prevede un intervento assolutamente semplificato.

La procedura abbreviata rimessa all'iniziativa del condannato.

      La semplificazione procedurale rende possibili tempi più brevi di esecuzione. Ma tali tempi possono continuare a essere lunghi, per scarsa efficienza degli uffici, e a non essere prevedibili, rimettendo in discussione, quando l'intervento giudiziario si concreta, situazioni personali e familiari che, dopo la esecuzione della pena detentiva, sembravano consolidarsi. Si parla anche di situazioni familiari perchè la esecuzione forzata colpisce in particolare modo la famiglia, che ha riaccolto il congiunto condannato, e che vede attaccate le proprie, generalmente molto modeste, disponibilità patrimoniali.
      È parso, allora, utile, per rendere meno critico il percorso del condannato, finalizzato a chiudere il percorso esecutivo penale, di prevedere, con la sua iniziativa, l'accesso diretto ad una decisione del magistrato di sorveglianza: «saltando», per un verso, la fase iniziale della esecuzione e chiedendo l'accertamento giudiziario che la definisca.
      Anche questa possibilità trova posto nelle modifiche normative che seguono.

La permanenza del sistema processuale attuale sulle sanzioni sostitutive applicate in sentenza.

      Le sanzioni sostitutive applicate in sentenza sono in numero limitato. Per le stesse non vi è alcuna possibilità di modificare la sanzione sostitutiva, in quanto la stessa è fissata dalla sentenza. La materia ha pertanto una sua autonomia e non può essere che rischiosa la commistione con i problemi della materia della conversione delle pene pecuniarie che abbiamo esaminato sin qui. Nessuna modifica, pertanto, per questa parte.

 

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C. Le pene accessorie.

      Rispetto al fine che si considera dell'inserimento sociale e in particolare di quello lavorativo, vi sono due aspetti negativi discendenti dalle pene accessorie. Il primo aspetto è che tali sanzioni sono incapacitanti, riducono o limitano, cioè, le possibilità del condannato di accedere a determinate attività o di svolgerle. Il secondo aspetto negativo è che, in buona parte dei casi, le pene accessorie vanno eseguite al termine della esecuzione della pena principale, proprio nel momento, cioè, in cui si deve attuare o si deve consolidare, se già avviato, il problema dell'inserimento sociale e in specie di quello lavorativo della persona.

1. Revisione del sistema delle pene accessorie: chiarimenti o soppressioni.

      Le pene accessorie problematiche, in termini di effetti incapacitanti sui percorsi di reinserimento, sono due fra quelle previste in generale dal codice penale, nonché quelle previste per le violazioni delle norme penali del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990. E cioè:

          la interdizione dai pubblici uffici: articolo 28 del codice penale;

          la interdizione legale: articolo 32 del codice penale;

          il divieto di espatrio e il ritiro della patente di guida: articolo 85 del citato testo unico.

      Si possono solo sottolineare sommariamente gli effetti specifici di tali sanzioni ai fini che interessano e vedere quali interventi siano possibili. Si limita la nostra riflessione alle pene accessorie indicate, mentre non sembra possibile intervenire su altre.

L'interdizione dai pubblici uffici.

      Ci si sofferma su un aspetto di tale pena accessoria: sull'effettivo contenuto del secondo comma dell'articolo 28 del codice penale. Interpretata correttamente, tale norma non preclude la assunzione presso pubbliche amministrazioni per attività lavorative che comportano semplici mansioni d'ordine o prestazioni d'opera meramente materiali. Basta al riguardo, leggere, come è necessario, la norma citata alla luce di quanto disposto dal secondo comma dell'articolo 358 del codice penale, che dispone: «Per pubblico servizio deve intendersi una attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione, ma caratterizzata dalla mancanza dei poteri tipici di questa ultima, e con esclusione dello svolgimento di semplici mansioni di ordine e della prestazione di opera meramente materiale».
      È indubbio, pertanto, che le attività ora indicate non sono affatto precluse dalla pena accessoria in questione. Si noti che vi sono amministrazioni comunali che prevedevano l'assunzione di detenuti come operatore ecologico in genere o come inserviente in servizi sanitari e simili. Al riguardo, però, molte amministrazioni ritengono precluse le assunzioni dalla interdizione dai pubblici uffici. Si è creata, quindi, una situazione di incertezza interpretativa che va chiarita con una esplicita previsione di modifica dell'articolo 28. Si noti che la possibilità di tali inserimenti lavorativi è uno strumento prezioso per avviare o anche concludere l'inserimento sociale di una persona.
      Articolo 94 della proposta di legge: è introdotto, all'articolo 28 del codice penale, un nuovo comma, che contiene il chiarimento indicato.

La interdizione legale di cui all'articolo 32 del codice penale.

      La stessa preclude tutte quelle attività che presuppongono il compimento di atti giuridici: che possono andare da uno specifico atto contrattuale per la costituzione di

 

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un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo, alla partecipazione ad atti, come la costituzione di una società, particolarmente di una società cooperativa, che possono porre le condizioni per un successivo inserimento lavorativo. Quindi, anche questa pena accessoria certamente non agevola, ma più spesso ostacola il percorso di reinserimento del condannato nella società.
      Qui si tratta di riflettere sulla ammissibilità della incapacitazione della persona nell'ambito sociale (sembra presente una carica antica di messa al bando del colpevole), che risulta segnata da una filosofia di esclusione sociale del condannato, propria di una concezione della pena esattamente opposta a quella oggi affermata dalla Costituzione e richiamata dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Si noti che qui non vi è un nesso specifico con il reato commesso, ma soltanto con la pena irrogata.
      Si ritiene che, dinanzi a tale norma, l'unico intervento possibile sia quello della soppressione.
      È ciò che viene fatto all'articolo 95 della proposta di legge.
      Nulla vieta, invece, che sopravvivano le interdizioni specifiche previste dagli articoli 32-bis a 32-quinquies del codice penale, che hanno contenuto limitato e sono giustificate dalla connessione con i particolari reati commessi.

Le pene accessorie dell'articolo 85 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 (testo unico sugli stupefacenti): divieto di espatrio e ritiro della patente di guida.

      Sempre all'articolo 95 della proposta di legge è inserita anche la soppressione di altre pene accessorie: quelle previste dall'articolo 85 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 per i condannati per delitti previsti dal medesimo testo unico.
      Le pene accessorie in esame hanno l'effetto di ridurre le opportunità di lavoro dei soggetti sanzionati.
      Il divieto di espatrio impedisce non solo il lavoro all'estero (ed è una possibilità tutt'altro che irrilevante), ma anche il lavoro in Italia che preveda lo svolgimento di prestazioni all'estero (caso dell'autotrasporto, della navigazione, di lavori comunque che si svolgano alle dipendenze di imprese italiane, ma in parte o in toto all'estero).
      Il ritiro della patente di guida è un handicap assoluto o relativo: assoluto nelle attività di lavoro in cui la patente è necessaria e relativo in tutte quelle in cui l'uso della stessa è più o meno indispensabile per raggiungere il luogo di lavoro. Non disporre della patente di guida è oggi una forma di grave incapacitazione della persona. È chiaro che la sanzione è stata voluta, in ragione dei suoi effetti dissuasivi, proprio per questo, ma è anche chiaro che, per il risultato incapacitante che produce e, in particolare, per il ritardo nel tempo di produzione dello stesso (alla fine della pena principale), tale sanzione ostacola e riduce fortemente le possibilità di inserimento al lavoro.
      C'è anche da chiedersi quale efficacia abbiano tali interventi nei confronti del condannato: non sarà certo ostacolato se intenda tornare a delinquere, mentre sarà ostacolato se intenda seguire un percorso di riabilitazione e di lavoro. Teniamo conto che il tutto avverrebbe quando si è ormai conclusa la esecuzione delle parti restanti della pena e, quindi, il condannato ha pagato il suo debito con la giustizia.
      Una soluzione potrebbe essere quella di prevedere forme di disapplicazione di tali norme, rimesse eventualmente ad un provvedimento dell'autorità giudiziaria che, previo accertamento della situazione attuale, agevoli il processo di inserimento sociale e lavorativo in corso del condannato. Potrebbero essere previste forme di sospensione e la successiva revoca, una volta verificato l'uso corretto che è stato fatto della sospensione della sanzione.
      Si ritiene, però, che sia preferibile la soluzione più netta della soppressione di tali pene accessorie, proprio in considerazione delle ragioni di questa disposizione normativa: che sono quelle di fare pesare

 

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la condanna, di non farne perdere il ricordo, di perseguire ancora il condannato dopo che la parte essenziale della condanna è stata sofferta. Tutto ciò, come detto fin dalla relazione generale, è contrario alla nuova finalizzazione della pena affermata dalla Corte costituzionale e la risposta più logica a tali pene accessorie è quella della loro soppressione.
      Tale soluzione è prevista all'articolo 95 di questa proposta di legge.

2. Le pene accessorie in relazione alla esecuzione della pena detentiva.

      Precisata la portata della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici e rimosse le altre pene accessorie indicate, si tratta di esaminare la sorte di quelle restanti a seguito e in relazione alla esecuzione della pena detentiva.
      Anche qui, richiamando in linea generale quanto detto per le pene pecuniarie, possiamo considerare separatamente i casi di coloro che sono stati ammessi all'affidamento in prova e alla liberazione condizionale e li hanno conclusi positivamente, dai casi di coloro che hanno espiato la pena in misura alternativa diversa o in carcere senza ammissione a misure alternative.

Esecuzione della pena detentiva conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale.

      Al proposito, si deve indicare un argomento decisivo di carattere testuale e sistematico. L'articolo 20 del codice penale dispone: «Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa». Ora, il testo vigente del comma 12 dell'articolo 47 della legge n. 354 del 1975, sull'affidamento in prova al servizio sociale, dispone testualmente che «L'esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale». Pertanto, non vi è dubbio che, quali effetti penali, siano soggette ad estinzione anche le pene accessorie.
      Analogamente a quanto si è detto per le pene pecuniarie, la soluzione indicata per l'affidamento in prova vale anche per la liberazione condizionale, il cui contesto interpretativo, come si è osservato per le pene pecuniarie, è molto simile a quello dell'affidamento in prova e consente analoghe conclusioni.
      D'altronde, si può osservare che una misura casuale e generalizzata come il condono della pena principale, anche se parziale, comporta il venire meno delle pene accessorie: quantomeno nei provvedimenti di condono recenti, anche se la regola dell'articolo 174, primo comma, del codice penale, è opposta.
      È utile ricordare che il comma 12 dell'articolo 47 della legge n. 354 del 1975, si applica anche all'affidamento in prova in casi particolari: vedi comma 6 dell'articolo 94 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990.
      Le modifiche normative conseguenti a quanto ora osservato sono le stesse predisposte per la pena pecuniaria e già introdotte, per l'affidamento in prova, nel nuovo testo del comma 13 dell'articolo 58 e, per la liberazione condizionale, nel terzo comma dell'articolo 177 del codice penale, come modificato dalla proposta di legge.
      A tali modifiche si rinvia.

Esecuzione della pena conclusa in semilibertà o in detenzione domiciliare, anche speciale, o in espiazione della pena in carcere.

      Se non vi è stata ammissione alle misure alternative dell'affidamento in prova e della liberazione condizionale, si deve, comunque, tenere presente l'esito della revisione fatta in materia di pene accessorie, con il chiarimento sulla portata della interdizione dai pubblici uffici e con la soppressione della interdizione legale e delle pene accessorie previste dall'articolo 85 del testo unico di cui al decreto del

 

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Presidente della Repubblica n. 309 del 1990.
      Non sembra si possa andare oltre e prevedere effetti estintivi sulle altre pene accessorie, ma sarà utile però chiarire i tempi e i periodi di esecuzione delle stesse, curando quindi di evitare la imprevedibilità degli uni e degli altri.
      A questo si provvede all'articolo 96 della proposta di legge, aggiungendo due commi all'articolo 662 del codice di procedura penale. Nel nuovo comma 2-bis si dispone che la esecuzione delle pene accessorie sia immediatamente successiva al momento del passaggio in giudicato: pertanto deve essere contemporanea alla esecuzione delle parti eseguibili della sentenza di condanna. Quindi, non potranno essere poste in esecuzione successivamente. Al nuovo comma 2-ter si definisce anche la decorrenza del periodo di esecuzione della pena accessoria.

D. Le spese di giustizia e la remissione del debito.

      Da sempre è noto che l'attività necessaria per la riscossione delle spese di giustizia ha un costo decisamente superiore ai ricavi. In questa materia, inizialmente, nei lavori di preparazione per la legge n. 354 del 1975 vi erano state proposte di abolizione del debito del condannato per le spese. Questa soluzione radicale, però, è contrastata anche dal nuovo codice di procedura penale, che, in epoca meno lontana, ha confermato tutte le disposizioni in materia di condanna alle spese. Siamo dinanzi a una questione che non dovrebbe essere abbandonata, ma indubbiamente questa non è la sede per affrontarla.
      È invece la sede per cercare di ridurre l'impatto negativo del sistema attuale di esazione delle spese processuali e di migliorare la efficacia positiva del beneficio della remissione del debito, che può annullare le stesse. Anche qui si hanno esecuzioni in tempi imprevedibili, con gli stessi effetti negativi che caratterizzano la messa in esecuzione delle pene pecuniarie.
      Uno dei punti principali della questione è di dare maggiore efficacia e tempestività alla remissione del debito.
      Al proposito, sono possibili tre interventi che favoriscono la semplificazione degli accertamenti in merito ai requisiti richiesti per la concessione della remissione del debito e favoriscono anche tempi più celeri nelle decisioni.
      Il primo riguarda il requisito delle «disagiate condizioni economiche», sul quale gli accertamenti non sono semplici e che, si aggiunge, è fonte di notevole eterogeneità di valutazione e di decisione. Al riguardo si può contestualizzare meglio la situazione, ricordando che la gran parte dei casi riguarda soggetti che non versano in condizioni economiche agiate. I redditi dei condannati sono generalmente medio-bassi ed è raro trovare persone con cespiti patrimoniali immobiliari. Tutto si gioca pertanto sulla valutazione di questi redditi medio-bassi e come tali in grado di qualificare o meno le situazioni economiche disagiate richieste dalla normativa vigente. In tali situazioni il punto di vista personale del giudice è decisivo. Se il debito, poi, non è molto modesto, si tratta di decidere se una ulteriore riduzione di redditi medio-bassi per pagare il debito per le spese possa essere consentita anche quando incide su quote essenziali del reddito, utili per soddisfare indispensabili esigenze di vita.
      Una soluzione potrebbe essere quella di rovesciare il contenuto della condizione, prevedendo la esclusione del beneficio per coloro che si trovino in condizioni economiche agiate. Ma verosimilmente le incertezze applicative resterebbero nei pur rari casi in cui il problema si porrebbe. Ecco perché, in conclusione, si ritiene che il requisito relativo alle condizioni economiche possa essere eliminato: se si vuole, non si realizza una situazione di disuguaglianza, ma una situazione di eguaglianza in presenza di situazioni patrimoniali diseguali. Tale eliminazione fa recuperare, d'altronde, la natura sostanzialmente premiale del beneficio, che si basa sulla regolarità della condotta, con la finalità di incoraggiare la stessa, finalità che esiste

 

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per tutti coloro che sono sottoposti alla esecuzione di una pena, quali che siano le loro condizioni economiche.
      Il secondo intervento riguarda l'altra condizione, attinente alla regolarità della condotta: si tratta di definire un parametro valutativo di più semplice e significativo accertamento.
      Si noti che, con sentenza n. 342 del 1991, la Corte costituzionale ha dichiarato «la illegittimità costituzionale dell'articolo 56 della legge n. 354 del 1975 nella parte in cui non prevede che, anche indipendentemente dalla detenzione per espiazione di pena o per custodia cautelare, al condannato possano essere rimesse le spese del procedimento se, in presenza del presupposto delle disagiate condizioni economiche, abbia serbato in libertà una condotta regolare».
      Per questo aspetto, pertanto, il citato articolo 56 deve essere necessariamente modificato. Si può allora proporre una modifica che riguarda tutte le situazioni e che semplifica e al tempo stesso rende più significativi gli accertamenti sulla regolare condotta.
      La normativa vigente richiede che gli accertamenti siano compiuti con riferimento alla specifica esecuzione penale che ha dato origine al debito e ai connessi periodi di detenzione, il che comporta: di verificare il periodo o i periodi di detenzione in questione; di accertare i vari luoghi di detenzione durante quel periodo o quei periodi e la condotta tenuta negli stessi. Va da sé che si avranno risposte del tutto formali, data la frequente risalenza nel tempo di molti periodi, e mai esaurienti rispetto alle indicazioni dell'articolo 30-ter vigente della legge n. 354 del 1975.
      Tali accertamenti non sono né semplici, né brevi. È più agevole e più logico, sempre nel quadro della premialità dell'istituto e della stimolazione alla regolare condotta, il richiamarsi alla attualità di questa. Non è necessario in tale modo accertare i periodi di detenzione risalenti e la regolarità di condotta negli stessi, ma il tutto è riferito alla sola situazione attuale. Tale criterio rispecchia anche le indicazioni della citata sentenza della Corte costituzionale, sia pure circoscrivendo (ma rendendo così più agevole l'accertamento) il periodo di tempo di riferimento. Sarà bene chiarire che la regolarità della condotta fa riferimento alla finalizzazione della stessa al reinserimento nell'ambito sociale. Il che chiarisce che il senso finale dell'intervento premiale viene ad essere sempre la finalizzazione ora detta, che non deve essere mai perduta nei vari tempi e aspetti della esecuzione penale.
      Terzo ed ultimo intervento. È indubbio che la proposizione della istanza richiede un'unica condizione: la condanna al pagamento delle spese. Non si devono ritenere necessarie anche la liquidazione e la richiesta di pagamento del debito, che, fra altro, arrivano sovente con moltissimo ritardo: si tratta di evitare l'effetto «spada di Damocle», che pende, pende e cade poi nel momento meno opportuno.
      Per la remissione del debito può essere mantenuta la procedura a giurisdizionalizzazione piena oggi prevista.
      Tutto quanto ora detto è rispecchiato nell'articolo 85 della proposta di legge, che modifica l'articolo 56 del testo vigente.

E. Le misure di sicurezza.

      Si deve chiarire che ci si riferisce qui alle sole misure di sicurezza nei confronti di soggetti imputabili, che si aggiungono, quindi, alla pena e che sono eseguite al termine della stessa. Questo discorso non coinvolge pertanto la misura di sicurezza dell'ospedale psichiatrico giudiziario.
      I trattamenti penali così precisati hanno un effetto negativo sui processi di inserimento sociale e in particolare su quello lavorativo: sia per gli effetti limitativi della libertà e delle possibilità di spostamento delle persone, sia per le conseguenze giuridiche che si possono accompagnare alla sottoposizione alla misura di sicurezza.
      Ricordiamo che il ventaglio di tali misure è ampio: ci sono quelle generali, che possono essere detentive o non detentive e sono elencate dall'articolo 215 del codice

 

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penale, e quelle previste da normative speciali, come la espulsione dello straniero dallo Stato, prevista dall'articolo 86 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990.
      Una premessa. Affermata la utilizzazione della pena in funzione della riabilitazione e della risocializzazione, prevista la sua conclusione attraverso misure alternative alla detenzione per dare concretezza a quella funzione, ci si chiede che senso abbia prevedere, al termine della esecuzione, la possibilità di una permanente valutazione di pericolosità sociale nei confronti di un soggetto e la applicazione di una misura di sicurezza. Certo, è possibile che, nei confronti di chi abbia dato scarse prove di risocializzazione nel corso della pena, un giudizio di pericolosità possa essere mantenuto, ma parrebbe che il cosiddetto «doppio binario» - pena più misura di sicurezza - previsto dal codice Rocco, non sia in sintonia con la sempre più marcata sottolineatura della funzione rieducativa della pena, affermata dalla Corte costituzionale. Per altro verso, quella parte della teoria penalistica che non condivide la sottolineatura ora detta della funzione rieducativa della pena e la connessa flessibilità della stessa attraverso un sistema di misure alternative in sede esecutiva, e che afferma un ritorno alla concezione classica della pena certa e immodificabile, anche se nel quadro di un diritto penale minimo nelle incriminazioni e nelle pene, non può non contestare la previsione di un ulteriore trattamento penale, per giunta indeterminato nella sua durata, quale quello delle misure di sicurezza. In conclusione: il sistema delle misure di sicurezza dovrebbe avere fatto il suo tempo. Tanto è vero che i progetti di riforma del codice penale (progetto di legge delega per un nuovo codice penale, predisposto presso il Ministero di grazia e giustizia, cosiddetta «bozza Pagliaro», aggiornato, negli anni più recenti, dai lavori della Commissione Grosso e disegno di legge per la sostituzione del libro I del codice penale, presentato da Ritz e altri, nelle legislature scorse), ne prevedono la soppressione (o, nel progetto di legge Ritz, una riduzione ai minimi termini). Resta, in sostanza, la sola misura di sicurezza nei confronti di soggetti non imputabili: l'ospedale psichiatrico giudiziario o equivalente.
      La prima soluzione del problema è dunque quella ora accennata: sopprimere le misure di sicurezza nei confronti dei soggetti imputabili. Può essere una soluzione non immediata, ma è ormai quella che sembra largamente accettata.
      Sono possibili ovviamente soluzioni più immediate e di minore respiro, che sono quelle che si propongono qui. Al proposito, conviene distinguere, ancora una volta, fra i casi in cui la pena è stata eseguita o quantomeno si è conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale e i casi in cui ciò non è avvenuto.

1. Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale.

      La situazione è diversa nei due casi indicati.
      Nella liberazione condizionale il problema è già risolto dal vigente articolo 177, secondo comma, del codice penale che dispone: «Decorso tutto il tempo della pena inflitta, ovvero cinque anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale, se trattasi di condannato all'ergastolo, senza che sia intervenuta alcuna causa di revoca, la pena rimane estinta e sono revocate le misure di sicurezza personali, ordinate dal giudice con la sentenza di condanna o con provvedimento successivo».
      Di questo testo è stata proposta la modifica nelle pagine che precedono per chiarire che la estinzione della pena investe anche la pena pecuniaria e le pene accessorie. Si veda il comma 3 dell'articolo 73 di questa proposta di legge. Quanto alle misure di sicurezza, dunque, lo stesso è già pienamente in linea con quanto sopra sostenuto.
      Diverso il discorso per l'affidamento in prova, anche se la soluzione normativa per

 

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la liberazione condizionale, risalente fra l'altro, ad anni lontani, indica chiaramente che la stessa soluzione può essere adottata per l'affidamento in prova.
      Secondo alcuni interpreti questa è già la conclusione da trarre con il testo vigente, anche se l'articolo 47 della legge n. 354 del 1975, non la esplicita. Va, in effetti, ricordato, che il testo originario dell'articolo 47, al primo comma, prevedeva che, quando alla pena seguiva una misura di sicurezza detentiva, l'affidamento in prova era inammissibile. Tale previsione è venuta meno con le modifiche della legge 10 ottobre 1986, n. 663. L'affidamento in prova è quindi ritenuto compatibile con la applicazione di una misura di sicurezza detentiva. E se la prova della misura alternativa ha esito positivo, la logica vuole che la indicazione di pericolosità sociale, insita nella applicazione della misura di sicurezza, perda completamente rilevanza. A questo punto, tenendo conto che, con le successive modifiche in materia di effettiva esecuzione delle misure di sicurezza, introdotte dagli articoli 658 e 679 del codice di procedura penale, occorrerebbe comunque un accertamento di pericolosità sociale attuale del soggetto per applicare la misura di sicurezza, sembra di dovere concludere che, finita positivamente la prova in affidamento al servizio sociale, la misura di sicurezza non sia da eseguire. È ovvio che questo vale anche per la misura di sicurezza della espulsione dello straniero dal territorio dello Stato.
      Si ritiene, però, che sia opportuno rendere esplicita questa conclusione. Tale modifica è già stata apportata, per l'affidamento in prova al servizio sociale, al comma 13 dell'articolo 58 della presente proposta di legge, cui si rinvia.

2. Esecuzione della pena conclusa in semilibertà o in detenzione domiciliare, anche in detenzione domiciliare speciale, o in esecuzione in carcere.

      È indubbio che, nei casi ora in esame, il sistema attuale esclude ogni automatismo, così che la applicazione della misura di sicurezza si ricollega ad una valutazione di pericolosità sociale attuale, che viene operata dal magistrato di sorveglianza, come previsto dagli articoli 658 e 679 del codice di procedura penale, già richiamati.
      È utile, comunque, sottolineare la esigenza di un accertamento di pericolosità particolarmente completo quando la pena si è conclusa di recente e vi è stata la regolare fruizione di semilibertà o di detenzione domiciliare o, almeno, vi è stata, durante la esecuzione in carcere, la regolare fruizione della riduzione di pena per liberazione anticipata o dei permessi-premio o del lavoro all'esterno.
      Nel caso, comunque, che la misura di sicurezza abbia esecuzione, si dovrebbero porre in evidenza due punti essenziali.
      Il primo è che la esecuzione della misura di sicurezza dovrebbe recuperare le finalità di reinserimento che non hanno avuto attuazione nella esecuzione della pena. Se la misura di sicurezza è detentiva e la pericolosità sociale non venga esclusa, il magistrato di sorveglianza decidente può richiamare la necessità della utilizzazione del periodo detentivo della misura di sicurezza per offrire all'internato, da parte degli operatori, occasioni di inserimento sociale. Se la misura di sicurezza non è detentiva, le prescrizioni di questa devono essere finalizzate a non ostacolare in alcun modo l'eventuale svolgimento di un'attività di lavoro.
      Deve essere, d'altronde, possibile allo stesso magistrato che dispone la esecuzione della misura di sicurezza di disapplicare quelle norme che comunque ostacolino lo svolgimento di attività lavorative durante lo svolgimento delle misure: ci si riferisce alle norme che determinano il mancato rilascio o la revoca della patente di guida (sempre che non se ne attui la abrogazione, come indicato più oltre) o altre norme che ricollegano alla applicazione delle misure di sicurezza conseguenze limitative della possibilità di inserimento e di svolgimento di attività di lavoro da parte dell'interessato.
      Nell'articolato, all'articolo 97, si provvede attraverso l'introduzione di nuovi

 

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commi all'articolo 679 del codice di procedura penale. Negli stessi si introducono anche previsioni specifiche per la misura di sicurezza della espulsione dello straniero dal territorio dello Stato.

F. Effetti penali della condanna.

      Alle condanne si ricollega una serie di conseguenze aventi caratteristiche diverse, ma che, sovente, limitano le possibilità di inserimento lavorativo degli interessati.

1. Esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova o in liberazione condizionale.

      Si è già citato, parlando delle pene accessorie, l'articolo 20 del codice penale, che dispone: «Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna, quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa». Considerate pertanto, come la norma citata fa, le pene accessorie quali effetti penali della condanna, si sono già tratte le conseguenze sulle stesse.
      Si deve valutare ora la situazione per gli altri effetti penali.
      Per questi, si è già detto che, nei casi di esecuzione della pena conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale, gli effetti penali della condanna si estinguono. Se ne trova una applicazione, indubbiamente rilevante, nell'articolo 106 del codice penale, che dispone: «Agli effetti della recidiva e della dichiarazione di abitualità o di professionalità nel reato, si tien conto altresì delle condanne per le quali è intervenuta una causa di estinzione del reato o della pena. Tale disposizione non si applica quando la causa estingue anche gli effetti penali».
      E abbiamo visto che le due misure alternative alla detenzione citate (la liberazione condizionale, per vero, attraverso le modifiche apportate con la proposta di legge) estinguono, appunto, gli effetti penali: pertanto, quelli di cui all'articolo 106 non si produrranno per le pene che hanno fruito delle misure stesse.
      Si ritiene, pertanto, che si debba richiamare il nostro intervento, già compreso e chiarito in modo più esauriente con le modifiche proposte nelle parti precedenti, per l'affidamento in prova al servizio sociale, nel comma 13 dell'articolo 58 e, per la liberazione condizionale, nel comma 3 dell'articolo 73.

2. Esecuzione della pena conclusa in misure alternative diverse da quelle sub 1 o senza ammissione a misura alternativa.

      Quando la esecuzione della pena non si è svolta o si è conclusa in affidamento in prova al servizio sociale o in liberazione condizionale, non sembra si possano ipotizzare soluzioni particolari, in specie di carattere estintivo. Si ritiene che le soluzioni possibili non siano dissimili da quelle che si esaminano qui di seguito per gli effetti delle pronunce penali sulle normative non penali. Si rinvia pertanto alle considerazioni e conclusioni sviluppate nei paragrafi successivi.

G. Gli effetti extrapenali.

      Occorre una messa a punto sul problema degli effetti sulle normative non penali discendenti, come conseguenza da condanne penali o, in genere, da provvedimenti penali, come la dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato o la applicazione di misure di sicurezza.
      Un primo rilievo è questo: non si possono avere soluzioni diverse a seconda del diverso regime della esecuzione penale; quali che siano le misure alternative fruite o se le stesse non siano state fruite affatto, gli effetti e i problemi relativi sono identici.
      Per tali effetti, il problema non è tanto quello di individuarli nella varia legislazione in materia, in cui sono dispersi, ma è, invece, quello di coglierne le conseguenze negative sull'inserimento sociale e,

 

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in particolare, su quello lavorativo delle persone e di individuare uno strumento che possa impedire tali conseguenze.
      A puro titolo esemplificativo, certamente sommario e non esaustivo, possiamo indicare una breve casistica di tali effetti extrapenali:

          l'ostatività di condanne o di pregresse dichiarazioni di abitualità o di applicazioni di misure di sicurezza, alla iscrizione al registro degli esercenti commerciali (REC): sono evidenti le limitazioni all'inserimento in una attività di lavoro;

          l'ostatività delle stesse pronunce penali alla iscrizione o reiscrizione ad albi professionali relativi alle più diverse attività;

          l'ostatività delle stesse pronunce penali ad attività legate al rilascio di una licenza di polizia;

          uno dei casi più rilevanti, per la incidenza pratica che presenta, è quello che riguarda la patente di guida per auto o motoveicoli: il rilascio o il mantenimento di questa è legato alla presenza di «requisiti morali di idoneità» (vedi articolo 120 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante il Nuovo codice della strada), che si ritengono assenti quando ricorrono precedenti di una certa entità, dichiarazioni di abitualità, applicazione di una misura di sicurezza.

      Possiamo individuare due tipi di interventi.
      In primo luogo, occorrerebbe effettuare una ricognizione delle singole disposizioni a contenuto ostativo, alcune delle quali possono essere ragionevoli, mentre altre non lo sono affatto. In sostanza, nella sede di tale ricognizione, una parte di tali disposizioni dovrebbe venire meno, perché ormai ingiustificata. In presenza di una pena che ha mutato natura e che deve essere volta alla riabilitazione e al reinserimento sociale del condannato, la presenza di norme che ostacolano il suo inserimento sociale impone una ricognizione e verifica della loro compatibilità con le nuove finalità della pena. Una ricognizione quale quella indicata non è però possibile in questa sede, anche se possiamo, quantomeno, soffermarci su un caso, che affrontiamo qui di seguito.
      Infatti, fra le normative che potrebbero essere ragionevolmente soppresse, se ne può, senz'altro, individuare una, cui si è già accennato, ed è quella relativa «ai requisiti morali per ottenere il rilascio della patente di guida», richiesti dall'articolo 120 del citato Nuovo codice della strada. Parlare di requisiti «morali» sembra decisamente improprio. Sia perché, per il rilascio e la conservazione della patente, servono requisiti fisici e psichici, sulla cui verifica tutti gli accertamenti sono legittimi. Parlare di requisiti morali, definiti, d'altronde, con esclusivo riferimento alla storia giudiziaria di una persona, sembra davvero fuori luogo.
      Il discorso, comunque, è semplice: la patente di autorizzazione alla guida di auto e di motoveicoli è uno strumento usuale nella vita delle persone; pertanto, escludere da questo strumento è una forma di incapacitazione della persona, che ha riflesso sulle sue normali possibilità di vita, sul suo inserimento sociale e particolarmente su quello lavorativo. La patente di guida delle auto e dei motoveicoli è materia del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, e aprirla anche a valutazioni del Ministero dell'interno, come accade con la normativa in questione, è un modo improprio di affrontare la questione, aprendo altresì ad una possibile gestione di polizia (con gli abusi abbastanza inevitabili) le valutazioni e i pareri da cui può dipendere il rilascio della patente.
      Questa normativa deve, pertanto, essere soppressa. È quanto viene fatto all'articolo 98 della presente proposta di legge.
      Possiamo, però, prevedere anche un intervento più modesto della soppressione delle normative in questione.
      È quanto viene fatto all'articolo 99 della proposta di legge.
      Si può introdurre nell'ordinamento penitenziario una disposizione che rimetta a

 

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un organo giudiziario, che può essere sempre quello che segue la concreta esecuzione della pena, cioè il magistrato di sorveglianza, la concessione di un nulla osta affinché nei singoli casi, a seguito di idonea verifica, possa non tenersi conto della normativa ostativa. Questo non vincola l'organo competente ad adottare una data decisione, ma consente allo stesso di non tenere conto della preclusione stabilita dalla legge. Ed è logico che il nulla osta al superamento della preclusione venga espresso dal magistrato di sorveglianza che, essendo l'organo che segue la esecuzione della pena, può esprimere una valutazione adeguata al riguardo. Si prospetta questa soluzione in quanto la stessa ha avuto applicazioni pratiche a seguito di intese fra le prefetture-uffici territoriali del Governo e la magistratura di sorveglianza in materia di rilascio delle patenti di guida.
      Anche qui si può distinguere, in linea di fatto, fra i casi in cui la pena è stata eseguita o conclusa in misura alternativa, nei quali il rilascio del nulla osta di cui si è parlato può essere più scontato, e i casi in cui la pena è stata eseguita senza momenti alternativi alla detenzione. In tutti i casi, comunque, il rilascio del nulla osta da parte del magistrato di sorveglianza va rimesso ad una sua verifica, tramite accertamenti del servizio sociale e, ove occorra, anche di polizia, che verifichino la reale utilità dell'intervento nel processo di inserimento sociale e lavorativo del soggetto.

H. Disposizioni di agevolazione all'inserimento sociale e lavorativo.

      Per vicinanza di tema, è utile inserire, qui, anche alcune riflessioni ed interventi per introdurre disposizioni positive di agevolazione all'inserimento sociale e lavorativo. Il tema è strettamente legato, per la sua finalizzazione, a quello esaminato finora.
      Si mettono in evidenza le seguenti questioni.
      La prima riguarda gli stranieri sottoposti ad esecuzione penale. Se ne occupa l'articolo 100 di questa proposta di legge.
      Deve essere chiarito, al di là dei dubbi ingiustificati, ma largamente esistenti, che, quando la persona condannata deve stare nello Stato perché sottoposta o da sottoporre ad esecuzione penale, compresa quella della pena pecuniaria, non è necessario alcun permesso di soggiorno per il suo inserimento lavorativo o abitativo. La corretta esecuzione della pena, anche con la fruizione dei benefìci penitenziari, dovrebbe poi influire sulla sua espulsione o meno dallo Stato, all'esito della esecuzione stessa.
      In proposito, si ricordano anche le previsioni nell'ambito delle modifiche dell'articolo 679 del codice di procedura penale, operate all'articolo 97 di questa proposta di legge. In questa norma, in particolare, si dispone che la decisione sulla espulsione in sede giudiziale deve prevalere sulla espulsione adottata in sede amministrativa, salvo che quest'ultima non abbia giustificazioni immediate specifiche attinenti all'ordine pubblico.
      Altra questione. Può considerarsi legittima la richiesta fatta a coloro che vengono assunti in un'impresa privata di produrre il certificato penale? Non è in giuoco anche qui il diritto alla riservatezza? È vero che tale documentazione è richiesta per l'assunzione in un ente pubblico, ma, in tale caso, vi sono disposizioni di legge che giustificano la richiesta. Là dove tali disposizioni mancano, quali soluzioni si devono dare al problema ora posto?
      La risposta a tali domande sta nelle conseguenze che ha poi la produzione del certificato penale. Si determina una situazione di discriminazione, che rende difficile il recupero sociale di una persona pure dopo che la stessa ha regolarmente espiato la propria pena.
      E allora non c'è che da vietare tale prassi: lo fa l'articolo 101 della proposta di legge.

 

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Sezione III. Relazione sul capo III del titolo II sulla magistratura di sorveglianza.

A. La collocazione sistematica.

      Si è già accennato che, nel quadro della generale revisione della distribuzione della normativa contenuta nella legge n. 354 del 1975, si è ritenuto di togliere le disposizioni relative alla magistratura di sorveglianza dal titolo II, dedicato alla «organizzazione penitenziaria». La collocazione che si propone è quella del titolo dedicato alle misure giurisdizionali in materia penitenziaria, nel quale vanno a collocarsi correttamente le norme sulla magistratura di sorveglianza, che, con il capo III, concludono il titolo stesso.
      D'altronde, pur assumendo una propria autonomia con il titolo II, la parte sulle misure giurisdizionali resta legata a quella contenuta nel titolo I, dedicata alle regole e alle misure più strettamente penitenziarie. È vero che qui sono presenti anche importanti interventi del magistrato di sorveglianza, come quello sui permessi (articoli 39 e seguenti della proposta di legge) e quello sui reclami (articolo 46 della proposta di legge), il secondo introdotto a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 1999. Ma tali norme sembrano più interne alla fase penitenziaria e giustificano la collocazione praticata, anche se presentano momenti non solo giudiziari, ma anche propriamente giurisdizionali.
      Questa distinzione fra fase dell'intervento penitenziario e fase giurisdizionale non deve, comunque, fare dimenticare il filo che lega entrambe ed è la proposta, la costruzione e il sostegno del percorso di rieducazione-riabilitazione-risocializzazione del condannato attraverso il tempo della esecuzione della pena. La fase giurisdizionale, d'altronde, introduce alle misure alternative alla detenzione e, quindi, ancora ad un periodo di esecuzione della pena, anche se in regime diverso da quello detentivo. Si crea, così, accanto all'area della esecuzione penale interna al carcere, l'area della esecuzione penale esterna, che ha profondamente modificato la struttura della esecuzione penale nel suo complesso.
      Si sottolinea, quindi, con la nuova collocazione normativa, da un lato, una necessaria distinzione sistematica ed organizzativa, pur confermando, dall'altro lato, lo stretto rapporto che lega il quadro penitenziario nella sua totalità.

B. La specificità della magistratura di sorveglianza.

      È abbastanza ovvio partire dalla considerazione che l'oggetto del processo penale di cognizione e quello dell'intervento giurisdizionale di sorveglianza sono molto diversi. Il primo riguarda i fatti e il loro svolgimento, il secondo la persona condannata, attraverso lo sviluppo del suo percorso carcerario, prima, e della sua vicenda di rientro sociale poi: e ciò vale anche se il percorso carcerario non c'è stato o non è attuale, ma si tratta di identificare il percorso sociale, come in occasione di istanze di misure alternative della libertà. Sono oggetti diversi, che richiedono impegni di ricerca diversi e strumenti interpretativi diversi per lo sviluppo di questa ricerca.
      All'interno della identificazione di ricerca e di ruolo e complessivamente di funzione della magistratura di sorveglianza c'è anche l'affiancarsi all'esame sul percorso carcerario e sociale della persona, del richiamo alla pericolosità della stessa. Può confondersi la chiarezza della funzione. In materia di permessi, l'elemento della pericolosità è introdotto e non manca un analogo richiamo in materia di misure alternative quando entrano in giuoco i delitti previsti dall'articolo 4-bis del testo vigente e 79 del presente articolato. Vi è, poi, è vero, una materia, quella delle misure di sicurezza, in cui il criterio di valutazione è proprio quello della pericolosità sociale.
      Bisogna, però, chiarire il rapporto fra il discorso sulla pericolosità della persona e quello sul suo percorso penitenziario e sociale. Se i due piani si confondono, la

 

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dinamica della ricerca e della funzione penitenziaria si blocca. Il discorso sulla pericolosità rischia di diventare pregiudizio e discriminazione, se non viene tenuto come uno degli elementi della presa di contatto con il caso da esaminare. È chiaro che si devono conoscere il reato commesso, la storia giudiziaria della persona, accanto e insieme alla sua storia esistenziale, alla sua situazione sociale e familiare. Ma, dopo questa presa di contatto, il discorso principale è quello della sua vicenda e dello sviluppo del suo percorso penitenziario. I richiami normativi sulla pericolosità, d'altronde, richiedono un dato necessario della pericolosità che conta: la attualità della stessa. Giudizio tutt'altro che semplice, che rischia in molti casi di ricadere nel pregiudizio, quando la valutazione della gravità dei reati commessi produce la convinzione che la pericolosità espressa in passato non possa essersi cancellata. Andrebbe aggiunto che, in materia di misure di sicurezza, il giudizio sulla pericolosità sociale, sulla necessità della cui attualità la legge è molto esplicita, deve essere sempre inquadrato nella finalizzazione alla riabilitazione sociale delle stesse misure di sicurezza.
      Si può dire allora che il problema della pericolosità e del suo rapporto con l'oggetto proprio dell'intervento della magistratura di sorveglianza pone un ulteriore elemento di complessità della funzione, ma non può assolutamente bloccarla. È e deve restare uno strumento significativo, che, però, deve aiutare il concreto esprimersi della funzione e non impedirla.
      Questo non fa che rafforzare la considerazione che la specificità della attività richieda nei magistrati assegnati una puntuale consapevolezza dei fini e la disponibilità degli strumenti conoscitivi necessari per realizzarli. La specificità della funzione chiama, quindi, la specificità di risorse e di preparazione necessarie per svolgerla.
      È quanto si indica al comma 2 dell'articolo 102 di questo capo III, che interviene su varie parti dell'articolo 68 del testo vigente. Con la modifica si sottolinea la esigenza di una particolare preparazione per svolgere la funzione di magistrato di sorveglianza, particolare preparazione che fa riferimento ad una formazione teorica e ad una formazione pratica. La magistratura di sorveglianza agisce ormai da quasi trenta anni, durante i quali ha lamentato sovente uno scarso apprezzamento del proprio lavoro, una situazione di dequalificazione. In qualche misura ciò è accaduto, ma sostanzialmente perché non si è preso atto della specificità del lavoro e non si è fatto corrispondere alla stessa la esigenza della specificità delle risorse professionali. Si noti che la situazione era aggravata dalla incompletezza e dalla approssimazione del lavoro più strettamente penitenziario, determinate dalla insufficienza degli operatori della osservazione e del trattamento e dalla inadeguatezza delle attività relative in carcere e nel settore penitenziario in genere. Il materiale offerto all'intervento della magistratura di sorveglianza era di qualità insufficiente e non stimolava una attività qualificata della stessa. Ma questa serie di inadeguatezze non è fatale e non si è costretti a subirla. Al contrario, la strada da battere è quella di superare le inadeguatezze, di portare il livello della attività penitenziaria a quello che la legge richiede e di chiedere analogamente qualità alla magistratura di sorveglianza, ponendo corrispondentemente le condizioni perché la risposta sia all'altezza della importanza della domanda.
      Si è posto il problema se queste formazione, preparazione e azione specifiche della magistratura di sorveglianza possano turbare la oggettività del suo operare, compromettano la neutralità che si richiede ad un organo giudiziario, la terzietà che dovrebbe essere propria dello stesso. Ma su queste perplessità è necessario fare chiarezza. Si manifesta qui la profonda differenza, ricordata all'inizio, fra la posizione del giudice della cognizione e quella del giudice di sorveglianza, in ragione della diversità di funzione e di ruolo. Per il primo ogni occasione di preventiva conoscenza del caso deve essere esclusa. Per il secondo, la struttura organizzativa del suo lavoro e degli uffici in cui opera è
 

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in funzione del formarsi di tale conoscenza e della utilizzazione della stessa nel corso degli interventi che gli vengono successivamente richiesti. Così che non solo le decisioni monocratiche dovranno essere adottate dal giudice che ha seguito la detenzione delle persone interessate (e ciò avverrà attraverso la funzione di sorveglianza generica sugli istituti e attraverso gli interventi specifici sulle persone con i permessi e quant'altro), ma le decisioni collegiali dovranno vedere la partecipazione di quello stesso giudice, che potrà portare nel collegio il valore, non l'inconveniente, della sua conoscenza di persone e situazioni: articolo 70, comma 6, della legge n. 354 del 1975, nel testo vigente e comma 2 dell'articolo 105 di questa proposta di legge.
      Il fatto è che la magistratura di sorveglianza, indubbiamente con la indipendenza e oggettività della sua funzione giurisdizionale (anche se non sempre, ma quasi sempre giurisdizionalizzata), è dentro la dinamica del processo riabilitativo che anima la esecuzione penale e deve servire tale dinamica. Se si teme che questo possa «compromettere» il giudice, turbarne la terzietà, si deve essere consapevoli che questo equivale puramente e semplicemente al rifiuto della funzione. La tentazione c'è e si esprime nella richiesta di anticipare la determinazione delle modalità esecutive al momento stesso della sentenza. Ma ciò, come si è detto ora, equivale a negare la flessibilità della esecuzione della pena nella fase della esecuzione, che è, invece, la chiara indicazione della giurisprudenza costituzionale.
      Questo timore della flessibilità della esecuzione della pena (che ha anche animato, ad esempio, i due progetti noti, Pagliaro e Grosso, di legge delega per un nuovo codice penale, non arrivati, comunque, alla sede legislativa) deriva dalla convinzione che la flessibilità produca una eccessiva discrezionalità e una incontrollabile incertezza della pena. Di qui la convinzione che sia preferibile il recupero alla fase di cognizione e alla sentenza di condanna della determinazione delle modalità di esecuzione della pena. Ma, a prescindere dal fatto che, in tale modo, si passa sopra alla giurisprudenza costituzionale sulla flessibilità, si trascura che la anticipazione alla sentenza della determinazione delle modalità esecutive sposta a tale fase il lamentato inconveniente della discrezionalità e, inoltre, fa decidere modalità esecutive in ordine a persone e a situazioni sostanzialmente sconosciute: così che, dove si è provato a progettare concretamente questo, si è previsto un intervento successivo della magistratura di sorveglianza, fatta sopravvivere soltanto per la determinazione in concreto di quelle modalità esecutive determinate (al buio) in sentenza.
      Si può concludere. Il riconoscimento della specificità delle funzioni della magistratura di sorveglianza e la qualificazione corrispondente della stessa sono la via da battere per ridurre la discrezionalità e le ricadute sulla incertezza della pena, che possono avere accompagnato le decisioni dei giudici di sorveglianza. E sono inoltre il modo di dare solidità applicativa alla giurisprudenza costituzionale sulla flessibilità.

C. Esigenze organizzative dei tribunali e degli uffici di sorveglianza: le risorse necessarie.

1. La necessità della tempestività.

      La tempestività degli accertamenti e delle decisioni è una necessità di qualsiasi attività giudiziaria, necessità che, purtroppo, non è soddisfatta dalla nostra organizzazione giudiziaria.
      Se c'è, però, una materia nella quale tale necessità è ineludibile, questa è quella della sorveglianza.
      Ciò è ben comprensibile quando le procedure hanno ad oggetto una persona detenuta. Sia che si debba decidere per tale persona, a seguito di una istanza di permesso o di misura alternativa, sia che si debba decidere contro la stessa, per la eventuale revoca degli stessi benefìci, una decisione tardiva, e spesso pesantemente

 

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tardiva, equivale a una non decisione. Perché, al limite, può intervenire quando la pena è conclusa o, comunque, quando le situazioni si sono modificate e mutate: e, anche se così non fosse, si è inflitto un ulteriore periodo di detenzione ordinaria privo di una ragione accettabile.
      Come è noto, però, molte procedure, in specie dei tribunali di sorveglianza, riguardano persone libere. Per le misure alternative, oltre i due terzi delle procedure, a seguito dell'operare della legge Simeone-Fassone-Saraceni, nascono da istanze di persone in stato di libertà. Ebbene, non è che, in questi casi, il ritardo delle decisioni sia meno grave, meno inaccettabile.
      Intanto, precisiamone la entità. Il ritardo di queste procedure non si esprime in mesi, ma in anni. Le procedure in attesa di fissazione di udienza, stando alle notizie più recenti, sono oltre 80.000, con una possibile direttrice di crescita, se mancheranno interventi adeguati. Un simile arretrato equivale, approssimativamente, ad almeno due anni di lavoro del sistema complessivo dei tribunali di sorveglianza. Definita la dimensione quantitativa del fenomeno, se ne possono sottolineare tre aspetti di estrema gravità.
      Il primo aspetto riguarda il blocco nei fatti della attività del sistema dei tribunali di sorveglianza, che, con il proprio lavoro attuale, incide soltanto sulla superficie della massa delle procedure, che, nel frattempo, diviene sempre più grande.
      Il secondo aspetto riguarda il sistema della esecuzione penale. La situazione descritta crea una disfunzione al limite del collasso. È inammissibile che vi siano esecuzioni pendenti da due anni per pene che, sovente, non sono affatto irrisorie: sappiamo, addirittura, che possono essere pene (residue) di tre o quattro anni (nel secondo caso, se si tratta di tossicodipendenti), qualcosa che rappresenta una percentuale importante della esecuzione penale. La disfunzione, o collasso che sia, riguarda, quindi, una parte estremamente significativa di tutta la esecuzione penale.
      Il terzo aspetto riguarda gli stessi interessati. Se il loro interesse è di non eseguire la pena o di rimandarne di molto tempo la esecuzione, saranno soddisfatti: si tratta proprio di coloro che hanno meno voglia di cogliere la esecuzione della pena come occasione di riabilitazione. Ma se il loro interesse è di utilizzare una situazione di reinserimento attuato o attuabile, di cogliere una occasione di riabilitazione che loro si offre (pensiamo alla attuazione di un programma terapeutico avviato o in fase di avviamento), tutto ciò verrà compromesso e frustrato.
      Conclusione: il problema della tempestività degli interventi della magistratura di sorveglianza è essenziale e ineludibile, se non lo si affronta e risolve, collassa il sistema della esecuzione penale.

2. Le risorse necessarie per il recupero di funzionalità del sistema della magistratura di sorveglianza.

      Il primo testo della legge n. 354 del 1975 aveva una tabella allegata che definiva le sedi giudiziarie della magistratura di sorveglianza. Quella tabella ha perso di attualità nel senso che era basata sulla distribuzione a quel tempo degli istituti di prevenzione e pena sul territorio. Oggi, vi sono state modifiche alla distribuzione di allora e soprattutto il lavoro della magistratura di sorveglianza è stato fortemente accresciuto dalle procedure concernenti persone libere. Per questa parte della attività è rilevante la entità della popolazione di un dato territorio e, quindi, un criterio non tenuto in alcun modo presente in passato.
      Il problema, però, non è tanto quello della distribuzione delle sedi sul territorio quanto quello della distribuzione delle risorse di organico del personale assegnato alle stesse: magistrati e collaboratori.
      La legge non può scendere alla definizione degli organici, che, infatti, nell'articolo 102, comma 5, della proposta di legge è rimesso alle sedi competenti, ma indica, al comma 6, i criteri cui ci si deve riportare. Questi criteri riguardano il numero dei detenuti e degli internati, quello delle persone sottoposte a misure alternative alla detenzione, nonché quello delle

 

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misure di sicurezza e delle sanzioni sostitutive seguite dai singoli uffici.
      Sempre al comma 5 dell'articolo 102, si dispone che si deve partire da una nuova e sollecita definizione degli organici, sia dei magistrati che del personale, e che occorrerà periodicamente riesaminare ed aggiornare gli stessi.
      Al comma 8 dello stesso articolo 102 ci si sofferma su un punto essenziale per una corretta determinazione degli organici. Il problema essenziale di questi ha sempre riguardato e riguarda soprattutto le sedi capoluogo del distretto in cui coesistono tribunale e ufficio di sorveglianza. La recente legge 19 dicembre 2002, n. 277, ha spostato la competenza in materia di liberazione anticipata, almeno in prima battuta, al magistrato di sorveglianza, determinando un qualche sollievo nella gravosità del lavoro dei tribunali. Ma resta irrisolto un nodo di fondo. Gli uffici di sorveglianza capoluogo di distretto hanno un organico unico, cui si attinge per la organizzazione del tribunale e per quella dell'ufficio: e, generalmente, è il tribunale che assorbe la parte preponderante delle risorse. Ma la questione da cogliere è che il lavoro dell'ufficio del magistrato di sorveglianza del capoluogo del distretto è generalmente quello largamente più gravoso rispetto a quello di tutti gli uffici periferici. Questo accade nel numero prevalente delle sedi, particolarmente delle maggiori: in queste si concentrano, infatti, generalmente, gli istituti di pena più grandi e, quindi, un maggior numero di detenuti e, inoltre, un numero di misure alternative, di misure di sicurezza e di sanzioni sostitutive più elevato in ragione del maggior numero di abitanti. In linea di massima il complessivo lavoro degli uffici del magistrato di sorveglianza del capoluogo equivale alla somma del lavoro delle sedi periferiche, ma il personale utilizzato dall'ufficio capoluogo, dopo il necessario tributo di risorse per il lavoro del tribunale, è incomparabilmente inferiore alla somma del personale disponibile per gli uffici periferici. E si noti che il recente passaggio di competenza per la liberazione anticipata non ha fatto che riprodurre la distorsione, in quanto è stato inevitabilmente molto maggiore per l'ufficio capoluogo che per quelli periferici. Conclusione: si ribadisce la necessità, per gli uffici di sorveglianza capoluogo del distretto, di organici distinti del personale per il tribunale e di quello per l'ufficio del magistrato di sorveglianza (monocratico).

3. La organizzazione del lavoro giurisdizionale e non giurisdizionale.

      Una analisi del formarsi di pesanti arretrati nel sistema della magistratura di sorveglianza può portare a porre in evidenza la minore efficienza e la maggiore lentezza del lavoro di alcune sedi rispetto alle altre. Le ragioni possono essere diverse e, in particolare, è indubbio che maggiore è la dimensione della sede, maggiore diviene la difficoltà di gestire lo svolgimento del lavoro e di impedire il formarsi dell'arretrato, che ha, una volta formato, una propria, inesorabile dinamica di rallentamento e di riproduzione.
      All'intervento sulla massa dell'arretrato, particolarmente di quello riguardante le domande delle persone a esecuzione sospesa (ex lege Simeone-Fassone-Saraceni), sarà dedicato il paragrafo successivo. Qui ci si sofferma sui tempi e sulle modalità dello svolgimento del lavoro ordinario, che affluisce nel corso di un anno.
      Si parte da una affermazione ovvia e sostanzialmente lapalissiana: nell'anno va definito lo stesso numero di procedure che vengono registrate in entrata. Ma, dopo questo esordio, che potrebbe essere anche sottaciuto, ci si sofferma su alcune modalità essenziali della organizzazione del lavoro, tese a dettare i tempi dello stesso e la sua speditezza.
      Anche queste indicazioni possono sembrare ovvie, ma sono sovente trascurate e consentono l'innesco della dinamica di rallentamento del lavoro, che, in breve, determina il formarsi dell'arretrato. Richiamare, quindi, a queste modalità organizzative appare decisamente opportuno. Ecco, allora, i punti essenziali da tenere

 

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presenti, indicati ai commi 1, 2 e 3 dell'articolo 108.
      Primo punto. La registrazione tempestiva delle procedure è essenziale. Vi sono periodi critici nei quali può accadere che non ci si attenga a questa regola. Questo determina inevitabili complicanze nel lavoro (duplicazioni di istanze, difficoltà di unione di atti, eccetera) ed è molto difficile recuperare successivamente e aggiornare le registrazioni.
      Secondo punto. Per il lavoro giurisdizionale è essenziale una sollecita fissazione della udienza, che dà i tempi al lavoro preparatorio. Dà il tempo, in particolare, agli uffici ai quali vengono richieste informazioni, documentazioni e relazioni. Se le richieste sono senza indicazione della data di udienza, avranno tempi di risposta imprevedibili e sicuramente non brevi. Dopo l'invio delle richieste con la annotazione della data di udienza, occorreranno, comunque, sistematici solleciti poco prima della stessa data così da ottenere l'evasione delle richieste in via d'urgenza.
      Si noti che non è necessaria una fissazione estremamente veloce delle udienze, che difficilmente consentirebbe lo svolgimento e l'acquisizione dei dati informativi necessari (il termine di quarantacinque giorni dal ricevimento dell'istanza, previsto dall'articolo 656, comma 6, del codice di procedura penale, è poco realistico, particolarmente per le relazioni di osservazione e dei centri di servizio sociale per adulti). L'essenziale è indicare una data ragionevole e imporre e imporsi, con questa, i tempi per l'istruttoria e la decisione.
      Terzo punto. Bisogna prevedere una procedura urgente per i casi che lo richiedono e in tale caso si deve ipotizzare la disapplicazione dei termini dilatori dati dell'articolo 666, comma 3, del codice di procedura penale per la fissazione della udienza.
      Quarto punto. Sulla linea del terzo punto, si ritiene di dovere modificare l'articolo 69-bis, comma 2, del testo vigente, introdotto con la recente legge 19 dicembre 2002, n. 277. Questa modifica è effettuata all'articolo 104 del nuovo testo. La semplificazione della procedura dinanzi al magistrato di sorveglianza per le decisioni in materia di liberazione anticipata, disposta dal comma 1 del citato articolo 69-bis, è opportuna, ma va applicata fino in fondo: se il contraddittorio è eventuale, risulta del tutto superflua la richiesta del parere del pubblico ministero, richiesta obbligatoria, ma risposta del pubblico ministero facoltativa per lo stesso, che, d'altronde, alla pari dell'interessato, ha la possibilità di reclamo contro il provvedimento. Si noti, fra l'altro, che il parere preventivo del pubblico ministero comporta una movimentazione non indifferente di fascicoli in due momenti diversi: prima della decisione e dopo la stessa, duplicazione, se possibile, da evitare.
      La modifica della norma citata è operata con la abrogazione del comma 2 dell'articolo 69-bis. È opportuno prevedere, però, che il reclamo sospenda la esecuzione, salvo nei casi in cui la concessione della liberazione anticipata comporti la scarcerazione dell'interessato. Il tutto viene inserito, come già detto, nell'articolo 104 del nuovo testo.
      Quinto punto. Anche nelle procedure non giurisdizionalizzate devono valere le stesse regole circa la tempestività della registrazione delle istanze e della pronta attivazione degli accertamenti necessari: vedi il comma 4 dell'articolo 108 del nuovo testo.

4. La necessità di un intervento straordinario: la sezione stralcio.

      All'articolo 109 del nuovo testo si introduce un intervento straordinario nelle situazioni di grave arretrato in cui si trovano molti dei tribunali di sorveglianza. Come si è fatto per altri arretrati «storici», si deve pensare ad una sezione stralcio. In tale modo, grazie agli interventi sulle risorse di organico e sulle regole operative di procedura, si deve ottenere la efficienza e la tempestività per il nuovo lavoro che si forma. Ma il recupero di efficienza e di tempestività deve essere

 

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liberato dal peso dell'arretrato, ormai determinatosi, che bloccherebbe inesorabilmente quel recupero.
      La sezione stralcio rappresenta un intervento straordinario e può ragionevolmente giovarsi di disposizioni straordinarie. Nella specie, si prevede una composizione particolare del tribunale di sorveglianza, che avrà un solo magistrato di sorveglianza, che ha funzione di presidente, a cui si affiancano non due, come di regola, ma tre esperti.
      Per gli aspetti organizzativi delle sezioni stralcio, si rinvia sempre all'articolo 109 del nuovo testo.

Parte terza. Relazione sul titolo III sull'organizzazione penitenziaria.

Sezione I. Gli istituti penitenziari: capi I, II e III del titolo III.

      Si deve provvedere ad una nuova articolazione della organizzazione penitenziaria, sia sul piano degli istituti, sia su quello del personale che vi è addetto. Con disposizioni del titolo III si provvede anche all'aggiornamento della normativa in relazione a nuovi aspetti organizzativi realizzati nel frattempo; ma la finalità principale è quella di una reale funzionalità del sistema. L'esperienza degli anni trascorsi dalla entrata in vigore della legge n. 354 del 1975 e dei punti di maggiore debolezza del sistema complessivo ha consigliato le modifiche che si propongono nei capi che seguono di questo titolo.
      Nel titolo I e nel titolo II è stato delineato un sistema di diritti dei detenuti e degli internati e un sistema di interventi riabilitativi nel corso della esecuzione della pena. Affinché tali sistemi acquisiscano la necessaria concretezza occorre che la organizzazione penitenziaria, sia con riferimento agli istituti che al personale operante negli stessi e nell'area esterna delle misure alternative, abbia la consistenza qualitativa e quantitativa occorrente perché i diritti siano riconosciuti e gli interventi riabilitativi attuati. Di qui il nuovo testo normativo che si propone nei vari capi di questo titolo.
      Si deve prendere atto che la evoluzione della situazione degli istituti penitenziari, pur con tutti i suoi limiti, ha determinato una articolazione della loro organizzazione, che non è adeguatamente rappresentata dal testo normativo vigente: dall'articolo 59 all'articolo 67.
      Da un lato, si deve rilevare che istituti, come i centri di osservazione, hanno perso una propria giustificazione, che era, invece, presente all'epoca in cui la legge fu emanata (esisteva, in particolare, il centro di osservazione di Rebibbia, unica sede in cui una attività di osservazione era organizzata e svolta). Attualmente, non esistono più centri di osservazione e tale attività viene svolta presso i singoli istituti da operatori di diverse professionalità, che costituiscono, appunto, il gruppo o l'equìpe di osservazione. Va aggiunto che è essenziale che l'attività di osservazione sia compiuta da quegli operatori che sono a diretto contatto con condannati ed internati. L'articolo 63 può, quindi, essere abrogato.
      Il problema, invece, di cui all'articolo 64 del testo vigente, sulla differenziazione degli istituti, si è profondamente articolato nel corso degli anni, fino a meritare di essere preso in considerazione in capi diversi da quello sugli istituti in generale. Più precisamente: in un capo II, che raccolga e riordini i vari aspetti trattati nelle fonti del dipartimento della amministrazione penitenziaria sui vari circuiti penitenziari; e, poi, in un capo III, sui regimi penitenziari speciali, che riesamini e razionalizzi le disposizioni introdotte successivamente nella legge n. 354 del 1975: articoli 14-bis, 14-ter e 14-quater e l'articolo 41-bis, commi 2 e successivi, norme tutte del testo vigente. La collocazione attuale della normativa citata per ultima è stata sostanzialmente occasionale e quella che qui si propone sembra preferibile da un punto di vista sistematico.

A. Il capo I del titolo III.

      Il capo I di questo titolo deve, quindi, essere dedicato agli istituti penitenziari

 

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con riferimento alla loro denominazione e alla loro funzione.
      Il vigente articolo 59 può essere conservato, salva la soppressione dei centri di osservazione di cui al numero 4), come stabilito dal comma 2 dell'articolo 110 della proposta di legge.
      I vigenti articoli 60 e 61 vanno riscritti con riferimento alle case mandamentali e alle collegate case di arresto.
      Con riferimento all'articolo 60 del testo vigente, si può prendere atto che nella realtà penitenziaria attuale non esistono più le case di arresto e ciò, d'altronde, consegue anche alla soppressione dell'ufficio giudiziario del pretore, a disposizione del quale erano poste. Pertanto, gli istituti per la custodia cautelare (termine che sostituisce quello di custodia preventiva), si riducono alle sole case circondariali.
      Anche le case mandamentali, menzionate sia nell'articolo 60 sia nel successivo, sono state sottoposte ad interventi normativi, che le hanno iscritte nel circuito delle case circondariali, al cui personale è affidata la gestione delle strutture di quelle case mandamentali che erano rimaste funzionanti. In ragione di ciò, sempre con riferimento al testo vigente, non si può più parlare di case mandamentali.
      Il contenuto degli articoli 60 e 61 vigenti viene pertanto riscritto negli articoli 111 e 112 della proposta di legge.
      La sostanziale soppressione delle case mandamentali si è prodotta per il progressivo abbandono dell'uso delle stesse, nonostante, in tempi di sempre più grave sovraffollamento degli istituti maggiori, tali strutture potessero rappresentare una risorsa da utilizzare. Ripercorrere le ragioni di quell'abbandono è qui del tutto superfluo. Si è ritenuto, però, che, in presenza di una così estesa area della detenzione sociale e nel riconoscimento della esigenza di cercare risposte sociali per la stessa, il ripristino su altre basi di una presenza degli enti pubblici territoriali nella gestione della esecuzione penale fosse una carta importante da giocare. Si è, però, pensato che questo ruolo non dovesse essere istituzionalizzato ed obbligato, ma fosse rimesso alla iniziativa degli stessi enti territoriali: la regione nella veste di proponente e di programmatrice e il comune in quella di incaricato della gestione di istituti, che sono stati denominati case territoriali di reinserimento sociale. L'articolo 113 della proposta di legge disegna queste strutture e lo spazio, rispetto alle stesse, della regione e del comune, accanto ovviamente alla amministrazione penitenziaria. Si vedrà, poi, che questi istituti potranno rappresentare lo strumento più idoneo per l'attuazione di quei progetti collettivi su cui si soffermano i capi II e III del titolo IV, progetti che dovrebbero rappresentare la risposta alla detenzione sociale e la concreta possibilità di un suo contenimento.
      Il vigente articolo 62 pone problemi in merito al mantenimento o meno delle misure di sicurezza detentive, diverse dall'ospedale psichiatrico giudiziario, che verrebbero meno secondo un altro disegno di legge compreso nella attuale revisione complessiva della normativa penitenziaria, disegno di legge nel quale l'ospedale psichiatrico giudiziario assume, comunque, una diversa denominazione. Non sembra, però, si possa considerare già operativo quel progetto o anticipare qui la soppressione delle misure di sicurezza detentive, previste dall'articolo 62, che non viene quindi emendato. Tale articolo vigente diventa l'articolo 114 della proposta di legge.
      I vigenti articoli 64 e 65, debitamente integrati e riorganizzati, vanno a costituire il capo II di questo titolo. Ne parleremo, pertanto, qui di seguito.
      L'articolo 66 può essere integrato con la previsione di un'autonomia progettuale e finanziaria sulla gestione complessiva del sistema edilizio degli istituti. Vi si provvede con la aggiunta, nell'articolo 115 del nuovo testo, di due ulteriori commi al comma unico del testo vigente. La conseguente esigenza di una tenuta di bilancio che assicuri la trasparenza della attività svolta consiglia di prevedere, da parte di una apposita organizzazione professionale esterna, la certificazione della «correttezza delle procedure amministrative e l'adeguatezza
 

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nel merito delle risorse economiche utilizzate».
      Il vigente articolo 67 richiede una aggiornata revisione formale e sostanziale, che viene operata all'articolo 116 della proposta di legge.
      Per la revisione formale: alla lettera c) del comma 2 dell'articolo 116 si dà atto della cessazione dell'ufficio giudiziario del pretore; così pure, alla lettera f) del medesimo comma 2 si dà atto della cessazione dell'ufficio del medico provinciale. Resta, invece, l'ispettore centrale dei cappellani del culto cattolico.
      Oltre alle indicate revisioni formali, si operano anche integrazioni per alcune figure che rappresentano presenze significative in carcere: da figure cittadine, come il presidente della provincia e coloro che lo rappresentano, come il sindaco e coloro che lo rappresentano, come i garanti dei diritti dei detenuti e internati, nominati dalla regione o dalla provincia o dal comune, e, inoltre, come il presidente del quartiere e il responsabile dell'azienda sanitaria locale nel cui territorio è compreso il carcere; a figure di istituzioni sopranazionali, come i parlamentari europei, i rappresentanti dell'Unione europea con specifiche competenze in materia penitenziaria, nonché i rappresentanti del Consiglio d'Europa e dei suoi organi.
      Si opera infine una puntualizzazione. Per le figure indicate alle lettere g) e h) del primo comma del vigente articolo 67, è comunque mutata la denominazione: si parla ora, per la lettera g) del testo vigente, del capo del dipartimento della amministrazione penitenziaria e, per la lettera h) del testo vigente, del provveditore regionale della amministrazione penitenziaria. Ma, a prescindere da questa revisione formale, si deve rilevare che, per gli stessi è mal posto il problema della autorizzazione o meno alle visite, in quanto le stesse rientrano necessariamente fra le loro funzioni. La precedente previsione nel testo vigente consiglia di rendere esplicito quanto ora detto nel comma 1 dell'articolo 116 della presente proposta di legge.

B. Il capo II del titolo III.

      Il capo II è di nuova istituzione. Interviene a fondo sul tema trattato nel vigente articolo 64, entro il quale è affrontato anche l'altro problema, trattato dall'articolo 65.
      All'articolo 117 della proposta di legge si distinguono i criteri di differenziazione e di separazione generali e specifici dei detenuti e degli internati: quelli generali attinenti al livello della sicurezza, cui fa riferimento il sistema dei circuiti penitenziari, allo stato amministrativo (che trova, qui, una pur generica copertura legislativa); quelli specifici concernenti detenuti in situazioni particolari, sia persone con problemi personali fisici o psichici, sia persone che sono oggetto di rifiuto da parte della restante popolazione penitenziaria, a loro volta distinte con riferimento o al tipo di reato commesso o al comportamento tenuto nel corso dei processi sostenuti o della detenzione espiata.
      Per i criteri di differenziazione e di separazione generali, si richiamano gli stessi, distinguendo fra sorveglianza elevata, sorveglianza media e sorveglianza attenuata, descrivendone, poi, le applicazioni. A questo sono dedicati gli articoli 118, 119 e 120 del nuovo testo.
      Per i criteri di separazione specifici, si fa riferimento a due diverse situazioni. Una è quella delle cosiddette «sezioni protette». Si tratta di rendere esplicite e di regolare tali sezioni, che ospitano detenuti non accettati nell'ambito delle sezioni ordinarie e, quindi, a rischio di intimidazioni e violenze. A questo è dedicato l'articolo 121 del nuovo testo. Al comma 3 di tale articolo si sottolinea che la collocazione in tali sezioni non deve essere considerata definitiva, potendo maturare le condizioni per l'inserimento in una sezione ordinaria: sia per la evoluzione dei soggetti interessati, sia per le caratteristiche della sezione ordinaria, nella quale inserirli.

 

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      L'altra situazione è quella dei detenuti che presentano problemi personali fisici o psichici, già regolata dall'articolo 65 del testo vigente. La linea seguita da tale normativa trovava la risposta ordinaria in sezioni apposite, che presentavano, però, inconvenienti, limitando le relazioni degli interessati con i compagni e la partecipazione dei primi alle attività organizzate per i secondi. Si ritiene che l'associazione a sezioni separate delle persone con problemi fisici o psichici realizzi una istituzionalizzazione ulteriore all'interno della istituzionalizzazione carceraria e, per tale via, una minore efficacia della presa in carico e un rischio di cronicizzazione dei loro problemi. Si tenga conto che il nuovo regime e la migliore efficacia dell'intervento sanitario, previsti dagli articoli 13 e successivi di questa proposta di legge, dovrebbero essere sufficienti alla presa in carico dei soggetti con situazioni patologiche, senza la necessità di inserirli in sezioni speciali.
      Questo non esclude che, per le patologie fisiche, si devono cogliere i casi che presentano esigenze speciali, rappresentate dalla mancanza di autosufficienza e di autonomia di movimento. Per queste persone occorrono sovente attrezzatura e organizzazione particolari per la assistenza e lo spostamento degli interessati negli spazi e nei livelli dei padiglioni, che le sezioni ordinarie non assicurano. Tant'è che, nella pratica di questi anni, si è dovuto ricorrere a sezioni speciali, con il limite (che dovrebbe essere superato) di avere strutture sovente non all'altezza delle esigenze che devono essere soddisfatte. La soluzione di una sezione apposita per le persone prive di autonomia va quindi prevista e regolata, identificando anche il criterio per la assegnazione alla stessa. Lo si fa all'articolo 122 del nuovo testo.
      Quanto alle persone che presentano problemi psichici o di altro genere, determinanti, comunque, comportamenti tali da porre in essere situazioni di criticità all'interno degli istituti, non si deve cercare una risposta nella separazione di tali persone in sezioni distinte, ma nella cura, nella assistenza e negli interventi in genere più adeguati, attuati attraverso una effettiva presa in carico dei singoli casi. Di questo si occupa l'articolo 124 del nuovo testo.
      Si è ritenuto di regolare qui, all'articolo 123 del nuovo testo, anche le sezioni per i collaboratori della giustizia, dando alcune indicazioni operative, che non concretano un regime diverso da quello ordinario. Se si fosse scelta una soluzione di questo tipo, si sarebbe dovuto trattare questo tema nel capo III che riguarda i regimi speciali di detenzione, ma una tale scelta non è apparsa necessaria.
      Tutte le situazioni qui esaminate sono attuate nel rispetto della ordinaria normativa penitenziaria. Ciò che si opera, con questa parte della proposta di legge, è una separazione, destinata a non essere definitiva, fra gruppi di detenuti e internati che abbiano problemi specifici e richiedano, quindi, interventi specifici. Ma, nel rispetto del principio di fondo dell'eguaglianza, proprio dell'ordinamento penitenziario, il regime normativo deve essere comune a tutti. Differenze di regime penitenziario si possono avere soltanto in situazioni particolari, che deve essere la stessa legge ordinaria a regolare: nel rispetto, però, delle regole e dei diritti delle persone ristrette, indicati dalla Costituzione e dallo stesso ordinamento penitenziario, in particolare dal capo III.
      L'articolo 125 di questo capo è dedicato alle sperimentazioni. Si è voluta favorire la ricerca da parte degli istituti e degli operatori che vi lavorano su forme di intervento penitenziario più innovativo ed efficace, espressione e acquisizione della loro esperienza o di iniziative di altri Paesi, particolarmente di quelli dell'Unione europea. Le sperimentazioni possono essere attuate in tutti gli istituti. Particolarmente in quelli a custodia attenuata si possono prevedere livelli di autogestione e di apertura all'esterno verso le istituzioni sociali e la famiglia, con la quale possono essere anche previsti periodi di convivenza.
 

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C. Il capo III del titolo III.

      Questo capo concerne, appunto, i regimi speciali.
      La loro collocazione attuale non è ineccepibile da un punto di vista sistematico e sembra abbastanza occasionale.
      Gli articoli 14-bis, 14-ter e 14-quater vigenti sono stati introdotti dalla legge Gozzini, che, nei progetti iniziali, era partita da un'altra ipotesi di regime di massima sicurezza. Nell'originario progetto Gozzini, ricalcando il sistema di fatto allora operativo delle carceri di massima sicurezza, si prevedeva un sistema di istituti, per i quali la ammissione, la dimissione e la determinazione del regime avvenivano entro il quadro della legge, che prevedeva anche la possibilità di reclamo in sede giurisdizionale, dopo una iniziale assegnazione non soggetta a reclamo. Il sistema accolto nel testo definitivo della legge Gozzini proveniva, invece, da un altro progetto ed era impostato sulla definizione del regime di sorveglianza particolare, con un controllo giurisdizionale operativo fin dall'inizio della applicazione del regime, che era disposto nei confronti delle singole persone, con la possibilità che ciò avvenisse nello stesso istituto in cui la persona si trovava quando il regime speciale era applicato.
      Comunque, non sembra che la collocazione sia felice in quella parte della legge che sottolinea la individualizzazione del trattamento e la definizione del programma relativo ai singoli soggetti: una parte, cioè, in cui si definiscono gli aspetti delle regole di trattamento ordinarie e le modalità dell'operare delle stesse. Senz'altro è più pertinente la collocazione qui proposta.
      Ancora più occasionale è stata la collocazione dell'articolo 41-bis, commi 2 e successivi. Il testo vigente del comma 1 era frutto della legge Gozzini, che aveva riscritto il testo della norma precedente, che, utilizzata in modo abbastanza arbitrario e con la applicazione dell'articolo 90 (abrogato dalla legge Gozzini), aveva consentito di dare vita, dal 1977 in poi, alle carceri di massima sicurezza con un regime particolarmente restrittivo, introdotto con decreti ministeriali rinnovati periodicamente. Ritenuta, nella fase più critica della offensiva mafiosa, la necessità di reintrodurre un regime analogo a quello degli istituti di massima sicurezza (per cui il regime di sorveglianza particolare non appariva sufficiente), si tornò allo stesso percorso precedente e si fece ancora riferimento all'articolo 41-bis, integrandolo con una norma specifica utile allo scopo.
      Ma anche questa normativa, specie nel momento in cui è divenuta stabile e non più a termine, con la legge 23 dicembre 2002, n. 279, può trovare una collocazione più adeguata là dove si regola un regime penitenziario speciale, da attuare, in sostanza, in sezioni o istituti appositi. Può anche trovare una apposita denominazione, che può essere quella più ovvia, di regime di massima sicurezza.
      Nella nuova collocazione, si ritiene necessario introdurre modeste modifiche del regime di sorveglianza particolare e più impegnative modifiche del regime ex articolo 41-bis, commi 2 e seguenti.

1. Situazioni di emergenza, già previste dall'articolo 41-bis, comma 1.

      Resta adeguata la norma contenuta nel comma 1 dell'articolo 41-bis vigente. Non è necessaria alcuna modifica, ma la collocazione può essere comune a quella di cui agli altri due regimi speciali.
      Tale articolo può essere inserito nell'ambito del capo III, tra gli articoli dedicati alla sorveglianza particolare e quelli relativi alla massima sicurezza, regolando situazioni temporanee e di emergenza attraverso l'adozione di un regime differenziato. Diviene, pertanto, con lo stesso contenuto del suo precedente nel testo vigente, l'articolo 129 di questo capo.

2. Regime di sorveglianza particolare, già previsto dagli articoli 14-bis, 14-ter e 14-quater.

      La modifica che si opera per tale regime è quella che tende a interrompere

 

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una utilizzazione indebita dello stesso da parte della amministrazione penitenziaria. Tale regime fa riferimento a soggetti che, per effetto di una posizione di preminenza costruita in particolare su aggregazioni criminali, pongono in essere una posizione di forza verso le strutture penitenziarie e verso i compagni, giovandosi eventualmente anche del sostegno di altri detenuti, da loro condizionati. Il tipo del detenuto per cui l'articolo 14-bis è pensato è questo: un soggetto che agisce consapevolmente con finalità di destabilizzazione istituzionale.
      Senonchè, l'uso attuale più frequente da parte della amministrazione penitenziaria riguarda soggetti con difficoltà di convivenza con gli altri e con difficoltà di inserimento nelle strutture detentive, generalmente per problemi di natura psicologica, quando non decisamente psichiatrica. L'applicazione del regime di sorveglianza particolare a questi soggetti, realizzando nei fatti situazioni di isolamento e di restrizione, se non di esclusione, dagli spazi trattamentali, non migliora il rapporto con le strutture e gli operatori, ma lo rende ancora più conflittuale. Per tali soggetti si è pensato, invece, che l'intervento più opportuno sia quello di cui si è parlato in precedenza, inserendo nel nuovo capo II la previsione di particolari modalità di approccio, di intervento e di collocazione, non necessariamente permanente o di lungo periodo (vedi articolo 124 di tale capo).
      Nessuna altra modifica al testo vigente.

3. Regime di massima sicurezza, già previsto dall'articolo 41-bis, commi 2 e seguenti.

      Più importante l'intervento sul regime di cui all'articolo 41-bis, commi 2 e seguenti.
      Intanto, si distribuisce il testo normativo in tre articoli, 130, 131 e 132, analogamente a quanto viene fatto, già nel testo vigente, per la sorveglianza particolare: il primo descrive la motivazione del regime di massima sicurezza, le modalità di applicazione e definisce i limiti temporali della stessa. Il secondo articolo regola il reclamo contro l'applicazione del regime. Il terzo indica il possibile contenuto delle restrizioni attuate con tale regime rispetto a quello ordinario.

3A. Articolo 130 della proposta di legge.

      Nell'articolo 130 della proposta di legge si operano alcuni interventi modificativi sul testo vigente dell'articolo 41-bis, commi 2, 2-bis e 2-ter, e si opera, poi, un ulteriore intervento sulla temporaneità della applicazione del regime ai singoli.
      Il primo intervento, contenuto nel comma 1 (che modifica il comma 2 del testo vigente), sviluppa il tentativo di rendere meno generica la motivazione della normativa del regime speciale e, quindi, della sua applicazione. Tale motivazione si identifica con la necessità di impedire il mantenimento di collegamenti fra i detenuti, condannati per determinati delitti di criminalità organizzata, terroristica o eversiva, e le organizzazioni di appartenenza. Questa è la ragione giustificatrice e questa va sottolineata. È ovvio che essa pone esigenze di ordine e sicurezza, che rappresentano, però, strumenti per soddisfare quella ragione, sulla quale si deve esclusivamente basare l'impiego di quegli strumenti.
      La seconda modifica, contenuta nel comma 2 (che modifica il comma 2-bis del testo vigente), riguarda la durata della efficacia dei provvedimenti applicativi che, nella pratica ultradecennale trascorsa, raramente era sistematicamente annuale, più spesso semestrale. Portare tale durata a non meno di un anno e fino a due appare del tutto ingiustificato, specie nel momento in cui il regime legislativo provvisorio diviene definitivo. Si tratta di un regime derogatorio rispetto al regime normativo ordinario e proprio per questo la sua applicazione, che resta intervento eccezionale, deve mantenere il suo collegamento con l'attualità dell'accertamento.

 

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      La terza modifica, certamente la più rilevante in tale articolo, riguarda la esplicita previsione della temporaneità e quindi di termini massimi di durata nella applicazione del regime di massima sicurezza ai singoli interessati. Tale modifica, contenuta negli ultimi commi dell'articolo 130, nasce dalla esigenza di riconoscere che la sottoposizione al regime in questione non può essere definitiva, quantomeno in linea di fatto, ma deve essere limitata nel tempo, sia pure in un tempo non breve, e accompagnata da progressiva riduzione delle restrizioni.
      Si possono indicare tre motivi specifici a sostegno di tale scelta.
      Il primo è che le varie sentenze della Corte costituzionale in materia sottolineavano il carattere di norma a termine dell'articolo 41-bis, comma 2 (vedi la sentenza n. 351 del 1996, parte iniziale del n. 4 della motivazione in diritto, nella quale si richiama il carattere di emergenza della normativa in questione). La trasformazione in norma permanente consiglia di preoccuparsi di impedire la perpetuità della applicazione, che sta, invece, manifestandosi per molte delle persone sottoposte.
      Il secondo motivo è rappresentato da quanto si legge, in merito al regime di cui all'articolo 41-bis, comma 2, al numero 78 (pagina 23) del rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani e degradanti (CPT), approvato il 7 luglio 2000: «Infine il CPT non può non esprimere la sua preoccupazione circa la legittimità di un sistema di detenzione d'eccezione, concepito in origine come sistema temporaneo, ma che è sempre in vigore otto anni dopo la sua creazione». La «preoccupazione» del CPT non può certo essere fugata dalla sopravvenuta definitività della normativa già a termine.
      Il terzo motivo fa riferimento alle ripetute affermazioni della Corte costituzionale sulla necessità che sia rispettato, in costanza di applicazione del regime in questione, il diritto alla rieducazione e ad un trattamento penitenziario conseguente. Non vi è dubbio che il concreto rispetto di tale diritto vada incontro, nel regime di massima sicurezza, a non poche difficoltà, così che non può non prevedersi la temporaneità della applicazione dello stesso.
      Per evitare, comunque, la repentina e contemporanea cessazione di tale regime per un numero elevato di persone per le quali i termini massimi di durata previsti siano già scaduti, si può stabilire un regime transitorio, con un termine massimo unico di cinque anni, entro il quale la sottoposizione al regime deve cessare. Il termine decorrerà dalla entrata in vigore della legge 23 dicembre 2002, n. 279, che ha reso definitiva la normativa provvisoria precedente.
      Dovrà, poi, essere sottolineato - ed è questo l'ultimo intervento modificativo - che, nell'ambito del regime di cui all'articolo 130 della presente proposta di legge, già articolo 41-bis, comma 2 e successivi, non possono essere attuate situazioni diverse e di sostanziale isolamento per singoli detenuti, quale ne sia la caratura, come per vero è stato fatto e viene fatto.

3B. Articolo 131 della proposta di legge.

      All'articolo 131 sono state operate modeste modifiche alle vigenti disposizioni, di cui ai commi 2-quinquies e 2-sexies dell'articolo 41-bis vigente, relative al reclamo al tribunale di sorveglianza contro il provvedimento applicativo del regime in questione.
      Si rende chiaro, per evitare equivoci ancora presenti con il comma 2-quinquies vigente, che la competenza territoriale sul reclamo è quella del tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l'istituto di assegnazione definitiva dell'interessato. La generica indicazione del luogo di assegnazione, senza specificazione che si tratta di assegnazione «definitiva» e non provvisoria, sembra indispensabile per evitare, appunto, gli equivoci tuttora ricorrenti.
      Due precisazioni anche sulle disposizioni del comma 2-sexies vigente. La prima chiarisce che il ricorso per cassazione può essere proposto sui punti trattati nel provvedimento reclamato: sussistenza dei presupposti

 

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del provvedimento ministeriale e congruità del contenuto dello stesso. La indicazione del testo vigente, secondo il quale il ricorso in cassazione può essere fatto per violazione di legge, può, in sostanza, limitare l'oggetto del ricorso e innescare, comunque, eterogeneità di decisione. Sembra opportuno che la Cassazione, data la rilevanza di tali questioni, abbia una conoscenza piena delle questioni. Anche in ragione di questo si ritiene che debba essere rispettato il giudizio così maturato e debbano, quindi, essere richiesti, per la nuova applicazione del regime speciale, oltre che nuovi elementi sui collegamenti criminali, anche un limite temporale: quello di due anni, già indicato nell'articolo 130, nei casi in cui non vi è stato reclamo e, se vi è stato, non vi sia stata impugnazione.

3C. Articolo 132 della proposta di legge.

      Tale disposizione riguarda l'analisi delle restrizioni rese esplicite con la citata legge 23 dicembre 2002, n. 279. Si noti che tali restrizioni, con carattere standardizzato, erano fino ad oggi introdotte con il decreto ministeriale applicativo. La indicazione delle stesse nella legge le rafforza, ma non ne evita il giudizio di costituzionalità, anzi lo rende specificamente possibile. Si tratta, quindi, di eliminare, con riferimento al testo del comma 2-quater del vigente articolo 41-bis, gli aspetti di incostituzionalità che lo accompagnano. Si esaminano le singole disposizioni restrittive indicate dal comma 2-quater.
      In analogia con il corrispondente articolo relativo ai contenuti della sorveglianza particolare, la presente proposta di legge contiene la indicazione di cosa non devono comportare le limitazioni alle regole di trattamento e la successiva specifica indicazione di quali regole possono essere limitate o del tutto sospese.

Le indicazioni generali ostative del comma 1.

      Il comma 1 dell'articolo 132 riguarda appunto ciò che non devono contenere i provvedimenti ministeriali applicativi del regime penitenziario ordinario. La norma è formulata con riferimento ad esplicite affermazioni contenute nelle sentenze costituzionali in materia. Il suo contenuto è, quindi, dovuto.
      La sospensione della applicazione delle regole o degli istituti di cui all'articolo 130 non può comportare la attuazione di misure comunque incidenti sulla qualità e sulla quantità della pena o sul grado di libertà personale del detenuto. Su questo, si vedano le sentenze della Corte costituzionale n. 349 del 1993, n. 5.2 della motivazione in diritto e n. 351 del 1996, parte centrale del n. 4 della motivazione in diritto. Tale sospensione neppure può comportare misure che, per il loro contenuto, non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l'ordine e la sicurezza o siano inidonee o incongrue rispetto a tali esigenze con una portata puramente afflittiva: così la sentenza della Corte costituzionale n. 351 del 1996, parte iniziale del n. 5 della motivazione in diritto. E neppure la sospensione può comportare misure che violino il divieto costituzionale di disporre trattamenti contrari al senso di umanità e violino, inoltre, l'obbligo di tenere conto della finalità rieducativa che deve connotare la pena: su questo vale il riferimento diretto all'articolo 27, terzo comma, della Costituzione, e si possono ancora leggere le sentenze della Corte costituzionale n. 351 del 1996, già citata, parte iniziale del n. 6 della motivazione in diritto, e n. 349 del 1993, parte finale del n. 6.1 della motivazione in diritto.

Le indicazioni specifiche relative alle restrizioni delle singole regole di trattamento.

      Si compie qui un esame contestuale delle disposizioni del testo vigente e delle disposizioni alternative della proposta di legge.
      A. La disposizione di cui alla lettera a) del citato comma 2-quater vigente è estremamente

 

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pericolosa per la sua indeterminatezza, che potrebbe consentire la violazione di tutti i diritti essenziali per le condizioni e il regime di vita della persona, una volta che si assuma che le restrizioni stesse abbiano i fini che la norma indica. È ovvio che le sezioni per l'attuazione del regime in questione pongono concretamente in essere situazioni di sicurezza finalizzate a quanto la lettera a) in esame prevede. Ma tale disposizione restrittiva non legittima gli interventi materiali di sicurezza, che non hanno bisogno di alcuna previsione normativa, ma consente, invece, attraverso l'inserimento nei decreti ministeriali applicativi, la disapplicazione di regole di trattamento penitenziario indefinite: è, in sostanza, una norma in bianco che può essere riempita, con l'atto amministrativo applicativo, dei più diversi contenuti.
      Pertanto, tale parte della normativa va abrogata.
      B. Più oltre, nell'esaminare le disposizioni contenute nella lettera f) (vedi sub D), ci si soffermerà più diffusamente sulla esigenza di non sacrificare la finalità rieducativa della pena e le regole di trattamento funzionali alla stessa: in proposito vedi le sentenze della Corte costituzionale n. 351 del 1996, n. 6 della motivazione in diritto, e n. 376 del 1997, in varie parti e in specie al n. 9 della motivazione in diritto. Si tratta di inquadrare in questi princìpi anche l'esame della lettera b) del testo vigente del comma 2-quater, recante restrizioni ai colloqui dei detenuti e a materie collegate, come quella delle telefonate. Occorre, pertanto, ricordare che gli strumenti rieducativi previsti della legge n. 354 del 1975, si identificano, in particolare, con gli «elementi del trattamento» di cui all'articolo 15, fra i quali è inserita l'agevolazione dei «rapporti con la famiglia», cui è poi dedicato l'articolo 28: «Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie». Il modo ordinario di attuazione del diritto al trattamento rieducativo in questa materia è tracciato nel regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 2000, che dovrebbe valere in linea generale. Si può ricordare che, al comma 4 dell'articolo 14-quater della legge n. 354 del 1975, relativo al regime di sorveglianza particolare, si disponeva che «In ogni caso le restrizioni non possono riguardare (...) i colloqui (...) con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli». E si può aggiungere, sullo specifico riferimento analogico delle prescrizioni ex articolo 41-bis in materia al comma 3 dell'articolo 14-quater, quanto rilevava la sentenza della Corte costituzionale n. 351 del 1996, al n. 6 della motivazione in diritto.
      Certo si scontrano qui due esigenze, prendendo atto che sovente la famiglia naturale può essere veicolo di contatto con la aggregazione criminale. Ma, da un lato, non è che il particolare contenimento dei rapporti di cui al testo vigente eliminino il rischio o lo riducano significativamente, mentre, dall'altro lato, l'intervento molto riduttivo sulle relazioni affettive dei reclusi può escluderne le conseguenze positive e favorire invece le solo reazioni negative.
      Tanto premesso, se pure non si voglia attenersi alle disposizioni corrispondenti della sorveglianza particolare, ora ricordate, la disposizione di cui alla lettera b) del citato comma 2-quater vigente in materia di colloqui può, quantomeno, essere modificata nella rigidità che la caratterizza, modulando il numero delle ore di durata e il numero dei colloqui, e prevedendone un possibile e progressivo aumento nel tempo. Analogamente per le telefonate. In questa linea si è modificato, nella presente proposta di legge, il testo della lettera b).
      C. Nessuna obiezione sulle lettere c) e d) del medesimo comma 2-quater, mentre invece deve essere diverso il discorso per la lettera e).
      La disposizione di cui alla lettera e) è indubbiamente incostituzionale, per violazione dell'articolo 15 della Costituzione, come osservato esplicitamente nella sentenza della Corte costituzionale n. 349 del 1993 (n. 6.1 della motivazione in diritto): era stata già tolta dai primissimi decreti
 

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ministeriali del giugno 1992; è stata, invece, ripristinata, inserendola addirittura nella legge. Dovrebbe risultare chiaro che la previsione nel decreto ministeriale, facoltizzata dalla nuova normativa, della «sottoposizione a visto di censura della corrispondenza» «salta» il provvedimento giudiziario previsto dai commi settimo e ottavo dell'articolo 18 della legge n. 354 del 1975, necessario per il secondo comma dell'articolo 15 della Costituzione, provvedimento, fra l'altro, ora giurisdizionalizzato con la legge 8 aprile 2004, n. 95. La elusione di tale provvedimento ripropone la violazione costituzionale indicata.
      D. La disposizione di cui alla lettera f), come, in parte, anticipato alla lettera B, pone problemi per la sua applicazione concreta e per le sue implicazioni.
      Quando si parla di applicazione concreta, si deve partire da una considerazione: le sezioni di cui all'articolo 41-bis hanno almeno 40-50 detenuti e sovente anche un numero superiore che può arrivare fino a 100. Si tenga presente che i detenuti sottoposti a tale regime sono ormai circa 700: divisi per il numero di sezioni esistenti danno una presenza media per sezione che si colloca fra i numeri indicati. Se la fruizione della cosiddetta «aria» o permanenza all'aperto è limitata a gruppi di cinque persone, si deve trovare il tempo e lo spazio per lo svolgimento dell'«aria» per oltre dieci gruppi composti come indicato in precedenza. Il tempo disponibile in una giornata varia da 8 a 10 ore. Lo spazio dovrebbe essere uno solo, il cortile annesso alla sezione. Data questa situazione, le soluzioni possibili sono o quella di ridurre il tempo dell'«aria» o di moltiplicare gli spazi di passeggio, dividendo l'unico cortile.
      Entrambe le soluzioni sono chiaramente insoddisfacenti, tenendo anche conto che un periodo giornaliero di permanenza all'aperto è indispensabile per contenere gli effetti negativi sul piano igienico e della salute fisica di protratte permanenze in locali chiusi e angusti, che impediscono il normale movimento fisico. La soluzione della riduzione del tempo di «aria» può arrivare a toccare ordinariamente il minimo dell'ora giornaliera che è previsto invece dall'articolo 10 solo «per motivi eccezionali». E non è migliore la moltiplicazione dei passeggi nello spazio dell'unico cortile preesistente (sistema, d'altronde, largamente in uso), in quanto la permanenza all'aperto in uno spazio molto ridotto può portare a reazioni psicofisiche negative, che non hanno bisogno di essere dettagliate (tale spazio può trasformarsi in una gabbia, termine pertinente, specie quando presenta coperture superiori, quali griglie metalliche, come accade spesso).
      La composizione di soli cinque soggetti dei gruppi sembra, quindi, fare ritenere impraticabile una permanenza all'aria di quattro ore, come indicata dalla lettera f) in esame. La conclusione è che la composizione dei gruppi deve essere portata almeno a dieci soggetti. Si noti, poi, che la lettera f) parla di una durata «non superiore a quattro ore al giorno», che consente, così, di ridurre i tempi dell' «aria» in misura indefinita. Di qui, come conclusione, la indicazione non solo della durata massima, ma anche di quella minima, che può essere indicata ai sensi del comma 2 dell'articolo 12 della presente proposta di legge, che fissa la durata minima della permanenza all'aperto in almeno due ore giornaliere.
      Si è detto, però, all'inizio di queste considerazioni sulla lettera f), che la stessa pone problemi non solo per la sua applicazione, ma anche per le sue implicazioni. Quella principale è di consentire che, in fatto e anche formalmente, alla permanenza all'aperto da due a quattro ore venga a corrispondere una chiusura in cella da 22 a 20 ore. Occorre rendere esplicito che questa implicazione non è ammissibile. Può sembrare incongruo che una disposizione restrittiva sulle regole di trattamento si preoccupi delle implicazioni della sua applicazione, ma incongruo non è se la implicazione principale è la potenziale esclusione di quelle attività di osservazione e trattamento, il cui mantenimento è, invece, essenziale affinché il regime restrittivo in esame non entri in
 

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collisione con i limiti che gli sono stati posti dalle sentenze della Corte costituzionale già citate. In proposito, la sentenza n. 376 del 1997 (n. 9 della motivazione in diritto) sottolinea, per i decreti ministeriali ex articolo 41-bis, «il divieto di misure che escludano la attività di osservazione e trattamento individualizzato, nonché l'offerta di strumenti ed opportunità di socializzazione - fra cui le attività culturali, ricreative, sportive e di altro genere di cui all'articolo 27 dell'ordinamento penitenziario - e più in generale di misure che escludano l'opera di rieducazione (...)». Pare ovvio che il richiamo alle attività menzionate dalla sentenza non esclude gli strumenti principali del trattamento: lavoro e scuola. Pertanto, richiamare il limite fondamentale alla disposizione restrittiva pare essenziale per garantire la legittimità della stessa.
      Anche sotto tale profilo c'è da dire che la previsione della composizione dei gruppi di sole cinque persone potrebbe inevitabilmente trasferirsi a tutte le attività trattamentali, creando gravi difficoltà oggettive al loro svolgimento (con la esigenza di ripetizione delle varie attività per i vari gruppi). L'elevazione a dieci persone dei componenti di ogni gruppo può, quindi, migliorare la fattibilità degli interventi trattamentali. Anche se si può osservare che il limite di composizione dei gruppi per la fruizione dell'«aria» può non valere per le altre attività, fruite con la presenza di operatori e di personale, diversamente dalla permanenza all'aperto, durante la quale i detenuti sono soli, pur se controllati a distanza.
      Pertanto, la lettera f), che diviene, per la precisione, la lettera d) del comma 2 dell'articolo 132 della proposta di legge, comprende un periodo finale (che sembra preferibile alla creazione di un comma autonomo con analogo contenuto), nel quale si sottolinea che le limitazioni alla fruizione dell'«aria» non possono incidere e riferirsi allo svolgimento delle attività trattamentali, che devono essere attuate secondo le previsioni della legge. La permanenza nelle camere di pernottamento, per usare il termine corretto usato dalla legge (e non quello consueto di «celle»), deve essere limitata in relazione alla necessità di svolgimento delle attività predette.

Sezione II. Capi IV, V, VI e VII sul personale penitenziario.

      Va indicata subito una prima esigenza: quella di dare alla definizione dei profili del personale e della sua organizzazione uno spazio proprio, che non aveva nella legislazione vigente, nella quale le norme sul personale sono inserite, in modo non sufficientemente sistematico, nelle disposizioni finali e transitorie di cui al capo IV del titolo II.
      La materia è articolata in quattro distinti capi:

          capo IV: personale operante negli istituti;

          capo V: personale dei centri di servizio sociale per adulti;

          capo VI: livelli superiori della organizzazione penitenziaria e formazione professionale;

          capo VII: assistenti volontari e cooperazione sociale.

      Da osservare: gli assistenti volontari e gli operatori della cooperazione sociale collaborano con gli operatori penitenziari, ma ovviamente non fanno parte della loro organizzazione. Proprio per il ruolo di collaborazione svolto è apparso corretto esaminarli nel quadro organizzativo penitenziario generale.
      Si devono poi sottolineare che le nuove regole normative sul personale penitenziario devono tenere conto della evoluzione dei singoli ruoli, nonché delle esigenze organizzative che tale personale deve soddisfare.
      Sotto il primo profilo, deve quindi intendersi superato il ruolo della carriera di concetto di educatori e assistenti sociali, di cui all'articolo 83, secondo comma, della legge n. 354 del 1975. Il ruolo di questi operatori è ormai decisamente diverso

 

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e va stretto nella nozione di «carriera di concetto», d'altronde largamente superata. Per tali operatori si esige ormai un particolare titolo professionale universitario.
      Altrettanto largamente superata è la collocazione degli infermieri tra gli operai specializzati, di cui all'articolo 80, commi quinto e sesto, della legge n. 354 del 1975.
      Sotto il secondo profilo, si ritiene che il personale che svolge la funzione continuativa ed essenziale degli esperti dell'osservazione e trattamento, previsto nei commi secondo e quarto dell'articolo 80, debba avere un rapporto organico con l'amministrazione, rapporto che non può corrispondere all'incarico giornaliero o libero professionale. Di qui la integrazione del personale che svolge queste funzioni nell'organizzazione penitenziaria. Potrà, se mai, essere prevista la possibilità di attivare rapporti non organici nei casi in cui gli interventi da svolgere abbiano carattere di provvisorietà e di modesta rilevanza quantitativa.
      Inoltre la normativa sul personale che si vuole definire deve innanzitutto disegnare un modello organizzativo che possa realizzare il raggiungimento dei fini che la Costituzione e l'ordinamento penitenziario attribuiscono alle strutture penitenziarie.
      Chiariti questi punti, si possono indicare le linee essenziali della organizzazione del personale penitenziario.

A. Il capo IV: personale operante negli istituti.

1. Il modello organizzativo.

      Si tratta di definire, sviluppandolo e garantendolo, il modello organizzativo del personale penitenziario che si è avviato in questi anni. Si può partire dalla considerazione di come il modello organizzativo non debba essere.
      Un modello da evitare è quello della rigida concentrazione della responsabilità di tutti i servizi e delle connesse decisioni relative all'istituto nella figura centrale del direttore. Perché questo modello è da evitare? Perché un istituto penitenziario si articola in una serie di servizi, rispetto ai quali un unico punto di decisione e di responsabilità non è funzionale. È impossibile che, in questo solo punto, vi sia un'adeguata conoscenza dell'andamento e dei problemi quotidiani di tutti i servizi. Ne consegue che o il direttore lascerà mano libera agli operatori dei singoli servizi, mantenendo, peraltro, la responsabilità dei loro interventi senza averne una conoscenza diretta ed adeguata, o limiterà la funzionalità dei singoli servizi, per avere l'effettivo controllo di quegli interventi di cui avrà la responsabilità. È chiaro che questo modello organizzativo limita e irrigidisce la funzionalità degli istituti ed avrà inevitabili ricadute sullo svolgimento di tutte quelle attività trattamentali necessarie per il rispetto dei diritti dei detenuti e per lo sviluppo dei percorsi riabilitativi degli stessi. L'istituto non sarà attivo, ma scivolerà inevitabilmente verso una forte contrazione delle attività.
      Va detto che, purtroppo, nonostante i passi in avanti, negli ultimi anni, del riconoscimento formale della articolazione della organizzazione in aree professionali diverse, molti istituti presentano condizioni funzionali molto prossime a quelle che si sono descritte con una valutazione chiaramente negativa.
      Un modello che non può essere condiviso è quello espresso in alcuni progetti di legge presentati in Parlamento: si tratta di progetti di legge che hanno in comune il ruolo centrale che viene attribuito nella struttura organizzativa degli istituti, al Corpo di polizia penitenziaria e, ovviamente, nei singoli istituti, al reparto di tale Corpo operante negli stessi. Le attività professionali diverse - area educativa-trattamentale, area amministrativa contabile, area sanitaria, eccetera - assumono la natura di aree tecniche all'interno della struttura organizzativa dell'istituto, che è quella della polizia penitenziaria. La direzione è posta al vertice di tale struttura.
      Risulta evidente che un modello del genere è la negazione del carcere come istituzione sociale, quale indicato dalla Costituzione e dall'ordinamento penitenziario.

 

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È inevitabile che, nello stesso, le singole aree professionali siano costantemente condizionate dalla ipoteca della sicurezza e dipendano, per i loro spazi di azione, dalla polizia penitenziaria, struttura di gestione effettiva dei singoli istituti. Dare risalto e, per così dire, principalità ad un'unica voce, soffoca la dialettica con le altre, che, sia pure con fatica, sono emerse in questi anni in minore o maggiore misura. Ne consegue, dando spazio a questo modello, la riduzione degli istituti a strutture di sola custodia, luoghi di inattività e di inerzia e certamente poco o nulla di riabilitazione.
      Si tratta, invece, di portare a compimento il processo degli ultimi anni, che ha visto l'articolazione delle singole aree professionali e funzionali: si tratta di dare forza a questo processo e di portarlo oltre il solo riconoscimento formale nel quale si è sovente risolto.
      La creazione delle aree professionali nelle quali si articola un istituto ha una valenza operativa ben chiara: si vuole che l'istituto sia attivo, si muova per la soddisfazione di tutte le esigenze che presenta. L'articolazione funzionale garantisce che tutti i servizi abbiano lo spazio adeguato, garantisce altresì che gli stessi convivano e si confrontino, anche dialetticamente, approdando conclusivamente al funzionamento e al soddisfacimento di tutti i ruoli. Resta il problema di prevedere un centro organizzativo che dia le indicazioni e adotti le decisioni generali.
      Va riconosciuta, pertanto, la esistenza di un vertice - direzione - che deve avere, a sua volta, risorse personali, che gli consentano di essere presente e di conoscere le varie articolazioni e servizi dell'istituto. La funzione direttiva deve essere distribuita fra più soggetti, così che il livello delle responsabilità sia distribuito secondo il livello delle effettive conoscenze e presenze nelle varie parti dell'istituto. Ad un direttore-capo sono attribuite responsabilità e funzioni decisionali sull'andamento e sui servizi generali dell'istituto, ma lo stesso distribuirà agli altri funzionari direttivi dell'area della direzione, con indicazioni e deleghe esplicite, servizi ed attività, così che le decisioni siano sempre riferibili a funzionari che sono stati in grado di conoscere le singole situazioni nelle quali intervengono le loro decisioni.
      Si è detto, però, che l'articolazione in aree professionali e funzionali è decisiva affinché tutti i servizi siano attivi ed efficienti. C'è, quindi, un problema di rapporto fra la direzione e i dirigenti delle singole aree professionali, preposti alle stesse in relazione alle loro specifiche competenze. Questo rapporto non può negare riconoscimento alla autonomia, professionale e organizzativa, nelle singole aree di tali dirigenti. Ma gli stessi devono conformarsi alle indicazioni generali date dalla direzione per l'andamento dell'istituto e riconoscere alla medesima un potere di coordinamento delle varie aree tra loro e di decisione sulla compatibilità degli interventi delle singole aree rispetto a quelli delle altre.
      È importante per l'andamento ordinato e vitale delle attività delle singole aree che le stesse abbiano a disposizione il personale necessario per funzionare. Anche questo deve essere, quindi, sottolineato in modo particolare. Così, fino a che il personale dell'area educativa - oggi assolutamente insufficiente - non sarà adeguato allo svolgimento del proprio servizio, la mancata risposta alle esigenze che avrebbero dovuto essere soddisfatte da quel servizio produrrà tensioni ricadenti su altri servizi, come quello di polizia penitenziaria o quello sanitario. Ma questo intervento vicario darà risposte diverse e spesso di solo contenimento a domande cui l'area educativa avrebbe dovuto rispondere in modo diverso e più appropriato. Il che conferma che la equilibrata funzionalità di ogni area contribuisce alla funzionalità di tutte e che è questa che va perseguita.
      Si è ritenuto che la materia della organizzazione del personale trovi un suo spazio di princìpi nello stesso ordinamento penitenziario. È indispensabile per una visione complessiva della materia e perché sia chiara la centralità della stessa affinché gli istituti realizzino effettivamente
 

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le funzioni assegnate dalla Costituzione e dall'ordinamento penitenziario.
      Si analizzano ora le singole disposizioni contenute nel capo IV.

2. Le indicazioni generali sulla organizzazione del personale penitenziario.

      Il primo articolo del capo IV è dedicato alle indicazioni generali che riguardano il personale.
      Si è trattato già di una parte delle stesse nel numero 1. Qui si richiamano soltanto alcuni punti.
      Il comma 1 dell'articolo 133 sottolinea che la organizzazione del personale deve essere volta a realizzare le finalità indicate nell'articolo 1: realizzare, pertanto, un carcere che rappresenti una istituzione sociale, informata a senso di umanità, rispetto della dignità della persona, trattamenti riabilitativi per i condannati e possibilità di accesso agli stessi anche per gli altri detenuti. Queste finalità riguardano la istituzione carceraria nel suo complesso e in tutte le aree professionali e di servizio.
            Il comma 2 contiene la concreta indicazione delle singole aree nelle quali si articola la organizzazione dell'istituto e si distribuisce il suo personale. Le si elencano:

          area della direzione;

          area amministrativo-contabile;

          area educativa;

          area degli esperti dell'osservazione e trattamento;

          area sanitaria;

          area della sicurezza.

      Si deve chiarire che alle singole aree appartiene anche il personale che deve svolgere le funzioni di collaborazione e di ordine indispensabili. Deve anche essere disponibile personale con specifica preparazione informatica.
      Nel comma 5, infine, si sottolinea la esigenza che ogni istituto si dia e realizzi una specifica progettualità. A tale scopo, ogni anno l'istituto si deve dare un programma di interventi da operare, deve presentarlo al competente provveditorato regionale e chiedere, previa valutazione, le risorse necessarie per realizzarlo. Il provveditorato, esaminato il programma e compatibilmente con le risorse a sua disposizione, adotterà la decisioni conseguenti. Ogni istituto, in relazione alle conclusive decisioni del provveditorato, predisporrà un bilancio preventivo e consuntivo relativo alle attività da svolgere nell'anno. In tale modo gli istituti si impegnano in un progetto che stimola lo sforzo di miglioramento degli operatori e dei risultati della loro attività. Ovviamente le linee su cui si deve muovere tale miglioramento sono quelle più volte richiamate.

3. Area della direzione.

      Le indicazioni essenziali sull'area della direzione sono già state date al numero 1. Di tale area si occupa l'articolo 134 di questo capo.
      Comma 1: appartengono al direttore i poteri di organizzazione dell'istituto, di coordinamento delle varie aree e servizi, di indirizzo della attività di questi e di controllo sulle attività svolte o in svolgimento. La definizione del programma annuale delle attività da svolgere nell'istituto è curata dal direttore, che stimola e coordina la collaborazione e le proposte degli operatori delle singole aree. Il direttore, inoltre, coordina e agevola lo svolgimento della attività degli operatori volontari dell'istituto.
      Commi 2, 3 e 4: nell'area della direzione, accanto al direttore, sono presenti altri funzionari direttivi. Il direttore distribuisce fra questi le responsabilità operative relative ai vari servizi e sezioni dell'istituto. Come già accennato, è essenziale che la direzione, attraverso tutti i suoi funzionari, abbia una conoscenza diretta delle varie realtà dell'istituto: solo così possono essere operate scelte e dettati indirizzi consapevoli, di cui possa poi

 

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essere chiesta ragione. La responsabilità è costruita su quella conoscenza. È necessario, pertanto, che i funzionari direttivi - il direttore e i suoi collaboratori - siano in numero adeguato per acquisire una conoscenza diretta degli interventi attuati. Strumento di questa conoscenza dovrà essere anche l'audizione frequente, richiesta o non richiesta, dei detenuti e degli internati. Presso la direzione, un servizio individua e verifica le prassi operate nell'istituto che si sono rivelate come positive e le comunica al provveditorato regionale.
      Commi 5 e 6: in relazione alla rilevanza delle sue funzioni, al direttore di istituto deve essere attribuita la qualifica dirigenziale. Si fa eccezione per istituti molto piccoli, con capienza ufficiale prevista di non più di cinquanta persone, fra i quali non sono compresi quegli istituti che, pure se di ridotte dimensioni, hanno funzioni di sperimentazione o di gestione di situazioni speciali.
      Comma 7: per i funzionari direttivi è predisposto un ruolo organico, che prevede la distribuzione delle unità necessarie fra i vari livelli fino a quelli dirigenziali. Si sottolinea nella norma in esame che gli organici per i singoli livelli devono essere calcolati tenendo presente la esigenza della presenza dei funzionari direttivi nei vari servizi di ogni istituto.

4. Area amministrativo-contabile.

      Si tratta di un aspetto degli istituti penitenziari oggi largamente inferiore alle esigenze che dovrebbe soddisfare: effetto e causa, esso stesso, di una macchina amministrativa che, pure con aumentate esigenze, è costretta a marciare o comunque marcia a un minimo numero di giri. Fra l'altro, per parte dei servizi, è stato e viene ancora utilizzato personale della polizia penitenziaria, sottratto, però, in tale modo, al proprio servizio. La molto limitata utilizzazione degli spazi per il lavoro e di altre iniziative, che impegnerebbero le persone recluse e renderebbero attiva e non inerte la loro vita, si spiega anche con le insufficienze organizzative di questa area.
      Nel momento in cui si vuole che l'istituto attivi tutte le sue funzioni, si trasformi da struttura immobile a realtà in movimento, l'adeguatezza organizzativa dell'area amministrativo-contabile diventa indispensabile. Questo è necessario anche se i singoli istituti, come è previsto e possibile, attribuiscono spazi di attività a enti od organi esterni alla amministrazione penitenziaria, come quelli di istruzione e formazione professionale e, ancora, a cooperative sociali o imprese private, che possono organizzare iniziative di lavoro per le persone recluse. Anche in tali casi, pure se ridotta, l'attività dell'area amministrativo-contabile è indispensabile nella fase preparatoria e in quelle di verifica e di controllo.
      Va aggiunto che se il singolo istituto deve darsi un ciclo annuale di attività, pensare in termini di bilancio preventivo e consuntivo, l'area amministrativo-contabile è costantemente impegnata e deve avere le risorse organizzative necessarie per fornire, in ogni fase, un contributo efficace.
      L'articolo 135 definisce i servizi di competenza dell'area amministrativo-contabile e i punti rilevanti del suo assetto organizzativo. Al comma 1 sono indicate le funzioni dell'area. Al comma 2 è individuata la figura del dirigente. Al comma 3 sono indicati gli organici e al comma 4 lo sviluppo di carriera degli operatori dell'area.

5. Area educativa.

      È indubbiamente una delle aree strategiche dell'istituto, che risente oggi e da tempo di gravissime carenze. Gli ultimi anni hanno visto il riconoscimento della autonomia dell'area e la attribuzione, attraverso concorso interno, della dirigenza della stessa agli educatori, ma non un solo passo avanti è stato fatto in merito alla copertura dei ruoli, già ora largamente scoperti, e al loro potenziamento. Gli educatori presenti negli istituti sono poco più

 

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di 450 e altri 130/140 operano presso il dipartimento e i provveditorati regionali della amministrazione penitenziaria. Si può stimare che, per una reale presenza ed efficacia dell'intervento negli istituti, occorre almeno moltiplicare per quattro le presenze attuali, raddoppiando, in particolare, il ruolo organico esistente, scoperto per più della metà.
      Il primo ed essenziale intervento è, dunque, quello della definizione di un organico degli educatori, che assicuri la loro efficace presenza negli istituti. Il loro ruolo è essenziale nell'ambito della attività di osservazione e trattamento, che è indubbiamente quella che dà il senso alla esecuzione della pena in carcere. È pertanto non rinviabile una definizione dell'organico, anche attraverso la previsione di uno sviluppo di carriera adeguato, che assicuri agli operatori di questa area una prospettiva stimolante al loro lavoro.
      Altrettanto essenziale e assolutamente urgente è procedere alla copertura degli organici così come definiti.
      Dell'area educativa si occupa l'articolo 136 della proposta di legge.
      Si è ritenuto necessario dare indicazioni nella proposta di legge su entrambi i punti indicati: organici e copertura degli stessi. Lo si è fatto ai commi 5 e 6 dell'articolo 136. In merito all'organico, si è definito il rapporto fra numero degli educatori e numero dei detenuti e degli internati. Il rapporto di uno a venticinque dovrebbe essere adeguato, tenendo conto che l'educatore ha un doppio livello di interventi: quello nei confronti di ogni detenuto ed internato e quello concernente organizzazione e partecipazione alle iniziative collettive, che devono impegnare la giornata dei reclusi. Per entrambi questi livelli si prospetta una pluralità di interventi molto articolati ed impegnativi. Per la copertura degli organici si sono previste procedure di urgenza per risolvere al più presto un problema determinante per il basso livello trattamentale del carcere odierno. Si è anche chiarito che il ruolo organico degli educatori prevede i livelli superiori di sviluppo della carriera fino alle funzioni dirigenziali.
      Il citato articolo 136 indica, ai commi 1 e 2, le funzioni degli educatori e chiarisce, al comma 3, che appartiene alla carriera degli educatori colui che dirige ed è responsabile dell'area: di questo vengono chiarite le funzioni.
      Comma 4: è nell'ambito dell'area educativa che si colloca, come luogo centrale, lo svolgimento della attività del gruppo di osservazione e trattamento. Tale attività è organizzata, seguita e documentata dagli educatori partecipanti al gruppo, ma si deve rilevare che il coordinamento della attività, nel corso degli incontri del gruppo, spetta al direttore o a un funzionario direttivo. Questo ruolo di coordinamento non può non spettare alla direzione quando, come accade in occasione degli incontri del gruppo di osservazione e trattamento, sono coinvolti operatori appartenenti ad aree diverse.
      Ciò non toglie che la responsabilità dell'area affidata ad un educatore presenti un ampio spazio di movimento per lo stesso. Questo riguarda intanto la attività di stretta competenza degli educatori, sia sul piano del rapporto individuale con i reclusi, sia su quello delle iniziative collettive. Qui il dirigente dell'area organizza il lavoro degli altri educatori. Ma la sua attività è rivolta anche ai componenti di altre aree: così quella degli esperti della osservazione e trattamento, come quella degli operatori dei centri di servizio sociale per adulti. Tali operatori devono svolgere le attività di loro competenza in materia di osservazione dei detenuti e degli internati, di verifica delle loro condizioni personali e socio-familiari, di definizione delle loro prospettive e possibili percorsi riabilitativi, nonché del loro sviluppo. Queste attività non hanno soltanto un momento di consultazione e di riflessione nelle riunioni del gruppo di osservazione e trattamento, ma si concretano in fasi operative che precedono e seguono quel momento. In tali fasi la collaborazione fra i vari operatori è indispensabile ed è l'area educativa che deve distribuire il lavoro, segnalare le esigenze, fare circolare le reciproche conoscenze, indicare problemi e approfondimenti. Se questo
 

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riguarda in primo luogo le aree direttamente coinvolte nella fase della osservazione e trattamento, include, poi, anche rapporti con le altre aree - ad esempio: direzione, sanità, sicurezza - che, di loro iniziativa o richieste, possono fornire indicazioni e informazioni, anche prima e a prescindere dalla loro partecipazione al gruppo di osservazione e trattamento. Il carico del coordinamento operativo e della organizzazione di questi rapporti ricadrà in particolare sul dirigente dell'area educativa e, attraverso lo stesso, sui singoli educatori.
      Si è voluto sottolineare nel testo della norma, nella parte finale del comma 1, che nel ruolo dell'educatore c'è anche una attività oggi giustamente valorizzata ed è quella della promozione della rete sociale, che implementi, prima, ed aiuti nella realizzazione, poi, di percorsi riabilitativi dei detenuti e degli internati. Rete sociale significa che, intorno alla persona reclusa, che rischia la esclusione sociale, si mobilitano le risorse che contribuiscono, invece, alla sua risocializzazione. Tali risorse, talvolta, hanno propri ruoli istituzionali nell'ambito dei servizi pubblici (pensiamo ai servizi per le tossicodipendenze o per l'igiene mentale, nei casi che presentano questi problemi), ma talvolta le risorse in questione possono riguardare il cosiddetto «privato sociale». Quasi sempre inoltre può essere presente la rete personale di riferimento dell'interessato: familiari, amici, organismi vari che si interessano di lui. Ovviamente c'è un protagonista di questo discorso ed è l'interessato medesimo, la sua motivazione a cogliere le occasione che gli vengono offerte. Spesso, nelle situazioni di molte persone coinvolte in situazioni gravi di disagio sociale, ci può essere una notevole difficoltà a vincere l'inerzia in cui si è precipitati. Gli operatori dell'area educativa devono essere in grado di rimotivare la persona o almeno devono cercare di farlo. Si tratta di spingerla a risollevarsi dalla caduta della fiducia in se stessa e nelle proprie prospettive, a superare le condizioni negative (come la dipendenza), che contribuiscono alla sua inerzia. Un tentativo non facile, ma che deve essere fatto.
      L'importanza della rete sociale va colta anche su un altro aspetto. È pacifico che un momento assai critico per il percorso del reinserimento sociale dei reclusi è quello del recupero della libertà: si passa da un regime, anche pesante, di controllo e di accompagnamento, tenuta presente anche la fase delle misure alternative, ad una situazione di esclusiva responsabilità propria. Sembra impraticabile la ipotesi di un ulteriore periodo di accompagnamento da parte degli operatori penitenziari dell'istituto a pena conclusa (il discorso viene aperto più oltre per gli operatori dei centri di servizio sociale per adulti), ma, se la rete sociale è attivata, è questa che può validamente assolvere l'opera di sostegno necessaria per chi deve riaffrontare la difficile responsabilità di se stesso.

6. Area degli esperti dell'osservazione e trattamento.

      Gli esperti dell'osservazione e trattamento hanno un ruolo particolarmente significativo negli istituti sotto un duplice profilo.
      Il primo è quello che gli attribuisce l'articolo 13 nel quadro della osservazione multiprofessionale della personalità, funzione che è strettamente penitenziaria.
      È emersa, però, una funzione ulteriore e diversa, conseguente alla circostanza che la professionalità largamente prevalente e quasi totalitaria tra gli esperti è quella dello psicologo. Questa funzione riguarda il coinvolgimento nella assistenza alle molte situazioni di disagio personale che si manifestano in carcere e di cui sono spia i tentativi di suicidio e i suicidi consumati, che presentano dimensioni preoccupanti. Sotto questo profilo, si richiede agli esperti una funzione psicoterapica, che, pure in presenza di situazioni strettamente carcerarie, li avvicina all'area sanitaria. Affidare tale funzione all'intervento psichiatrico può non essere pertinente in quanto manca una patologia psichiatrica, mentre sembra adeguato l'apporto dello psicologo,

 

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che interviene su un disagio, su una difficoltà nel sostenere l'impatto del carcere da parte di soggetti con una personalità fragile.
      La doppia funzione indicata fa degli esperti dell'osservazione e trattamento figure essenziali, la cui presenza in carcere è non solo quantitativamente insufficiente, ma anche qualitativamente inadeguata attraverso la previsione di semplici rapporti libero professionali con monti-ore mensili molto modesti rispetto alle esigenze.
      Di qui la previsione della istituzione di un ruolo organico degli esperti, ruolo che deve presentare una consistenza determinata sulla dimensione dell'impegno. L'organico dovrà anche prevedere uno sviluppo di carriera.
      Nella copertura dell'organico sembra inevitabile utilizzare intanto coloro che svolgono attualmente e da tempo lo stesso lavoro con rapporto libero-professionale. Gli stessi si sono ormai formati ad un lavoro che presenta aspetti di specificità molto significativi: sia per quanto riguarda l'attività di osservazione e trattamento, sia per quanto riguarda il sostegno al disagio psichico da carcerazione. È una formazione professionale già acquisita durante il lavoro svolto e che è, quindi, logico non disperdere.
      Si deve dare atto che, nella esperienza attuale, erano sorti, negli anni, vari servizi, vicini, ma diversi da quelli degli esperti dell'osservazione e trattamento, sempre a carico della amministrazione penitenziaria e sempre trattati con le stesse regole retributive e normative concernenti gli esperti dell'osservazione e trattamento. Si parla del «servizio nuovi giunti», istituito nei carceri maggiori per identificare il rischio di auto o di eteroaggressività nei soggetti che entravano in carcere. Si parla anche dei presìdi per le tossicodipendenze, che avrebbero dovuto agire da collegamento fra il servizio sanitario interno e il servizio per le tossicodipendenze del territorio.
      Un limite di questi vari servizi, non sempre coperti economicamente, e, quindi, con notevoli discontinuità, era la scarsità di collegamento e di interazione.
      Nell'articolo 137 della proposta di legge, dedicato a questa area, ci si è preoccupati della necessità che le varie risorse che devono operare in un istituto per i fini indicati, comprese quelle dei servizi sanitari del territorio, restino strettamente collegate. In funzione di questo si prevede che vi sia una sorta di presa in carico che si può chiamare psicologica, documentata attraverso una apposita cartella, che raccolga e metta in circolo tutti gli interventi e le valutazioni relativi alle singole persone, così da assicurare la interazione attualmente mancante.
      La norma citata prevede anche le modalità dei rapporti fra gli operatori e fra questi e gli appartenenti alle altre aree.
      Nelle norme transitorie si danno anche disposizioni per la copertura urgente dell'organico di questi operatori, attraverso un sistema di assunzioni che recuperi in buona parte i professionisti attualmente convenzionati con la amministrazione penitenziaria.

7. Area sanitaria.

      Per la descrizione della attività svolta nell'ambito dell'area sanitaria, si deve rimandare agli articoli da 13 a 16 della presente proposta di legge, e alla dettagliata relazione agli stessi, della parte prima di questa relazione.
      Si è prevista in tali articoli la avvenuta conclusione dell'iter legislativo che porta l'organizzazione sanitaria penitenziaria all'interno del Servizio sanitario nazionale. Questo, pertanto, con le proprie regole opererà all'interno degli istituti penitenziari.
      L'articolo 138 della proposta di legge si occupa della transizione dal sistema attuale, con un servizio sanitario penitenziario autonomo, a quello che prevede l'inserimento di tale servizio nel Servizio sanitario nazionale.
      Va, comunque, osservato, che il contenuto della assistenza sanitaria, così come prevista dai citati articoli, da 13 a 16, deve considerarsi vincolante sin d'ora. Anche il

 

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servizio sanitario attuale deve informarsi alle regole stabilite.
      Non sembra utile in questa fase procedere ad una rideterminazione dei quadri organici del personale sanitario, in quanto l'ingresso nel Servizio sanitario nazionale dovrebbe realizzarsi con la organizzazione propria dello stesso. Si è, comunque, previsto che le risorse economiche attuali devono essere adeguate e sufficienti per le modalità del servizio indicate; che le stesse non solo non devono essere ridotte, ma devono essere riportate ai livelli necessari per assicurare la doverosa funzionalità del servizio. Deve essere evidente, ad esempio, che la insufficienza di risorse economiche che porta alla mancata somministrazione di farmaci salvavita determina una responsabilità diretta della amministrazione che deve fornire quelle risorse.
      Per gli ospedali psichiatrici giudiziari e per le case di cura e custodia si sottolinea la necessità di una organizzazione interna dei reparti propriamente ed esclusivamente sanitaria, così come indicato dal comma 10 dell'articolo 13. Si sottolinea anche che il servizio paramedico nell'ambito dei reparti dovrà essere coperto interamente, in quanto solo in tale modo una gestione sanitaria dei reparti stessi sarà possibile.

8. Area della sicurezza.

      È indubbiamente un'altra delle aree strategiche degli istituti.
      Vi è già una legislazione specifica che la riguarda ed è quella che ha istituito e regolato il Corpo di polizia penitenziaria. Vi sono stati anche interventi successivi, in particolare sulle prospettive e sullo sviluppo di carriera del personale. Inoltre vi sono norme regolamentari previste dalla legislazione ordinaria.
      Nella presente proposta di legge si è cercato di sottolineare, nell'articolo 1, il rapporto di mezzo al fine della sicurezza rispetto al trattamento attuato nei confronti dei detenuti e degli internati e, in particolare, del trattamento rieducativo che deve essere svolto nei loro confronti: vedi i commi da 6 e 9 di detto articolo 1.
      Nell'articolo 139 del presente capo si sottolineano alcuni punti.
      Al comma 1 si chiarisce che l'area della sicurezza fa riferimento, comunque, come tutte le altre, al vertice dell'istituto rappresentato dalla direzione. È altresì previsto che il personale dell'area svolga anche il servizio di traduzioni e scorte dei detenuti e degli internati.
      Ai commi 2 e 3 si prevede l'organico generale del Corpo e quello dei reparti di polizia penitenziaria operanti nei singoli istituti, compresi i gruppi operativi che provvedono al servizio di traduzioni e scorte. Nell'organico si prevedono i vari livelli di carriera fino alle funzioni dirigenziali. Si stabilisce, inoltre, che le assunzioni nel Corpo di polizia penitenziaria devono avvenire con concorso pubblico e che questo deve essere organizzato nell'ambito di ogni provveditorato regionale, in relazione alle necessità dei singoli territori.
      Il comma 4 è dedicato al servizio traduzioni e scorte: si chiarisce il rapporto fra i gruppi operativi esistenti presso i singoli istituti, denominati «nuclei traduzioni e scorte», e i reparti operanti negli istituti e il dirigente degli stessi, cui compete anche la dirigenza del personale addetto alle traduzioni e scorte. Tali servizi hanno comunque un proprio responsabile che provvede alla loro organizzazione.
      Al comma 5 si chiarisce che la determinazione dell'organico è operata dal dipartimento della amministrazione penitenziaria, su proposta dei provveditori regionali, sentite le direzioni degli istituti. Al comma 6 è indicata la carriera del personale dell'area e il suo sviluppo fino alle funzioni dirigenziali.
      Comma 7: negli istituti, l'area della sicurezza ha un proprio dirigente.
      Nel comma 8 si sottolinea il rapporto fra l'area della sicurezza e le altre aree e, in particolare, la funzionalità della attività dell'area rispetto all'espletamento del trattamento penitenziario.
      Infine, al comma 9, è stabilito il divieto di distogliere il personale di polizia penitenziaria dalle proprie funzioni. A tale

 

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divieto si accompagnano altre disposizioni relative alla fase transitoria.

9. Organici e copertura degli stessi.

      L'articolo 140 si occupa degli organici, del calcolo degli stessi e della loro copertura.
      Si è costantemente richiamata l'attenzione sulla esigenza che, per una reale funzionalità degli istituti nel senso previsto dalla Costituzione e dall'ordinamento penitenziario, si debbano rideterminare gli organici, per gran parte delle aree decisamente inadeguati ai compiti. Nel contempo, si deve provvedere nel termine di tre anni alla copertura degli stessi. A questi aspetti sono dedicati i primi quattro commi.
      Per evitare il grave inconveniente attuale del concentrarsi del personale in determinate regioni e della mancanza dello stesso in altre, si richiama, al comma 5, la esigenza di provvedere con concorsi pubblici decentrati, nelle varie sedi dei provveditorati regionali, e in relazione alle esigenze dei singoli territori.
      Per settori del personale particolarmente deficitari si prevedono forme straordinarie di assunzioni per gli educatori e per gli esperti dell'osservazione e trattamento. Se ne interessano le norme transitorie, comprese nel titolo V.
      Al comma 7 si è inserito il divieto di una prassi, imputabile alla attuale gestione e a quelle precedenti, con la quale il personale viene distaccato dalla sede di assegnazione in altre sedi e servizi. Ciò accade generalmente per due ragioni: o per l'accettazione di istanze del personale per avvicinamenti alla residenza o per il potenziamento dei servizi ai livelli più elevati della organizzazione penitenziaria. Questi due motivi dovrebbero nel tempo venire meno, anche se non sarà breve il periodo di regolarizzazione. Da un lato, infatti, il sistema dei concorsi regionali diviene l'unico sistema di assunzione e la distanza del luogo di lavoro da quello di residenza dovrebbe largamente ridursi. Inoltre, anche le sedi gerarchicamente più elevate - provveditorati regionali e dipartimento centrale - dovrebbero dotarsi di un proprio organico. Il problema resta, comunque, aperto ed allora il richiamo al rigoroso rispetto del divieto dei distacchi appare necessario e l'amministrazione dovrà essere consapevole del grave effetto di disorganizzazione che il sistema attuale ha prodotto e produce.
      Nel comma 8 si è inserita la previsione di un sistema che dovrebbe incidere su altri inconvenienti, quelli che producono demotivazione allo svolgimento del servizio. La risposta indicata nella norma è quella di periodiche conferenze di servizio negli istituti fra il personale delle varie aree per verificare: da un lato, il rispetto dei diritti del personale (da quelli economici, che riguardano, in particolare, il ritardo nel pagamento di compensi per prestazioni straordinarie, a quelli relativi ai turni di servizio, di riposo, di ferie); dall'altro lato, l'impegno ad evitare le assenze non rigorosamente motivate, responsabili attualmente di elevati tassi di assenteismo.

B. Il capo V: personale dei centri di servizio sociale per adulti.

1. Organizzazione e funzioni dei centri di servizio sociale per adulti.

      I centri di servizio sociale per adulti hanno rappresentato da subito, accanto agli educatori operanti all'interno degli istituti, la novità dell'ordinamento penitenziario. La loro organizzazione è esterna e diversa da quella degli istituti.
      Sono considerati il soggetto principale della cosiddetta «area penitenziaria esterna» ovvero dell'area delle misure alternative.
      Gli articoli da 141 a 145 di questo capo descrivono l'organizzazione e le funzioni dei centri.
      Gli stessi sono posti nella medesima sede territoriale degli uffici di sorveglianza. È ormai stata attuata sul piano amministrativo, e qui viene riconosciuta su quello legislativo, la possibilità di articolazione

 

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dei centri sul territorio con sedi decentrate. Tale soluzione è sicuramente opportuna sia per una migliore funzionalità dello stesso servizio, sia per un rapporto più agevole e ravvicinato con e per l'utente. Sotto il primo profilo, in molti centri il numero delle persone in misura alternativa era troppo elevato per poter essere gestito efficacemente in un'unica sede. Sotto il secondo profilo, gli utenti del servizio e, in particolare, gli affidati in prova, con un rapporto abbastanza intenso con il servizio stesso, avevano sovente residenze molto lontane e ciò non rendeva facile il rapportarsi degli utenti al servizio e anche degli operatori agli utenti nei casi in cui dovevano accedere sul luogo del domicilio o del lavoro.
      Oltre alla organizzazione sul territorio, ci si occupa anche della organizzazione interna dei centri, che, come gli istituti, hanno diverse aree: area della direzione e della segreteria, area del servizio sociale, area amministrativo-contabile.
      Circa la organizzazione del personale, è presente negli articoli 142 e 143 la previsione dello sviluppo di carriera del personale fino al livello dirigenziale, che interessa i funzionari direttivi dell'area della direzione e della segreteria e gli assistenti sociali dell'area di servizio sociale.
      Veniamo, poi, alla indicazione delle funzioni.
      Nell'articolo 141 si prevede che la attività dei centri di servizio sociale per adulti deve tenere presenti le indicazioni dell'articolo 57, articolo iniziale del titolo II, che stabilisce la essenzialità delle misure alternative nel quadro della esecuzione penale e il ruolo che deve avere in esso un sistema organizzativo di sostegno e di controllo, che è rappresentato, appunto, dai centri.
      Si procede, poi, alla descrizione delle funzioni. Una è quella di collaborazione e di consulenza all'interno degli istituti, dove, in particolare, i centri e i loro operatori sono l'organismo indispensabile per la informazione, la verifica e lo stimolo dei riferimenti esterni, familiari e sociali, dei detenuti e degli internati. L'altra funzione si svolge, invece, tutta all'esterno e riguarda la gestione delle misure alternative. Di esclusiva competenza dei centri, quanto alla misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale; di collaborazione, quanto alle altre misure, alla gestione di altri organi: gli istituti, nel regime di semilibertà, gli organi di polizia nella detenzione domiciliare e nella liberazione condizionale.
      Per la prima funzione è chiaro che l'operatore del servizio sociale è soggetto indispensabile della osservazione della persona reclusa in quanto ricostruisce i suoi riferimenti esterni, familiari e sociali, contribuisce al mantenimento e al miglioramento degli stessi, verifica l'esito delle iniziali aperture della persona (come i permessi premio), coopera nel definire e nel verificare il percorso riabilitativo che si apre al detenuto e all'internato. Vi è quindi la partecipazione dell'operatore di servizio sociale, oltre che all'osservazione, a vere e proprie fasi trattamentali.
      Quanto alla seconda funzione, la centralità del servizio sociale penitenziario nell'area delle misure alternative è chiara. Tale area ha assunto ormai una dimensione significativa. Nel corso di un anno, passano attraverso di essa circa cinquantamila persone, i tre quinti delle quali sono in affidamento in prova al servizio sociale. Tale misura è gestita, appunto, dai centri di servizio sociale per adulti.
      Anche i centri hanno conosciuto situazioni di forte carenza organizzativa, sia nel personale che nei mezzi, tanto più avvertibile nelle zone in cui l'area esterna si allargava maggiormente, come le zone che appartenevano al nord e al centro Italia, in cui gli organici erano più scoperti e, comunque, largamente insufficienti. Su questa situazione è intervenuta la legge Simeone-Fassone-Saraceni, stabilendo un aumento significativo del personale di servizio sociale e del personale amministrativo utilizzabile nei centri, così che oggi le carenze del personale risultano contenute, nelle parti in cui è più avvertibile la crescita delle misure alternative, e risolte in quelle in cui la crescita è limitata o assente. Ciò non toglie che una revisione degli organici debba essere, comunque,
 

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operata, eventualmente limitata ai centri maggiormente impegnati. Per la ulteriore copertura dovrà essere ancora usato lo strumento dei concorsi decentrati nei singoli provveditorati regionali, che ha dato buoni risultati per la copertura dell'aumento degli organici previsto dalla ricordata legge Simeone-Fassone-Saraceni.
      Restano i problemi relativi al completamento della organizzazione del personale dei centri. Vi sono ancora insufficienze nel personale amministrativo e nella disponibilità dei mezzi necessari, particolarmente degli automezzi, indispensabili per lo svolgimento di una attività che si svolge in parte considerevole fuori dall'ufficio: di questo si occupa specificamente il comma 7 dell'articolo 141. Il discorso generale sulla organizzazione dei centri e, in particolare, sugli organici è sviluppato negli articoli 141 e 145.
      Sembra utile esaminare poi, per gli aspetti più generali della organizzazione del personale dei centri, la previsione, al comma 5 dell'articolo 143, di un nuovo ruolo del personale, quello degli operatori di servizio sociale, che hanno la funzione di collaborare con gli assistenti sociali. La loro qualificazione è minore: si richiede agli stessi un diploma di scuola del secondo ciclo di istruzione. La istituzione di tale ruolo risolve, però, una serie di problemi.
      Il problema centrale riguarda la caratterizzazione specifica dei centri, con riferimento alla fondamentale funzione della gestione della misura alternativa dell'affidamento in prova. Per questa, è necessario che non vi sia commistione con la partecipazione di Forze di polizia, siano esse appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria o ad altri Corpi di polizia. Tale caratterizzazione specifica è indispensabile affinché il rapporto degli utenti con il centro sia libero dal rischio di un approccio di tipo repressivo, pur mantenendosi una adeguata attività di controllo. Dunque, da un lato, tale personale svolge anche funzioni di vigilanza sui centri, nei quali, talvolta, si manifestano situazioni di tensione, cui può essere data una prima risposta senza ricorrere all'intervento di polizia, possibile in seguito, come in qualsiasi altro ufficio o servizio, se la situazione degeneri. Inoltre, sempre in una linea di maggiore sicurezza nel lavoro degli operatori di servizio sociale, questo personale può affiancare l'assistente sociale in caso di accesso in ambienti difficili. Dall'altro lato, questo nuovo personale può svolgere alcuni interventi di controllo sulla osservanza di certe prescrizioni, fra le quali quella, non infrequente negli affidamenti in prova, della permanenza al domicilio in determinati periodi della giornata, particolarmente nelle ore notturne. Il rispetto di tale prescrizione è oggi scarsamente verificato, se non attraverso gli organi di polizia, particolarmente dalle stazioni dei carabinieri nei centri minori, che si ritengono investite di una funzione che, per vero, non hanno. È però difficile contestare tale controllo senza garantire che lo stesso sia operato dagli organi effettivamente investiti, che sono, appunto, i centri di servizio sociale per adulti. Il personale in questione, può, quindi, risolvere queste carenze e controllare, inoltre, l'osservanza di altre prescrizioni
      L'articolo 141 si conclude con la previsione dell'autonomia dei centri. Questa si esprime nella definizione di programmi, che vengono presentati ai provveditorati regionali per la approvazione e la attribuzione delle risorse occorrenti. In relazione a ciò i centri hanno un bilancio preventivo e uno consuntivo.

2. Area della direzione e della segreteria.

      Il vertice organizzativo dei centri è rappresentato dalla direzione: se ne occupa l'articolo 142. Organizza il lavoro dell'ufficio, anche se esiste poi un secondo livello organizzativo nelle singole aree in cui l'ufficio si articola. È chiaro che questa competenza della direzione coinvolge anche funzioni di controllo sulla adeguatezza ed efficacia del lavoro degli operatori delle singole aree, che mantengono, però, la loro autonomia professionale: notazione, questa, particolarmente rilevante per gli assistenti sociali.

 

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      Si chiarisce anche, al comma 2, che il direttore del centro, come gli altri eventuali funzionari direttivi che lo affiancano, devono avere una qualificazione professionale di servizio sociale e svolgere anche, compatibilmente allo svolgimento delle funzioni direttive, attività concreta di servizio sociale. Questo dovrebbe evitare il rischio di burocratizzazione dei centri in relazione ad una funzione direttiva impostata più sugli aspetti amministrativi che su quelli di servizio sociale, che rappresentano, invece, la sostanza della attività dei centri.
      Il direttore del centro - comma 3 - ha qualifica dirigenziale.
      La funzione della direzione viene valorizzata dalla previsione del programma annuale relativo ai singoli centri: è prevista dal comma 8 dell'articolo 141, che sottolinea l'autonomia del centro. Questo dà al direttore del centro, cui viene riconosciuta una qualifica dirigenziale, il compito di tracciare linee di intervento significative, che possono attenere ad un miglioramento della ordinaria attività, ma anche ad iniziative straordinarie, che possono riguardare vari aspetti del lavoro complessivo, fra cui la formazione e la ricerca.
      Per questo ultimo aspetto è stata prevista, al comma 4 dell'articolo 142, la collaborazione di personale informatico, che può rappresentare una risorsa di base per una rilevazione e una elaborazione che vadano al di là del semplice contributo statistico.

3. Area del servizio sociale.

      L'articolo 143 è dedicato agli aspetti significativi di questa area essenziale per i centri.
      Nella norma, al comma 3, si annota la esigenza che il lavoro di servizio sociale si realizzi attraverso la sensibilizzazione e la collaborazione di quegli organi pubblici e del privato sociale che si interessano alla integrazione delle persone in situazioni di difficoltà. È quella che viene oggi chiamata «rete sociale» e che gli operatori dei centri devono cercare di promuovere.
      «Rete sociale» significa che, intorno alla persona che è o deve essere sottoposta alla esecuzione della pena e che, a tale fine, può essere ammessa o è già ammessa ad una misura alternativa alla detenzione, si deve lavorare per raccogliere quelle risorse che contribuiscono a fare operare processi di integrazione sociale. Tali risorse, talvolta, hanno propri ruoli istituzionali nell'ambito dei servizi pubblici (pensiamo ai servizi per le tossicodipendenze o per l'igiene mentale, nei casi caratterizzati da questi problemi), ma talvolta le risorse in questione possono riguardare il cosiddetto «privato sociale». Quasi sempre, inoltre, può essere presente la rete personale di riferimento dell'interessato: familiari, amici, organismi vari che si interessano di lui. Ovviamente c'è un protagonista di questo discorso ed è l'interessato medesimo, la sua motivazione a cogliere le occasione che gli vengono offerte.
      Il servizio sociale in questa operazione di creare «rete» dovrà agire, quindi, su tutti questi versanti. Raccogliere tutti questi fattori positivi ha quella valenza di sostegno che è indicata come caratteristica necessaria dell'intervento di servizio sociale, ma anche una indiretta valenza di controllo, in quanto la rete sociale tessuta intorno all'interessato lo aiuta a superare le sue criticità oggettive e soggettive.
      Va chiarito, come si indica nella norma in questione, che l'assistente sociale deve svolgere questo lavoro di «rete» sia nella fase di collaborazione con l'area educativa del carcere, per coloro che si trovano in detenzione, sia nella fase in cui si prepari la ammissione ad una misura alternativa per chi sia già in libertà o, infine, per chi sia già in misura alternativa, ammessovi dal carcere, o della libertà.
      Non si può trascurare un problema, che si è già rilevato in precedenza: quello della fase successiva alla conclusione delle misure alternative, segnata dalla cessazione di quelle attività di sostegno e di controllo che aiutavano la progressiva responsabilizzazione dell'interessato. Si tratta di una fase particolarmente delicata,

 

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nella quale il medesimo interessato torna ad essere pienamente libero della gestione di sé. Prevedere il mantenimento di una parziale partecipazione del servizio sociale a tale gestione non sembra possibile in quanto la esecuzione della pena è conclusa. Un aiuto può venire dalla rete sociale creata: se c'è e funziona, può essere efficace, sostenendo e non limitando la recuperata libertà del soggetto. Si è, però, previsto che l'interessato, liberamente, possa rivolgersi al centro di servizio sociale per adulti, per sei mesi dopo la conclusione della misura alternativa, chiedendo l'aiuto dello stesso per affrontare le eventuali difficoltà emergenti e stimolare il mantenimento di un efficace rapporto con la rete sociale.
            Al comma 5 dell'articolo 143 si prevede la istituzione del nuovo ruolo degli operatori di servizio sociale, i quali, complessivamente, hanno funzione di affiancamento degli assistenti sociali. Sulla necessità di questa nuova figura di operatore ci si era soffermati al numero 1 della relazione al capo in esame.
      Conviene fare cenno qui ad un'altra possibile risorsa cui possono fare ricorso i centri e che è logico riferire all'area del servizio sociale, anche se non è propriamente pertinente alla stessa. In tale senso, però, viene già una indicazione dal comma 3 dell'articolo 118 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230. Ci se ne occupa al comma 6 dell'articolo 143.
      Tale risorsa concerne un particolare problema, quello relativo alla presenza di una casistica critica delle misure alternative, per la quale il solo intervento di servizio sociale può non risultare sufficiente. Ci sono, infatti, persone in misura alternativa che presentano problemi francamente psichiatrici o problemi di personalità che consigliano interventi sul piano psicologico. Ora, in linea di massima, i centri si devono muovere nel contesto delle risorse organizzative del territorio in tali materie. Questa indicazione è tanto più forte in quanto si attivi e si faccia operare la rete sociale di cui si è parlato.
      Ciò non toglie che non può essere esclusa, nei casi che richiedono un intervento più intenso o in quelli in cui è più debole la risposta territoriale della rete sociale, la utilità della collaborazione di specialisti che agiscano direttamente per il centro. Al comma 6 dell'articolo 143 si prevede la possibilità o di stabilire un rapporto libero-convenzionale con un professionista o di avere la stabile disponibilità di quei professionisti, con la specificità professionale necessaria, che operano nell'area sanitaria o in quella degli esperti dell'osservazione e trattamento dell'istituto penitenziario posto nella stessa sede del centro. L'inserimento di tali professionisti presso il centro può avvenire o con il distacco presso lo stesso o con una vera e propria assegnazione al medesimo.

4. Area amministrativo-contabile.

      L'articolo 144 è dedicato a questa area, indispensabile, indubbiamente, per il funzionamento dei centri e tanto più al momento in cui si prevede il rafforzamento dell'autonomia dei centri con il programma annuale, che può essere il veicolo di varie azioni e interventi: organizzativi, progetti sulle attività da svolgere, ricerche, momenti formativi, eccetera.

C. Il capo VI: livelli superiori della organizzazione penitenziaria e formazione del personale.

      L'organizzazione penitenziaria trova i suoi livelli superiori:

          1) in sede regionale, nei provveditorati regionali della amministrazione penitenziaria;

          2) in sede nazionale, nel dipartimento della amministrazione penitenziaria.

      La parte della proposta di legge dedicata a tali organi è in sostanza una registrazione dell'esistente, con alcune specificazioni.

 

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1. I provveditorati regionali della amministrazione penitenziaria.

      Si sottolineano i punti essenziali contenuti nell'articolo 146.
      Il primo è quello del richiamo alla importanza che questo livello della organizzazione penitenziaria deve assumere, livello confermato dalla qualifica di direttori generali attribuita ai provveditori regionali, al pari di quella dei capi degli uffici generali centrali presso il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Tale importanza si può riassumere nella formula che gli istituti e i centri di servizio sociale per adulti di ogni regione fanno sistema e tale sistema trova la sua espressione nel provveditorato regionale. Si sottolinea, pertanto, nel comma 1, la esigenza che, in linea di massima, ogni territorio regionale debba avere gli istituti o sezioni di istituto, dei quali è prevista la presenza almeno regionale: come le sezioni per la osservazione psichiatrica in un istituto penitenziario (non negli ospedali psichiatrici giudiziari) o quella per i soggetti con gravi minorazioni fisiche che ne limitano la autosufficienza. La completezza del sistema degli istituti deve consentire, da un lato, di offrire risposte territorialmente corrette ai detenuti e agli internati e, dall'altro, di potere operare gli eventuali movimenti necessari restando nell'ambito dello stesso territorio regionale.
      In questo quadro si sviluppa una dinamica della gestione penitenziaria regionale. Al provveditorato regionale fanno capo e trovano le loro coordinazione e valutazione complessive i programmi annuali che si devono dare gli istituti. È il provveditorato regionale ad accoglierli e a trasmetterli al dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, accompagnati dalle proprie osservazioni.
      La organizzazione del provveditorato regionale è articolata e risponde attraverso la sua articolazione a quella propria degli istituti e dei centri di servizio sociale per adulti. Così si ritrovano presso il provveditorato le aree proprie del livello organizzativo di base.
      Le competenze sono indicate dalla legge, ma il decentramento, proprio della amministrazione statale, attribuisce ai provveditorati regionali un completo spazio di competenze, che ha, peraltro, come limite insuperabile l'ambito territoriale in cui l'attività si attua. Solo in caso di assenza di iniziativa e di intervento, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria potrà sostituirsi ad un provveditorato regionale inerte.

2. Il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.

      L'articolo 147 è dedicato al dipartimento della amministrazione penitenziaria.
      Nel comma 1 sono date le indicazioni relative alla scelta del capo del dipartimento e alla qualificazione dello stesso, che deve essere imperniata sul prestigio e sulla professionalità acquisiti nel settore penitenziario sia attraverso il suo servizio nell'ambito della amministrazione penitenziaria o nell'ambito della attività giudiziaria o in quello degli studi universitari.
      La funzione del capo del dipartimento è, in particolare, quella di indicare ogni anno le linee principali della attività penitenziaria, come dispone il comma 2.
      Comma 3: si conferma la attuale articolazione del dipartimento in direzioni generali, corrispondenti ai precedenti uffici centrali. Si indicano i settori che devono essere necessariamente rappresentati nelle direzioni generali, non escludendo quindi la possibilità che ne siano aggiunti altri. Sono menzionati, pertanto, i settori principali, fra i quali si inserisce anche quello degli studi e delle ricerche. Non si può che sottolineare qui la importanza di questo elemento dell'organizzazione. Per evitare che la stessa si burocratizzi nella ordinaria amministrazione, deve esserci la consapevolezza dell'importanza dell'analisi della situazione e delle prospettive di miglioramento e di maggiore efficacia nel raggiungimento dei fini che Costituzione e leggi danno alla amministrazione penitenziaria.

 

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      Altro servizio che deve trovare una propria struttura e organizzazione, anche se all'interno di un'altra direzione generale, è quello relativo alla edilizia penitenziaria. Tale servizio, anche attraverso le articolazioni presso i provveditorati regionali, deve seguire lo stato di un vastissimo patrimonio immobiliare, che ha un bisogno costante di manutenzione e di ammodernamento: questo al comma 4.
      Si è ritenuto necessario sottolineare nella proposta di legge, nell'apposito articolo 148, la necessità di utilizzazione costante e completa della Cassa delle ammende, la cui presidenza è affidata al capo del dipartimento. Questo organismo, la cui attività è rimasta bloccata per decenni per mancati adeguamenti normativi, deve riprendere una piena funzionalità e utilizzare le risorse di cui dispone in settori particolarmente importanti, come quelli della assistenza post-penitenziaria e alle famiglie dei detenuti e degli internati, nonché del soccorso alle vittime del delitto. Si tratta di interventi essenziali per una politica di inclusione e di reinserimento sociale da perseguire attraverso la esecuzione penale, intervenendo anche sulle conseguenze che i reati hanno prodotto nell'ambito sociale. Proprio per una maggiore efficacia della utilizzazione delle risorse si è prevista la distribuzione delle stesse, in parte considerevole, a livello di provveditorati regionali in base a progetti presentati dagli stessi. Anche questo per attuare interventi a livello territoriale e stimolare una attenzione e un impegno mancati per troppi anni in un settore di particolare importanza.

3. La formazione del personale.

      È stata più volte manifestata in questi anni una notevole insoddisfazione circa il tempo e le risorse dedicati alla formazione del personale e alle conseguenti insufficienze della medesima. Tale insoddisfazione è indubbiamente fondata sotto vari profili.
      Il problema riguarda in particolare, ma non soltanto, il personale di polizia penitenziaria e si può dire si manifesti in due aspetti: il tempo limitato dedicato alla formazione e le modalità della stessa. Sul primo aspetto c'è da dire che, in presenza di ricorrenti situazioni di emergenza, sono stati ridotti i periodi di formazione iniziale e quelli successivi, previsti dalla normativa sulla polizia penitenziaria. Sul secondo aspetto, il numero elevato del personale assunto in ogni occasione costringeva a corsi di formazione molto affollati e poco produttivi, che dovevano essere espletati nelle poche scuole di formazione esistenti, incongruamente distribuite sul territorio dello Stato.
      Questi aspetti erano aggravati - il discorso riguarda qui la sola polizia penitenziaria - dall'uso quasi costante delle procedure di assunzione, consistenti nel cosiddetto «reclutamento» di persone che effettuavano il servizio militare di leva o che lo avevano svolto in altre Forze di polizia, procedure che facevano venire meno la garanzia di formazione generale assicurata, ordinariamente, dal concorso pubblico, utilizzato in poche occasioni in quanto si agiva sempre, come già detto, in situazioni di emergenza, con tempi insufficienti per l'espletamento dei concorsi.
      Le criticità indicate dovrebbero venire meno con la rivisitazione generale della normativa sul personale operata con questa proposta di legge.
      Intanto, si è prevista la necessità del concorso pubblico, anche per il personale di polizia penitenziaria, per il quale erano state autorizzate le procedure di reclutamento. Si recupera, quindi, quella garanzia di formazione generale che tale forma di assunzione assicura.
      In secondo luogo, si sono previsti concorsi praticamente regionali (nell'ambito di ciascun provveditorato), che presentano l'indubbio vantaggio di evitare la concentrazione, fra gli assunti, di persone provenienti da poche aree territoriali e determinate a tornarvi, con il grave inconveniente della infelice distribuzione dello stesso personale, specialmente della polizia penitenziaria, sul territorio nazionale.
      In terzo luogo, in conseguenza di quanto detto, con riguardo sempre e particolarmente

 

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alla polizia penitenziaria, l'attività di formazione potrà interessare numeri ragionevoli e ridotti di partecipanti ai corsi, con risultati formativi decisamente migliori.
      Tutto ciò premesso, la formazione, che è stata già anticipata, deve avvenire, come la assunzione, in sede regionale con qualche ulteriore vantaggio.
      Pur non escludendo momenti di aggregazione pluriregionali o nazionali, lo svolgimento ordinario della formazione in sedi regionali presenta vantaggi pratici e di qualità formativa. I primi riguardano la vicinanza delle sedi formative ai luoghi di provenienza e anche a quelli di lavoro. Ma soprattutto questo assicura un rapporto stretto con la realtà degli istituti dove si deve operare e nei quali si dovrà svolgere parte della formazione e un rapporto analogo con il personale penitenziario che negli stessi istituti è attualmente impegnato. È chiaro che, ai corsi di formazione, parteciperanno anche docenti di formazione teorica, ma sarà anche dato spazio a quelli che portano l'attualità della loro esperienza direttamente dalle sedi di lavoro. All'opposto, va detto che la formazione impartita dalle scuole esistenti presenta il rischio di burocratizzazione del lavoro di formazione, con la conseguenza di fornire una preparazione più ideologica che realmente professionale.
      Queste indicazioni si esprimono nella normativa di carattere generale sulla formazione, che, ovviamente, non può non richiamare i contenuti indispensabili della stessa, che sono in primo luogo rappresentati dai princìpi costituzionali e da quelli dell'ordinamento penitenziario.

D. Il capo VII: assistenti volontari e cooperazione sociale.

1. Gli assistenti volontari.

      Agli articoli 150 e 151 della proposta di legge si parla degli assistenti volontari: all'articolo 150 a proposito della loro nomina, all'articolo 151 a proposito della loro attività.
      Conosciuta ed esistente anche prima della legge di riforma penitenziaria n. 354 del 1975, la figura dell'assistente volontario fu esplicitamente prevista e regolata dalla stessa legge all'articolo 78. Gli assistenti volontari hanno avuto, dopo l'entrata in vigore della legge n. 354 del 1975, una considerevole crescita nel numero e nel tipo di intervento. Essi si riconoscono anche in associazioni, che hanno fatto valere costantemente la visione di una attività penitenziaria in linea con gli indirizzi normativi. Non va dimenticato che il volontariato sostiene e stimola anche negli operatori professionali la motivazione a un lavoro che sia volto al recupero e alla riabilitazione.
      In una situazione di povertà organizzativa delle strutture penitenziarie, specie in particolari settori, la disponibilità del volontariato si è spinta talvolta anche a funzioni di supplenza di attività che sono proprie della amministrazione penitenziaria e che la stessa è però impotente a compiere. Se, come con la presente proposta di legge si intende fare, le carenze organizzative della amministrazione devono essere superate, dovrebbero venire meno le occasioni di supplenza da parte del volontariato.
      È parsa giusta la posizione di alcune organizzazioni di volontariato di non volere riparare a mancati interventi della amministrazione penitenziaria in aree particolarmente delicate. Comunque, lo spazio alla partecipazione del volontariato resta molto ampio. A prescindere da quello, più risalente nel tempo, ma ancora vivo, del sostegno morale alla persona, restano tutti i vari momenti di affiancamento alle attività trattamentali svolte negli istituti, intesi come collaborazione a ciò che viene fatto e non come supplenza per ciò che non viene fatto. In questi casi, si è voluto sottolineare che gli assistenti volontari devono partecipare alle attività di osservazione e di programmazione del trattamento relative alle persone con cui sono entrati in contatto. È opportuno ricordare che la particolare libertà di

 

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movimento nell'ambiente sociale del volontariato, fuori da ogni condizionamento burocratico, favorisce la definizione dei percorsi di reinserimento sociale dei detenuti e degli internati e può sostenerne lo sviluppo e la realizzazione.
      Il volontariato prevede anche l'intervento coordinato di più persone, utile per una serie di attività che guadagnano in continuità e in completezza nel non dipendere dall'apporto di una sola persona. Sono tali gli interventi con cui sono svolte attività ricreative e culturali o il sostegno o la preparazione di corsi scolastici che vengono o saranno svolti dagli organismi competenti.
      La proposta di legge registra e conferma una pratica molto diffusa, che è quella dell'accompagnamento di detenuti e di internati, da parte di volontari, durante i permessi e le licenze. Si chiarisce che l'accompagnatore non assume funzioni di custodia, che esulano, d'altronde, dalla situazione giuridica del detenuto o dell'internato, che, per il tempo della concessione, è libero. Il che nulla toglie alla utilità della presenza dell'accompagnatore, che rappresenta un sostegno e un riferimento per ricavare dal permesso o dalla licenza le utilità che possono fornire e per evitare situazioni e ambienti controindicati.
      Si sottolinea la gratuità della attività degli assistenti volontari.
      Si è anche ricordato e confermato che l'opera degli assistenti volontari si può svolgere anche nell'ambito dei centri di servizio sociale per adulti.
      Altro chiarimento contenuto nella proposta di legge riguarda il contatto con le famiglie dei reclusi, utile e necessario accanto a quello diretto con gli interessati. Si è solo previsto che ciò avvenga dandone notizia agli operatori penitenziari.

2. La cooperazione sociale.

      A questo tema è dedicato l'articolo 152 della proposta di legge.
      La cooperazione sociale rappresenta un interlocutore naturale del sistema penitenziario sotto due profili: quello di appartenere al mondo del non-profit e quello di agire anche attraverso realtà aziendali organizzate, che possono trovare negli istituti spazi e attrezzature, nel migliore dei casi sottoutilizzati e sovente non utilizzati affatto. Se pure non si vuole escludere la possibilità dell'intervento dell'impresa privata in carcere, le finalità di profitto di questa rappresentano un condizionamento che le cooperative sociali non devono presentare, pur dovendo tenere conto della economicità delle proprie iniziative.
      Le possibilità di impiego delle cooperative sociali negli istituti sono indicate nella proposta di legge e sono diverse: possono assumere la gestione dei vari servizi interni, possono rilanciare le lavorazioni interne ove vi siano od organizzarle se non vi siano, possono rendere realmente operative le colonie agricole e di lavoro all'aperto, allo stato abbastanza improduttive, nonostante le non irrisorie risorse economiche impiegate.
      La proposta di legge stabilisce che le convenzioni fra amministrazione penitenziaria e cooperative sociali individuano in queste un contraente preferito, con il quale si possono realizzare progetti senza ricorrere a gare di appalto aperte all'imprenditoria privata.
      Tale riconoscimento dovrebbe consentire l'avvio di realtà di lavoro all'interno degli istituti, oggi assolutamente insufficienti, quando non esistenti affatto.

Parte quarta. Relazione sul titolo IV sul reinserimento sociale.

Premessa.

      L'ordinamento penitenziario vigente riservava la sua attenzione, all'argomento di cui al titolo IV di questa parte, negli articoli 45 e 46, inseriti nel capo V del titolo I, denominato «Assistenza», e negli articoli da 72 a 78, nel capo III del titolo I, prima denominato «Servizio sociale e assistenza», e successivamente modificato dalla recentissima legge 27 luglio 2005, n. 154, in «Esecuzione penale esterna ed assistenza».

 

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      Si può osservare, intanto, che tale normativa restava ancorata ad una impostazione assistenziale dell'intervento, come le denominazioni usate confermano. Di più, quasi tutto il sistema pensato negli articoli da 73 a 77, che sembra tendere di più ad un inserimento sociale, non è più operativo dal 1978. La cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime del delitto è stata inserita fra gli enti inutili e soppressa con il decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977, che territorializzava il sistema dell'assistenza, la cui gestione era affidata agli enti locali, accompagnata dalla soppressione dei sistemi assistenziali di settore. Per la stessa ragione, anche se non soppressi, i consigli di aiuto sociale presso i tribunali ordinari, che avevano sostituito i consigli di patronato presso le procure della Repubblica, cessavano di essere operativi perché spogliati delle loro funzioni essenziali - assistenza economica alle famiglie dei detenuti e degli internati e assistenza postpenitenziaria - esplicitamente passate, dallo stesso decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977, agli enti locali.
      D'altronde, la cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime del delitto era in parte preponderante finanziata, ex articolo 73, settimo comma, con «le differenze fra mercede e remunerazione di cui all'articolo 23», differenze che sono state eliminate dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (legge Gozzini) e i consigli di aiuto sociale non potevano ormai ricevere che modesti contributi, sia per il venire meno delle loro funzioni essenziali, come detto, sia per il connesso venire meno dell'accesso ai finanziamenti della Cassa delle ammende, funzionante presso il dipartimento della amministrazione penitenziaria.
      Si deve dire, pertanto, che la normativa contenuta nel testo vigente della legge n. 354 del 1975 era limitata ad una prospettiva puramente assistenziale e, comunque, ha cessato da tempo di essere operativa.
      Due punti di riflessione e di intervento, quindi:

          A) la esigenza di una nuova impostazione che sostituisca alla prospettiva della assistenza quella del reinserimento sociale;

          B) la individuazione di nuovi strumenti di operatività, organizzativi ed economici, per la attuazione di tale prospettiva.
      Esaminiamo i punti indicati.
      A) Il senso principale della presente proposta di legge sta nel costante richiamo a quella finalità di rieducazione-risocializzazione-riabilitazione, affermata dall'articolo 27 della Costituzione e ribadita dalla giurisprudenza costituzionale in sentenze che sono state più volte richiamate.
      Di qui la riaffermazione della esecuzione della pena come la sede in cui si dà occasione al condannato di seguire in carcere un percorso riabilitativo e di preparazione all'inserimento esterno, che, nei tempi dovuti, si sviluppa logicamente e ordinariamente in una fase alternativa alla detenzione, durante la quale la persona è seguita e sostenuta nel suo reinserimento sociale.
      Dunque: il diritto alla osservazione e al trattamento riabilitativo individualizzato, il diritto al riesame dell'esito di tale trattamento, il diritto, in caso di esito positivo di tale riesame, al passaggio a forme di esecuzione alternative alla detenzione, che accompagnino e realizzino, se vi sia, la positiva partecipazione dell'interessato, il suo recupero di un corretto ruolo sociale. Il tutto si definisce come un percorso con le sue articolazioni in fasi distinte, ma unificate da una precisa finalizzazione.
      Per tale discorso il concetto della assistenza, svolto dalla normativa vigente, ma, comunque, non più operativo, si manifesta chiaramente limitato. Va colto, invece, il processo di reinserimento sociale nel suo sviluppo e, dovendo essere lo stesso un processo ordinario e necessario, ne vanno regolati e stimolati avvio, evoluzione e realizzazione. È apparso indispensabile dedicare a questo un apposito titolo della normativa.
      B) Questa nuova parte della normativa deve essere rivolta alla definizione concreta dei momenti organizzativi del processo descritto.

 

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      L'impegno di concretezza porta inevitabilmente ad articolare la proposta di legge in due parti distinte.
      La prima è quella dedicata al percorso di reinserimento sociale di ciascun condannato, alla ricostruzione delle operazioni e al coinvolgimento degli operatori, alla partecipazione dell'interessato, alla mobilitazione di organismi e di persone, alla ritessitura dei rapporti socio-familiari.
      La seconda propone il nodo della emergenza penitenziaria attuale, che si può sintetizzare così: al carcere come ultima ratio si è sostituito un carcere come strumento sostitutivo di risposte sociali che non sono state e non vengono date. Si deve acquisire, da un lato, la consapevolezza di questa dinamica e contrastarne lo sviluppo recuperando proprio gli interventi sociali che sono mancati.
      Vediamo di sviluppare l'analisi di quanto sinteticamente indicato ai punti A) e B). Quanto indicato al punto A) forma l'oggetto della sezione I. Quanto indicato al punto B) forma l'oggetto della sezione II.

Sezione I. Relazione sul capo I del titolo IV: interventi individualizzati per il reinserimento sociale.

A. Le linee generali.

      Riportiamoci a quanto è già stato posto in evidenza in precedenti parti di questa proposta di legge.
      Integrando l'articolo 13 del testo vigente, al comma 8 dell'articolo 18 della presente proposta di legge è stabilito che: «I detenuti e gli internati, per la attuazione della finalizzazione costituzionale delle pene e delle misure di sicurezza volte alla rieducazione e alla risocializzazione, hanno diritto allo svolgimento della osservazione e alla predisposizione e successiva realizzazione, in costanza della loro collaborazione, del programma di trattamento previsto dal presente articolo».
      Nell'articolo 15, il comma 2 del testo vigente è sostituito dal seguente, che diviene il comma 2 dell'articolo 20 della proposta di legge: «Per l'attuazione del programma di trattamento, ai sensi dell'articolo 18, i detenuti e gli internati hanno diritto a disporre degli elementi del trattamento di cui al comma 1. Gli istituti penitenziari devono essere organizzati al fine di rendere tali elementi concretamente disponibili per gli interessati».
      Siamo qui ancora nella fase, interna agli istituti, dell'avvio, della definizione e del primo sviluppo del programma di osservazione e trattamento, che diventa la prima parte del percorso riabilitativo per il reinserimento sociale. Ma passiamo all'articolo introduttivo della parte della proposta di legge dedicata alle misure alternative: è quello che ha assunto il numero 57. Il testo dell'articolo è costituito da citazioni letterali di sentenze costituzionali (salvi l'ultima proposizione del penultimo comma e tutto l'ultimo comma). Riportiamolo integralmente, rubrica e testo:

      «Art. 57. (Diritti dei condannati). 1. È riconosciuto, con riferimento all'articolo 27, terzo comma, della Costituzione, il diritto del condannato a che, verificandosi le condizioni poste dalla legge ordinaria, il protrarsi della realizzazione della pretesa punitiva venga riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo [sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 1974].
      2. Il sistema normativo deve tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma predisporre anche tutti i mezzi idonei a realizzarle e le forme atte a garantirle [sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 1974].
      3. Al fine di cui al comma 2 sono stabilite le misure alternative alla detenzione o di prova controllata che, attraverso prescrizioni limitative, ma non privative, della libertà personale e l'apprestamento di forme di sostegno, siano idonee a funzionare come strumenti di controllo sociale e di promozione alla risocializzazione [sentenza della Corte costituzionale n. 343 del 1987].

 

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      4. Il funzionamento del sistema previsto dal presente articolo deve essere assicurato attraverso la creazione e il mantenimento di una organizzazione adeguata a svolgere le funzioni di controllo e di assistenza indicate nel comma 3 [sentenza della Corte costituzionale n. 343 del 1987].
      5. Quando il giudice competente accerta che il condannato si trova nelle condizioni, legali e di merito, previste dalla legge, deve ritenere venuta meno la ragione della prosecuzione della pena detentiva e disporre che la stessa prosegua in misura alternativa [sentenza della Corte costituzionale n. 282 del 1989]. Tale misura rappresenta un intervento ordinario e necessario attraverso il quale la pena viene eseguita, anche nei casi in cui la legge ordinaria la prevede nei confronti di persone in stato di libertà.
      6. L'organo giudiziario competente agli interventi di cui al comma 5 è rappresentato dalla magistratura di sorveglianza. Alla magistratura è attribuita la funzione di assicurare una gestione dinamica della esecuzione della pena attraverso la utilizzazione degli strumenti ordinari previsti a tale scopo, rappresentati, prima, dalla promozione della redazione e della attuazione dei programmi di trattamento per la definizione dei percorsi di reinserimento sociale e dalla ammissione, poi, se ne ricorrono le condizioni, alle varie alternative alla detenzione. Tali strumenti tendono tutti alla risocializzazione dei condannati».

      Il percorso penitenziario, il suo svilupparsi, la sua finalizzazione, la reintegrazione sociale che si vuole favorire e realizzare nei confronti delle persone detenute o internate vengono bene messi in evidenza attraverso questi riferimenti a parti precedenti della proposta di legge. E vorremmo aggiungere che tutto questo non viene introdotto con gli interventi normativi che precedono, né con quelli che si introducono qui. Tali interventi sono invece la registrazione, attraverso la più esplicita garanzia legislativa, con copertura costituzionale, di situazioni e di processi già riconosciuti e utilizzati, anche se con una efficacia limitata, che può essere decisamente ampliata e migliorata con la copertura della legge.
      Si crede utile, a questo punto, la citazione di due altre sentenze della Corte costituzionale, che riconoscono la rilevanza dello svilupparsi del percorso penitenziario ai fini del riconoscimento della ammissibilità ai benefìci penitenziari dei condannati per delitti esclusi per gli stessi in forza del periodo iniziale del comma 1 dell'articolo 79 della proposta di legge (già articolo 4-bis vigente): due sentenze, quindi, su un aspetto specifico, che indicano però la rilevanza di un aspetto generale. Si tratta delle sentenze della Corte costituzionale n. 445 del 1997 e n. 137 del 1999, che dichiarano incostituzionale la inammissibilità dei condannati prima indicati e affermano che i benefìci penitenziari della semilibertà (prima sentenza) e dei permessi premio (seconda sentenza) possono essere concessi a coloro che, prima della data di entrata in vigore della normativa preclusiva, «abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata» (vedi dispositivi delle due sentenze). Sono riconosciuti, quindi, il percorso della rieducazione, la crescita dello stesso, la individuazione del livello raggiunto dal suo sviluppo e si riconosce a tutto questo la sostanza di una situazione acquisita, che la preclusione non può colpire se non operando una «ablazione» dello sviluppo potenziale già avviato: ablazione che le due sentenze considerano incostituzionale. E la lettura delle motivazioni delle due sentenze chiarisce che la «adeguatezza del grado di rieducazione» si ricava dal programma di trattamento e dalla fase cui lo sviluppo dello stesso era pervenuto. Così, per quanto riguarda la sentenza relativa alla semilibertà si dà rilievo alla dichiarata possibilità di ammettere il condannato al lavoro all'esterno, come prova del «grado di rieducazione» raggiunto.
      La nozione di percorso penitenziario coglie per il condannato una situazione in

 

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movimento, il contrario di quella situazione statica che può essere propria di molte ordinarie situazioni penitenziarie. Il dinamismo dei percorsi di rieducazione-risocializzazione-riabilitazione del condannato è una caratteristica essenziale, che evidentemente non si fa da sé. Va stimolata, indotta, costruita con la efficacia dell'intervento degli operatori. La indispensabile partecipazione del condannato non è un elemento acquisito in partenza. Ci può essere chi si orienta da subito in questa direzione e chi invece ha bisogno di vedere ciò che spesso non cerca e altrettanto spesso semplicemente non ha, e cioè prospettive, possibilità, risorse sociali e anche, sovente, volontà e fiducia di riuscire.
      Tutto questo lavoro riguarda la difficile «professionalità educativa» degli operatori, che, nella situazione di mancanza di risorse in cui gli stessi si sono mossi e tuttora si muovono, è stata spesso impedita. La presente proposta di legge prevede, come necessità urgente, l'apprestamento di quelle risorse, ma richiama anche l'attenzione sulla esigenza della rete sociale, che è stata richiamata e descritta come una sorta di alleanza di socializzazione fra i vari servizi e organismi pubblici e privati con i quali il lavoro degli operatori penitenziari si deve sviluppare.

B. Gli aspetti specifici dell'articolato.

      Al capo I del titolo IV, articoli da 153 a 159, ci si occupa delle modalità di intervento per i percorsi individuali di inserimento sociale.
      Nell'articolo 153 si definisce la progettazione del percorso di reinserimento sociale. Lo stesso conta sul concreto riconoscimento di quel diritto alla osservazione e al trattamento individualizzato, di cui parla l'articolo 13 della legge n. 354 del 1975. Riconoscimento concreto di quel diritto vuol dire molte cose, di cui si occupa il titolo I della proposta di legge. Vuol dire, intanto, che gli elementi del trattamento indicati nell'articolo 15 della legge n. 354 del 1975 - lavoro, istruzione, altre attività interne, agevolazione e miglioramento dei rapporti socio-familiari - devono essere realmente disponibili in modo da funzionalizzarli al percorso di reinserimento sociale individuato. Vuole dire anche che la progettazione del percorso deve individuare o concorrere a definire e reperire le risorse necessarie affinché il progetto si realizzi. Vuol dire, inoltre, che si deve tracciare e contribuire a realizzare il percorso giuridico che si avvia verso la ammissione alle misure alternative. Vuole dire, infine, che siamo dinanzi a un progetto flessibile, cui si accompagna una costante messa a punto in termini di concretezza e adeguatezza al caso.
       All'articolo 154 si indicano le risorse organizzative. Si tornano a ricordare anche quelle che appartengono alla rete sociale, di cui si è già parlato quando si sono esaminati, in questa relazione e nell'articolato, i problemi del personale dell'area educativa e dell'area del servizio sociale. Si chiarisce che una risorsa importante della rete è il volontariato.
      All'articolo 155 ci si sofferma sulle relazioni socio-familiari, che presentano aspetti diversi.
      Il primo è quello delle criticità familiari. Le stesse richiedono una attività di sostegno e di aiuto, che possa contribuire al superamento delle criticità e a fare diventare la famiglia una delle risorse significative della persona. Se la famiglia vuole l'inserimento sociale del condannato, è in grado di porre in essere un condizionamento, una spinta e anche un controllo, più capillari e più significativi di altri. Può accadere, purtroppo, anche il contrario. C'è, comunque, anche questo aspetto negli interventi per le famiglie, che sovente può servire a costruire la responsabilizzazione delle stesse, rispetto al familiare condannato, ma anche rispetto agli altri: si può pensare, in particolare, ai figli minori. È importante, ad ogni buon conto, superare le situazioni di conflitto fra il condannato e la propria famiglia, che sovente hanno caratterizzato la cornice del reato: pensiamo, ad esempio, a tutte le ipotesi di tossicodipendenza e di alcooldipendenza,

 

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che producono pesanti tensioni familiari.
      Il comma finale dell'articolo 155 disegna le potenzialità che ha l'intervento di risocializzazione della persona: in prima battuta, l'allargarsi a migliorare la situazione della sua famiglia, come già si è detto, ma, in seconda battuta, a denunciare la criticità di certe situazioni sociali, il degrado di quartieri, il disagio diffuso di realtà non solo cittadine. La denuncia di questo agli enti territoriali che hanno la competenza sugli interventi sociali da operare in certi contesti stimola l'intervento sulle situazioni individuali a diventare occasione di intervento collettivo, promozione della consapevolezza dei blocchi di socializzazione che si sono prodotti in parti della collettività e stimolo a provocarne il superamento. Disegno poco realistico o individuazione dei doveri centrali di una comunità? La risposta alla domanda nasce dalla scelta di una politica - o di una non politica - sociale.
      L'articolo 156 è dedicato allo svilupparsi del percorso di reinserimento sociale nella fase delle misure alternative: la fase, cioè, in cui la esecuzione della pena si colloca fuori dal carcere e nel contesto sociale. C'è ancora il riferimento ad operare con l'apporto di una rete sociale. C'è la indicazione della esigenza di riconoscere ruoli e competenze di certi servizi, come nel classico esempio di quelli relativi alle tossicodipendenze: la esecuzione penale non è quella che consente il migliore ed effettivo intervento di recupero sociale e pertanto non deve mettere la propria competenza al di sopra di quella di tali servizi, ma deve riconoscere ai medesimi lo spazio per agire con maggiore efficacia. Chiariamo con un esempio: l'andamento del programma terapeutico di un tossicodipendente deve essere valutato dal servizio specifico che lo segue. Sarebbe un errore che si sovrapponesse la valutazione del giudice. Ancora più concretamente: è noto che il percorso di superamento della dipendenza psicologica, la più complessa e difficile, non è rettilineo e privo di incertezze. È il servizio delle dipendenze che è però in grado di valutare se, anche attraverso i momenti critici, il programma si sviluppa in direzione positiva. Se il giudice volesse fare valere la sua valutazione delle criticità e coglierle come violazioni delle prescrizioni, impedirebbe al programma terapeutico stesso di raggiungere, attraverso i suoi momenti di criticità, la propria possibile conclusione positiva.
      Non è senza significato l'ultimo comma dell'articolo 156. La esecuzione della pena ha la sua durata e l'intervento specifico ricollegato alla stessa non può non concludersi con la fine della stessa. Ma il processo di reinserimento sociale, che ha visto una rete sociale affiancare i servizi penitenziari, non deve essere abbandonato se non si sia ancora concluso e consolidato. Si tratta, in sostanza, di prendere atto che questo sostegno alla socializzazione, che è stimolato e che si svolge dentro la esecuzione della pena, è una fase di un «continuum» di attenzione sociale che deve essere riservato a tutte le situazioni di degrado e di criticità dei processi di socializzazione affinché si arrestino le dinamiche di esclusione sociale e si producano nuovamente quelle di inclusione e reinserimento sociale, con effetti benefici sulle situazioni individuali e su quelle collettive.
      L'articolo 157 è dedicato alla situazione di chi è ammesso dalla libertà alle misure alternative alla pena detentiva inflitta. Si traduce qui in articolazione normativa quanto si era osservato all'inizio della parte II, sezione I. La legge Simeone-Fassone-Saraceni, modificando l'articolo 656 del codice di procedura penale, ha stabilito una situazione di eguaglianza nei confronti di tutti coloro che hanno da eseguire una pena non superiore a tre anni o a quattro anni, se tossicodipendenti o alcooldipendenti, anche se residuo di una pena maggiore.
      Si è osservato che tale eguaglianza resta formale e non esclude la disuguaglianza sostanziale di fronte alla esecuzione della pena di chi è privo di quelle che complessivamente si possono chiamare risorse sociali. Nell'articolo 158 si cerca di mettere in movimento una rete sociale di aiuto per coloro che mancano di quelle
 

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risorse al fine di consentire che essi partecipino di una modalità di esecuzione della pena diversa dal carcere, modalità che può essere, fra l'altro, per loro, l'occasione di acquisire quelle risorse sociali di cui mancavano.

C. Lo studio e la ricerca in materia penitenziaria.

      Si viene all'articolo 159.
      Si può discutere sulla opportunità di inserire in questa parte dell'articolato una norma che favorisce gli studi e le ricerche in materia penitenziaria. È parso, però, che questo fosse il punto strategicamente migliore.
      L'idea di fondo della presente proposta di legge è quella di dare corpo ad una esecuzione della pena conforme alle indicazioni costituzionali riepilogate nel citato articolo 57 della proposta di legge e di regolare normativamente una organizzazione adeguata ad applicare quelle indicazioni: non si può che rinviare al testo della norma indicata (vedi anche qui sopra al numero 1 di questa sezione) e alle sentenze della Corte costituzionale n. 204 del 1974, n. 343 del 1987 e n. 282 del 1989.
      Tanto premesso, è indispensabile una intensa attività di ricerca che valga a dare le indicazioni opportune circa le incompletezze e le inefficacie del sistema per favorirne la messa a punto e anche per avere le conferme o meno dei ritorni positivi di una esecuzione penale diversa.
      Le ricerche in questione, pertanto, non devono essere volte alla descrizione dei reati e dei loro autori, cioè alla costruzione di tipi di reato e di tipologie di autori (si possono ricordare le riserve di sentenze della Corte costituzionale - si ricorda, fra tutte, la n. 306 del 1993 - che mettono in guardia dal ricollegare effetti normativi a tali costruzioni), come è proprio di alcune ricerche criminologiche. Come tutte le ricerche definitorie, le stesse colgono la statica dei reati e dei loro autori e di conseguenza giustificano una statica delle pene e della loro esecuzione. Le ricerche cui si riferisce l'articolo 159 fanno invece riferimento alla produzione, attraverso la esecuzione penale, di percorsi riabilitativi e di reinserimento sociale nella fase carceraria, prima, e in quella delle misure alternative, poi, e mettono così in luce e verificano la efficacia o la debolezza di quella che si è descritta come la politica penitenziaria, efficacia e debolezza valutate in riferimento alla Costituzione e alla presente proposta di legge. In sostanza, si tratta di riflettere su una visione dell'intervento possibile in una specifica area del disagio sociale e della sofferenza umana in modo da cercare di modificare le criticità e di recuperare le persone ad un rapporto accettabile fra loro e il resto della comunità. Riflessioni del genere hanno interessato altre aree del disagio e delle sofferenze sociali e umane, come quelle della malattia mentale o della demotivazione sociale delle dipendenze da sostanze, riproponendo sempre questa scelta fra risposta statica e di esclusione e risposta dinamica e modificativa di ricerca della inclusione nella comunità.
      In tale senso questa, come si è detto, è la sede strategicamente migliore per inquadrare la necessaria attività di studio e di ricerca nel nostro settore.

Sezione II. Relazione sui capi II e III del titolo IV: gli interventi collettivi relativi a gruppi di persone in condizioni particolari.

A. I processi attuali di carcerazione.

      Il discorso che si sviluppa qui era stato proposto nella parte conclusiva della premessa a questo titolo IV. Si era indicato il nodo della emergenza penitenziaria attuale, che si era sintetizzato così: al carcere come ultima ratio si è sostituito un carcere come strumento sostitutivo di risposte sociali che non sono state e non vengono date. Si era concluso che si deve acquisire, da un lato, la consapevolezza di questa dinamica e contrastarne lo sviluppo

 

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recuperando proprio gli interventi sociali che sono mancati.
      E allora vediamo di descrivere l'attuale emergenza penitenziaria, partendo dalla sua quantificazione. Articoliamo il discorso in vari punti.

      A. C'è un'area della popolazione detenuta che raccoglie persone caratterizzate generalmente da situazioni di criticità sociale. Comprende:

          l'area della tossicodipendenza, che è stimata nel 27 per cento del totale dei reclusi, dato probabilmente inferiore al reale nella totale mancanza di indirizzi generali per la rilevazione;

          l'area della immigrazione, stimata ormai nel 30 per cento del totale dei detenuti;

          una ulteriore area del disagio sociale di vario genere, che può arrivare all'8-10 per cento, in mancanza di stime precise, nella quale si possono considerare i dipendenti dall'alcool, i soggetti con problemi psichiatrici, i «senza fissa dimora».

      Si parla, quindi, di un'area del 65-67 per cento, pari ai 2/3 della intera popolazione detenuta: 40.000 persone sulle 60.000 circa, oggi negli istituti penitenziari.

      B. Si crede di dovere dire, senza temere di essere smentiti, che l'aumento di questa area della popolazione detenuta è quello che determina l'aumento complessivo dell'area della detenzione. È pacifico, infatti, che i processi di ricarcerazione in atto, in primo luogo negli USA e anche nel Regno Unito, diffusi ormai in tutta Europa, sono il quadro nel quale si è manifestato anche il processo di ricarcerazione nel nostro Paese: 10.000 detenuti in più negli ultimi cinque anni. Ed è proprio l'area della detenzione sociale quella a cui quei processi di ricarcerazione si riferiscono.
      Ovvia la conclusione, che riprenderemo in seguito: se si vogliono operare un contenimento e una riduzione dell'area della detenzione complessiva, bisogna agire proprio sui processi di ricarcerazione dell'area che abbiamo ora analizzato.

      C. Si crede pertinente chiamare questa parte della popolazione detenuta: area della «detenzione sociale», termine il cui uso si sta diffondendo.
      Perché «detenzione sociale»? Perché appartengono a tale area gruppi di detenuti numericamente elevati, che hanno alle spalle situazioni di partenza di disagio sociale o situazioni di sviluppo del disagio per la mancanza o per l'insufficienza di un significativo intervento sullo stesso.
      Questo è vero, parlando dei singoli gruppi, per l'area della dipendenza dagli stupefacenti, che parte, sovente, da situazioni socio-familiari critiche e, anche se queste non vi sono, le realizza ben presto proprio per il genere di vita indotto dalla dipendenza. Avviatosi questo processo, mancano spesso sistemi di intervento adeguati a molta parte dei casi e, comunque, il modesto dimensionamento dei servizi non riesce a raggiungere o a raggiungere efficacemente molta parte della possibile utenza. È pacifico che questa è sovente poco collaborativa, ma la limitata dimensione dei servizi sarà inevitabilmente incapace di stimolare gli indifferenti e, spesso, di rispondere adeguatamente anche a coloro che cercano il loro sostegno.
      Questo è vero anche per l'area della immigrazione, posta, data la legislazione vigente, in una situazione di esclusione sociale, che porta alla clandestinità e che solo quando la situazione è assolutamente ingestibile accetta una permanenza temporanea legata alla temporanea utilizzazione delle persone. Si parte da un rifiuto di socializzazione per arrivare, solo eccezionalmente e in tempi non prevedibili, ad una socializzazione sub condicione.
      Non meno vera è l'analisi fatta per quelle situazioni diversamente problematiche che abbiamo indicato, che, più o meno sistematicamente, derivano da una mancata presa in carico delle criticità originarie, cui segue una situazione di abbandono sociale più o meno completo.
      In tutte queste situazioni non si può affermare che l'approdo al reato sia inevitabile e che, invece, sia possibile che lo stesso derivi da consapevoli scelte delinquenziali. Ma è indubbio che, nel numero

 

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elevatissimo di coloro che appartengono a questa area del carcere, la gran parte delle persone arrivano al reato e vi ritornano proprio perché l'attenzione sociale nei loro confronti è mancante o insufficiente o assume, come per gli immigrati, l'atteggiamento del rifiuto.
      Parlare di detenzione sociale per questa area è dunque pertinente.

      D. Il nodo che spiega la crescita della detenzione sociale è rappresentato da un atteggiamento che ha due facce strettamente connesse. Le due facce sono: la intolleranza per le manifestazioni del disagio sociale, fino alla cosiddetta «tolleranza zero»; e il complementare abbandono o la sensibile riduzione delle politiche di intervento e di sostegno al disagio stesso.
      Le politiche di sicurezza sociale cercavano il benessere generale e avvertivano la esigenza di recuperare le aree e i gruppi in situazioni di criticità. Le politiche della sicurezza finalizzata al miglioramento del livello di benessere generale hanno ceduto il campo alle politiche di una sicurezza difensiva, interessata a proteggere gli interessi delle persone garantite dalle ricadute del disagio dei non garantiti.
      Si forma una correlazione: più intolleranza, meno aiuto e sicurezza sociale, più sicurezza difensiva e intervento punitivo.

      E. Si coglie questo processo con la espressione: dallo Stato sociale allo Stato penale, sintesi operata da molti studiosi che hanno colto gli aspetti negativi di quanto sta accadendo.
      E, infatti, la risposta penale colpisce le criticità umane, opera sulle aree della precarietà sociale, come un chirurgo che taglia via (ovvero sposta in carcere) le parti malate. Negli USA questa politica è ormai una scelta consapevole, da cui è derivata, nel giro di poco più di venti anni, la decuplicazione della popolazione penitenziaria.
      In questo processo va colto un aspetto: che lo strumento penale, carcere in prima linea, viene utilizzato come strumento sociale: per risolvere o, meglio, per soffocare le criticità sociali o, meglio ancora, per separarle dalla società e sequestrarle in carcere. A monte c'è il rifiuto dell'intervento sociale sulle aree sociali precarizzate. Queste contribuiscono con le loro manifestazioni - inevitabili in presenza del rifiuto di gestirle e possibilmente superarle - ad aumentare l'insicurezza o la percezione della stessa e l'unica rassicurazione sarà quella più semplice: la punizione e la carcerazione dei disturbatori.
      È evidente quello che si è detto: lo strumento penale, e specialmente il carcere, è usato come strumento sociale, come organo di gestione, cioè, di una situazione sociale critica.
      Con una certa enfasi si parla così del carcere come «discarica sociale»: un'enfasi, tutto sommato, realistica in quanto aree intere della precarietà, soprattutto urbana, sono gettate in un contenitore particolare come il carcere, che, specie se gestito con questa funzione, soffoca ogni possibile vocazione sociale.

      F. Il carcere cresce perché cresce questa detenzione sociale. L'impegno deve essere: depenalizzare e, là dove non è possibile, scarcerare la detenzione sociale o almeno parte considerevole della stessa.
      Date le sue dimensioni, una riduzione del 10 per cento della detenzione sociale riduce il numero dei detenuti di circa 4.000 persone; una riduzione del 30 per cento riduce il numero dei detenuti di circa 12.000 persone, una riduzione del 50 per cento riduce il numero dei detenuti di circa 20.000 persone.
      È agevole una considerazione. La riduzione o la eliminazione del sovraffollamento comporta un recupero di funzionalità dello stesso carcere, che soffoca sotto la pressione di questa dinamica di crescita. Il sovraffollamento in sé diviene maltrattamento nei confronti dei reclusi e specialmente se lo stesso è vissuto in modo protratto nelle celle (20 ore su 24 come si è detto e ripetuto). Ma il sovraffollamento è anche causa di affanno, quando non di paralisi, di ogni servizio degli istituti. Quindi: ogni intervento deflattivo della popolazione detenuta migliora, ad un tempo, le condizioni di vita dei reclusi e la funzionalità dei servizi.

 

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      Conclusione. Come operare la riduzione dell'area della detenzione sociale? Di seguito sono elencati i passaggi essenziali.

B. L'articolazione degli interventi per la riduzione dell'area della detenzione sociale.

      La riflessione si deve fermare sui punti che seguono.
      Primo. Si tratta di ridurre l'area della penalità concernente la detenzione sociale, il che comporta un intervento su due piani:

          a) riduzione delle ipotesi di incriminazione sia attraverso la depenalizzazione, sia attraverso forme di non incriminazione individualizzata;

          b) riduzione delle pene previste, ricordando che la maggiore durata delle pene comporta maggiore presenza giornaliera di detenuti in carcere.

      Secondo. Scarcerare la detenzione sociale. Il che vuol dire accrescere la utilizzazione delle alternative alla detenzione, allo stato ancora modesta, con una incentivazione degli strumenti normativi e con il potenziamento delle risorse organizzative ed economiche e delle risorse di accoglienza sociale.
      Terzo. Per realizzare questo occorre riportare la casistica della detenzione sociale nell'ambito sociale che è proprio della stessa: il che deve avvenire con il recupero pieno della risposta della sicurezza sociale in luogo della sicurezza penale. Tanto più cresceranno, come accennato al punto secondo, i mezzi organizzativi e le concrete risorse del sistema sociale, tanto più potrà ridursi l'indebita invasione penale: diventeranno, cioè, maggiormente praticabili l'area della penalità e quella della carcerazione.
      Esaminiamo questi punti alle seguenti sezioni 1, 2 e 3.

1. La riduzione della penalità.

      Analizziamo la realizzazione di questo punto in ordine ai grandi gruppi di detenuti che compongono la detenzione sociale, ricordando che la riduzione della penalità riduce anche i processi di incriminazione e ha quindi un effetto limitativo sulla grandezza dell'area della detenzione.

Tossicodipendenti.

      In occasione della Conferenza sulle tossicodipendenze di Napoli (1997) furono date delle indicazioni generali, attraverso le quali, anche in relazione all'esito referendario del 1993, che aveva escluso la punibilità dell'uso personale e della detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti, si poteva ridimensionare la entità dell'intervento penale disposto dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, sugli stupefacenti e sostanze psicotrope.
      Dopo la Conferenza fu istituita una commissione apposita, presieduta da Giuseppe La Greca, che concluse i suoi lavori con una relazione e un articolato. Questo è stato ripreso e integrato in una proposta di legge presentata il 24 luglio 2003 dagli onorevoli Boato, Turco, Ruggeri ed altri, appartenenti a vari gruppi politici, i cui punti principali sono i seguenti:

          1) la esclusione della punibilità dell'uso personale e della detenzione per uso personale delle sostanze;

          2) la riduzione generale delle pene previste dal citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990;

          3) la ulteriore riduzione delle pene nei confronti degli autori di fatti punibili che risultano tossicodipendenti;

          4) la previsione per i tossicodipendenti autori di reato di istituti speciali di non incriminazione individualizzata: sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto e provvedimento di sospensione del procedimento penale con messa alla prova, cui seguirà, se l'esito

 

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della prova è positivo, la dichiarazione di estinzione del reato.

      Nel progetto di legge è anche presente un intervento sulle misure alternative alla detenzione, che esamineremo, però, successivamente.
      Va precisato che sia nelle ipotesi di non incriminazione individualizzata, sia in quelle di misure alternative, l'intervento di depenalizzazione o di decarcerazione è sempre finalizzato allo svolgimento di programmi terapeutici di recupero dalla tossicodipendenza. La pena detentiva, quindi, non viene inflitta o, se inflitta, non viene eseguita, sempre in funzione dello svolgimento di un intervento sociale: al problema sociale non si risponde con il carcere, ma con l'intervento sociale.
      Ecco, dunque, per un gruppo rilevante della detenzione sociale, una risposta possibile attraverso le modifiche normative indicate. Nel frattempo, però, viene presentato, dal Ministro Fini ed altri, un disegno di legge governativo, di segno del tutto opposto, basato sulla convinzione, tutta ideologica e contraria alle evidenze sperimentali, che la punizione, anche dell'uso personale, e il carcere siano una risposta pertinente al disagio sociale del tossicodipendente. Si torna a confidare che la pena e il carcere siano risposte convenienti ad una criticità sociale. Il che non potrà che avere un ritorno di ulteriore e incontrollabile aumento della detenzione sociale. Non ci si fa che muovere in una direzione opposta a quella che si sviluppa nella presente proposta di legge.

Immigrati.

      Partiamo da una considerazione. L'immigrazione è una risorsa per il nostro Paese, come per tutti gli altri che appartengono al «primo mondo». Si tratta non di una espressione di buoni sentimenti, che spesso la accompagnano, ma di una constatazione di buone ragioni. È noto che tutto il settore della collaborazione e della assistenza domestica, delle lavorazioni agricole, stagionali e non stagionali, dell'edilizia e di molti altri settori produttivi ha necessità di questi lavoratori. Essi ci servono. Si tratta di un'ottica egoista, che dovrebbe essere sostituita da un'ottica diversa, quella della accoglienza. Ma restiamo pure all'ottica egoista.
      I sistemi seguiti, sia quello delle quote di persone ammissibili, sia quello attuale del rigoroso rapporto fra inserimento lavorativo previamente disponibile ed accertato e rilascio del permesso di soggiorno, sono serviti soltanto a produrre clandestinità e lavoro sommerso. Il primo è un incoraggiamento ad una vita di espedienti che può sfociare nel reato. Il secondo è un danno per gli immigrati, ma anche per il nostro sistema previdenziale e fiscale.
      Il risultato è che ricorrentemente si passa a interventi eccezionali di regolarizzazione. Interventi che sono inevitabili. L'ultima regolarizzazione operata nel nostro Paese, che ha interessato quasi 700.000 persone, è stata realizzata in corrispondenza di una legge di restrizione agli ingressi e di potenziamento delle espulsioni. È singolare che, nel momento in cui si voleva ridurre il fenomeno, si sia operata una regolarizzazione che risulterebbe essere la più ampia mai realizzata in Europa. Anche se si tratta di una riduzione modesta rispetto a quella che si prepara o è in atto negli USA per alcuni milioni di messicani, da tempo presenti in quel Paese: da notizie giornalistiche, si fa strada la convinzione che un sistema di liberazione degli accessi consenta un migliore controllo e, indirettamente, un maggiore contenimento del fenomeno. La morale è che, quando si vuole comprimere un fenomeno non arrestabile (si insiste su questo: non arrestabile), si arriva poi ad un momento in cui si deve riconoscere proprio la realtà che ha forzato le regole restrittive.
      I sistemi da noi usati, con precise finalità di contenimento, esasperate nella vigente legge Bossi-Fini, non sono gli unici possibili, come dimostrano i sistemi diversi operati in altri Paesi europei, non finalizzati alla opposizione o ad un rigido filtro all'ingresso.

 

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      Dobbiamo anche essere consapevoli della provvisorietà di qualsiasi sistema in questa materia. Le normative sono tipicamente provvisorie e si possono manifestare soluzioni per altre vie. A questo riguardo, è facile rilevare che l'entrata nell'Unione europea di molti Paesi dell'Europa orientale farà venire meno la esigenza del permesso di soggiorno, cosa che invece pare non essere, per ora, avvenuta per una scelta amministrativa, non si sa quanto legittima, a dimostrazione che l'entrata e la permanenza irregolare nel nostro Paese sono solo il frutto di una determinata politica ideologica verso l'immigrazione, talvolta neppure derivante da scelte legislative. Si può osservare che, se questi sistemi sono inevitabilmente provvisori, dovrebbero essere meno rigidi e oppositivi possibile.
      Manca per ora una concreta proposta di una diversa legislazione sulla immigrazione. Anche qui si tratta di un problema sociale: quello di prendere atto, da un lato, che abbiamo bisogno di queste persone, e dall'altro, che occorrono strumenti sociali di accoglienza, in grado di aiutarne l'inserimento sociale e sostenerne i momenti di precarietà. Fra l'altro, non è che questi strumenti siano del tutto assenti. Esistono molte iniziative importanti, specialmente del cosiddetto «terzo settore», condannate anch'esse ad agire in semiclandestinità, come accade per le persone assistite.
      Cogliamo anche qui l'assoluta mancanza di pertinenza di rispondere con il sistema della pena o con quello delle espulsioni ad un problema sociale che è, al tempo stesso, nostro e loro: noi abbiamo bisogno del loro aiuto e loro sono pronti a darcelo. Se si vuole, si tratta di prendere atto che il problema è di fare incontrare domanda e offerta, fornendo strumenti sociali utili ad evitare il prodursi di criticità maggiori di quelle sulle quali si vuole intervenire.
      È singolare il problema posto recentemente presso alcuni uffici di polizia: che gli interventi di intercettazione degli irregolari e della loro espulsione stanno assorbendo buona parte del lavoro del personale di polizia, che deve rallentare il vero e proprio lavoro di contrasto alla criminalità.
      Tiriamo una conclusione. Il sistema attuale del nostro Paese verso l'immigrazione è inaccettabile. Esso produce clandestinità e questa, da una parte, porta a criminalizzare ciò che non è criminale, come la semplice permanenza in Italia, o a situazioni di precarietà che si esprimono anche in atti di criminalità; dall'altra parte, favorisce un mercato del lavoro sommerso che, oltre ad essere ingiusto ed illegale, sottrae risorse ai nostri sistemi previdenziale e fiscale. Questo meccanismo va evitato. Vanno favoriti tutti gli interventi operati sul piano sociale e da quelle che sono le varie organizzazione di solidarietà e da iniziative di socialità pubblica, che possono anche utilizzare questa particolare forza lavoro per iniziative socialmente utili. La espulsione deve essere uno strumento eccezionale e non ordinario e non può essere utilizzato contro chi, anche avendo sbagliato, dimostra, poi, di essere capace di integrazione.
      Ma, in conclusione, il ricorso allo strumento penale dinanzi ad un rilevante problema sociale è da abbandonare costruendo un intervento diverso.

Altre criticità.

      Questa parte della detenzione sociale si riferisce a persone che presentano gravi problemi di socializzazione: persone con problemi psichiatrici, dipendenti da alcool, «barboni» o senza fissa dimora. Non rappresentano casi isolati ed eccezionali in carcere, ma rientrano nelle storie di ordinaria follia (non si sa se degli interessati o di chi ve li invia) che il carcere intercetta sempre più frequentemente
      Per costoro, la via più semplice sarebbe quella di un ricorso alle misure alternative alla detenzione, quale strumento di un adeguato intervento sociale. Il carcere sembra, in effetti, non pertinente a tale casistica.
      Ci si potrebbe chiedere, quindi, se non sarebbe adeguato, anche nei confronti di queste persone, il ricorso agli istituti di

 

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non incriminazione individualizzata, previsti nella proposta di legge dell'onorevole Boato ed altri per i tossicodipendenti, prima ricordata. Questo problema potrebbe essere affrontato attraverso emendamenti a tale proposta legislativa. Intanto, si può ricordare che, all'articolo 59 della presente proposta di legge, si è inserita la previsione di un affidamento in prova al servizio sociale per i casi di disagio psichico e sociale, che riprende in questo settore le misure alternative specifiche per tossico e alcooldipendenti.
      Questa materia può anche comprendere un altro intervento di carattere penale: quello che riguarda le persone socialmente pericolose sottoposte a misure di sicurezza detentive. Si tratta di circa 1.500 persone, pari, quindi, a circa il 2,8 per cento della popolazione detenuta.
      Va detto che le misure di sicurezza sono state introdotte con il codice penale del 1930 e che i vari progetti di legge delega per un nuovo codice penale, mai divenuti concreto disegno di legge, prevedono la soppressione delle medesime, salvo quelle relative agli infermi di mente autori di reato.
      Nella passata legislatura è stata presentata una proposta di legge, a firma onorevole Corleone ed altri, che prevedeva una soluzione radicale, che passava attraverso la soppressione della non imputabilità, l'abolizione del proscioglimento per vizio totale di mente e la responsabilità penale degli autori di reato, l'abolizione conseguente di tutte le misure di sicurezza. È possibile che la radicalità di tale progetto di legge rispetto a punti fondamentali del diritto penale, come quello dell'imputabilità, lo renda di difficile praticabilità.
      Ma, per gli affetti da vizio totale di mente autori di reato, la regione Toscana, sempre nella passata legislatura, presentò, ai sensi dell'articolo 121 della Costituzione, una autonoma proposta di legge, che aboliva la misura di sicurezza della casa di cura e custodia per i seminfermi di mente e conservava, per gli infermi di mente autori di reato, una figura di misura di sicurezza, che potremmo chiamare «sociale», gestita dal servizio psichiatrico pubblico con due soluzioni diverse: una con internamento e l'altra senza internamento. La proposta di legge regolava anche altre materie connesse. Il Ministero della giustizia, nella fase finale della legislatura precedente, ha messo a punto un disegno di legge, che però non è stato presentato, nel quale si riprendevano, con il diverso sistema della modifica delle singole norme del codice penale, le indicazioni del progetto di legge della regione Toscana e si sopprimevano anche le misure di sicurezza detentive diverse (oltre alla casa di cura e custodia, anche la colonia agricola e la casa di lavoro).
      Il settore delle misure di sicurezza, che impegna varie strutture e vario personale, dovrebbe rientrare tra quelli ai quali coordinare l'intervento penitenziario che si ridisegna in questa proposta di legge. L'abolizione di una parte significativa delle misure e la conservazione, con gestione socio-sanitaria pubblica, della sola misura relativa agli autori di reato prosciolti per vizio totale di mente potrebbe utilizzare le tracce di lavoro dei progetti di legge citati, anche qui nella linea di una riduzione della penalità.
      Un'ultima annotazione: tali linee sono quelle che informano una sentenza della Corte costituzionale, la n. 253 del 2003, secondo la quale è incostituzionale la previsione di un'unica misura di sicurezza chiusa, come l'ospedale psichiatrico giudiziario, per i prosciolti per vizio totale di mente; ma deve essere possibile anche una risposta ambulatoriale attraverso un regime, quale quello della libertà vigilata, accompagnato dalla prescrizione dello stabile rapporto con il servizio psichiatrico pubblico.

2. La scarcerazione della detenzione sociale.

      La riduzione dell'area della penalità è essenziale, ma altrettanto importante, ancora più attuale e con la possibilità di effetti più rapidi, è la riduzione dell'area della carcerazione. L'impegno immediato,

 

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infatti, deve essere quello di scarcerare la detenzione sociale, anche con la legislazione vigente.
      Nella riflessione sulla scarcerazione dell'area della detenzione sociale bisogna fare una prima distinzione fra: la parte che è interessata dalla esecuzione della pena e delle misure di sicurezza e la parte che è interessata dalla custodia cautelare.
      Come è noto, infatti, l'area complessiva della detenzione si ripartisce fra detenuti e internati in una situazione giuridica definitiva e persone in custodia cautelare (c'è anche un modestissimo numero di soggetti in misura di sicurezza provvisoria) in una proporzione del 55 per cento dei primi e 45 per cento delle seconde. Se noi applichiamo queste percentuali all'area della detenzione sociale (calcolata in circa 40.000 soggetti), abbiamo circa 22.000 soggetti definitivi e circa 18.000 soggetti giudicabili.
      I problemi per questi due gruppi si presentano diversi. Affrontiamo per primi i problemi dei soggetti definitivi. Le riflessioni su questi renderanno più agevole l'esame dei problemi dei soggetti giudicabili.

Persone in esecuzione pena o in misura di sicurezza detentiva.

      Al riguardo, il discorso si può articolare sui seguenti punti.
      Primo punto: è quello della migliore efficienza del sistema normativo di misure alternative alla detenzione.
      Questa preoccupazione è presente, per i tossicodipendenti, nella proposta di legge già ricordata dagli onorevoli Boato, Turco, Ruggeri ed altri, nella quale:

          a) si sostituisce la misura alternativa della sospensione della esecuzione della pena detentiva, prevista dall'articolo 90 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, con una ipotesi di affidamento in prova per coloro che hanno commesso i reati in relazione al loro stato di tossicodipendenza e che hanno già svolto e concluso positivamente un programma terapeutico per il superamento della loro condizione. In tale caso è oggi applicabile la sospensione della esecuzione, misura, però, di scarsissima applicazione in quanto manca di un organo di gestione sul versante dell'aiuto e su quello del controllo;

          b) si inserisce, nell'affidamento in prova in casi particolari previsti dall'articolo 94 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, la previsione della competenza alla presa in carico degli stranieri, apolidi e senza fissa dimora, stabilita in capo al Servizio sanitario nazionale nel cui territorio si trova la persona;

          c) si introduce il nuovo articolo 94-bis del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, nel quale, per i condannati ad una pena superiore a quella prevista dalle norme indicate (superiore, quindi, a quattro anni) si istituisce una nuova misura di sicurezza alternativa, denominata «programma di reintegrazione sociale» nell'ambito del programma terapeutico e riabilitativo.

      Per gli immigrati devono essere superate le incertezze che condizionano molti operatori sulla ammissibilità degli stessi alle misure alternative. È pacifico, per lo stesso Ministero dell'interno, che emise una circolare in proposito, che, in presenza di una pena in esecuzione, in semilibertà o di lavoro all'esterno o nelle misure alternative dell'affidamento in prova o della detenzione domiciliare, non occorra alcun permesso di soggiorno e vi possa essere, quindi, l'inserimento lavorativo o sociale previsto dalla misura alternativa concessa.
      Il problema sorge anche per la espulsione dallo Stato al termine della misura. Dovrebbe essere chiarito che la stessa non deve condizionare la ammissione alla misura alternativa, che la decisione, in seguito, sulla espulsione dallo Stato deve appartenere al magistrato di sorveglianza e che la decisione, in sede giurisdizionale di questo, prevale su ogni decisione amministrativa.

 

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Su questi ultimi punti si è intervenuti nella parte seconda del titolo II, affrontando il tema della esecuzione dei trattamenti penali diversi dalla esecuzione della pena detentiva.
      Per le altre criticità, infine, è da prendere in considerazione la estensione a questo gruppo di una misura come l'affidamento in prova in casi particolari, d'altronde già applicabile agli alcooldipendenti, con problematiche diverse dai tossicodipendenti e più vicini a questa parte della detenzione sociale. Come già accennato, lo si è fatto con l'articolo 59 della presente proposta di legge.
      Secondo punto: è quello della reale efficienza del sistema organizzativo per scarcerare la detenzione sociale. Come si è visto il sistema normativo, trattato al primo punto, può essere migliorato, ma già quello vigente offre spazi considerevoli.
      Proviamo a svolgere la nostra riflessione, a titolo di esempio, per i tossicodipendenti. Per questi possiamo, anzi, dire che la legge privilegia, rispetto al carcere, la opzione della misura alternativa legata alla attuazione di un programma terapeutico: la legge privilegia, quindi, la sostituzione della risposta propriamente penale, cioè detentiva, con una risposta sociale, cioè con la risposta che cerca di superare il problema sociale della persona. Ciononostante, la concreta applicazione del sistema normativo vigente interessa una percentuale molto bassa dei casi ammissibili. Perché?
      La risposta alla domanda va individuata nel sommarsi di due inefficienze:

          1) quella del sistema organizzativo penitenziario nell'area cosiddetta «educativo-pedagogica»;

          2) quella dei servizi delle tossicodipendenze operanti in carcere e fuori del carcere.

      Si aggiunge, poi, una ulteriore inefficienza, rappresentata dalla scarsa tempestività delle decisioni sulle istanze da parte della magistratura di sorveglianza, intempestività piuttosto generalizzata, salva qualche isola di efficienza. Si aggiunge spesso la qualità delle decisioni dei giudici, quando entrano nella valutazione dei programmi terapeutici, andando al di là del loro ruolo.
      La misura di queste inefficienze è espressa dalla entità dell'area della tossicodipendenza che resta in carcere, che può ancora essere utilizzata quale esempio. L'analisi può essere limitata ai detenuti in esecuzione di pena (condannati definitivamente) e ammissibili a misure alternative.
      Si è detto che i tossicodipendenti nelle carceri italiani, calcolati su 57.000 detenuti presenti al momento del calcolo, sono circa 15.500 (27 per cento della presenza media dei detenuti in un giorno). Dei 15.500, 8.500 dovrebbero essere condannati definitivi, nelle condizioni, cioè, di poter essere ammessi a misure alternative. Alcuni, è vero, non sono in tali condizioni per la entità della pena, che supera i quattro anni, ma la grande maggioranza sarebbe invece ammissibile. Quanti sono gli affidati in prova al servizio sociale dalla detenzione ai sensi articolo 94 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, misura specifica per i tossicodipendenti? Nell'anno 2001, in Italia, sono stati: 837 complessivi, di cui 405 al nord, 191 al centro e 241 al sud. I casi «seguiti» nel corso del 2001, aggiungendo le nuove ammissioni ai casi pendenti a inizio anno, sono stati, invece, 1620 complessivi, di cui: 832 al nord, 357 al centro e 431 al sud.
      Conclusione: al di là di tutti i conteggi e della loro opinabilità, l'ammissione alle misure alternative funziona male se delle stesse fruisce poco più del 10 per cento di coloro che potrebbero fruirne. Non è quindi soddisfatta la indicazione che viene dalla legge, che privilegia, per i tossicodipendenti, una esecuzione della pena con programmi terapeutico-riabilitativi fuori dal carcere. Si può anzi dire che quello che dovrebbe essere un intervento ordinario e sistematico è in concreto un intervento eccezionale.
      Ma perché non riceve un impulso adeguato la ammissione alle misure alternative? Perché, si ripete, il sistema funziona

 

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male, perché vi sono quelle inefficienze descritte all'inizio.
      Manca intanto una presa in carico capillare al momento dell'arresto. Presa in carico che dovrebbe essere il frutto di un approfondito colloquio di primo ingresso da parte del personale penitenziario, che dovrebbe segnalare il caso al servizio per le tossicodipendenze (SERT) interno. La segnalazione del caso avviene, invece, solo per la prosecuzione o l'inizio della disassuefazione metadonica, da avviare spesso a rapida conclusione; e questo solo quando, in qualche modo e non sistematicamente, la esigenza di tali interventi emerge. Dopo di che gli interventi delle strutture sanitarie, piuttosto che del SERT (che ha concluso la disassuefazione con metadone), saranno diretti alla sostituzione del metadone con farmaci per sopire - letteralmente - anziché per affrontare i problemi.
      Come procedere allora?
      È indispensabile che le insufficienze organizzative dell'area educativa penitenziaria siano superate attraverso gli interventi sul personale degli istituti di pena che si sono prospettati nel capo III del titolo III di questa proposta di legge.
      È pure indispensabile che siano superate le insufficienze organizzative della magistratura di sorveglianza così come previsto dal capo III del titolo II di questa proposta di legge.
      Ma ciò che è altrettanto indispensabile è che l'apparato organizzativo dei SERT raggiunga il livello operativo che corrisponde ai loro compiti: in primo luogo fuori dal carcere e in secondo luogo in carcere. E ovviamente è necessario che tali servizi dispongano delle risorse economiche necessarie per svolgere la loro funzione rispetto ai bisogni reali che devono essere soddisfatti. Oggi la condizione di incompletezza del personale presso i servizi esterni e presso quelli in carcere è sistematica. E questo, mentre, per il carcere, si è ribadito - come era chiaro dal disposto dell'articolo 93, comma 3, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 - la competenza esclusiva dei SERT per l'assistenza ai tossicodipendenti. Oggi è sistematica la progressiva riduzione delle risorse economiche dei SERT, così che le prestazioni dirette - ovvero i programmi terapeutici condotti presso le sedi di servizio - diventano sempre più limitate e le disponibilità per gli inserimenti comunitari vengono progressivamente ridotte anno dopo anno.
      Dunque esistono le condizioni normative per un efficace contenimento della detenzione sociale, ma va costruito il sistema di risorse organizzative in grado di realizzare questo contenimento e di sostituire la risposta carceraria attuale con misure alternative alla detenzione che forniscano risposte sociali alle criticità per superarle.
      Si è affrontato questo aspetto concreto e operativo della scarcerazione della detenzione sociale facendo riferimento, come situazione esemplare, a quella dei tossicodipendenti in carcere. Ma anche per l'immigrazione e per le altre criticità la situazione è simile e le soluzioni sono corrispondenti.

Le persone in custodia cautelare.

      Questa parte può essere sviluppata in riferimento alle considerazioni già svolte al paragrafo precedente, soffermandosi essenzialmente sulle diversità di situazioni, interventi e possibilità di quella parte della detenzione sociale in custodia cautelare rispetto a quella parte in posizione giuridica definitiva.
      Partiamo dai numeri. Tenendo sempre presente il rapporto fra detenuti - sempre dell'area della detenzione sociale - in esecuzione definitiva, pari al 55 per cento, e detenuti in custodia cautelare, pari al 45 per cento, questi ultimi dovrebbero essere circa 18.000. Un numero, quindi, estremamente importante, che sollecita un intervento anche su questa parte della detenzione sociale.
      La prima considerazione da fare è che un'area così rilevante della custodia cautelare in carcere è il segno di un sistema giudiziario, che non si trova in un rapporto

 

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soddisfacente con il secondo comma dell'articolo 27 della Costituzione, che stabilisce che «L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». Tanto più questa inadeguatezza rispetto al precetto costituzionale è significativa per l'area della detenzione sociale, nella quale dovrebbe esserci una netta prevalenza di persone con imputazioni di minore importanza. Per queste, dunque, la esecuzione del trattamento detentivo più grave, quello detentivo, è anticipata rispetto alla sentenza, che non è detto sarà quella di condanna. Si tratta di un discorso non secondario, che presuppone però interventi generali sul sistema giudiziario che ci porterebbero troppo lontano.
      Verifichiamo, invece, se vi siano normative o situazioni particolari che determinino la rilevante entità della custodia cautelare nella detenzione sociale.
      Quanto alla normativa, solo per tossico e alcooldipendenti esistono previsioni specifiche per la custodia cautelare, contenute nell'articolo 89 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990. In tale norma sono contenute, ai commi 1 e 2, affermazioni di principio molto incoraggianti: non può essere disposta la custodia cautelare in carcere nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico e la custodia cautelare in carcere va revocata nei confronti di chi, nelle stesse condizioni, intenda sottoporsi ad un programma terapeutico. Tali disposizioni si applicano, però, «salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza», eccezione comprensibile, anche se apre alla discrezionalità del giudice nella valutazione di tali esigenze, discrezionalità che può avere gli esiti più diversi. Ma la eccezione più grave è quella contenuta nel comma 4 dello stesso articolo 89, per cui la esclusione della custodia cautelare in carcere per tossico e alcooldipendenti non vale quando si procede per uno dei reati indicati dal comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), dell'articolo 407 del codice di procedura penale. Fra i reati indicati, si possono esprimere riserve per i reati, consumati o tentati, di rapina ed estorsione, sia pure aggravate (numero 2), tenendo conto della casistica molto eterogenea di tali reati, e dei reati compresi nel medesimo testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 (numero 6), sovente contestati nella fase iniziale dei procedimenti con le previsioni più gravi, spesso escluse o ridimensionate nelle decisioni finali. Ciò che soprattutto non funziona è la obbligatorietà della disciplina, che esclude la possibilità, per il giudice, di consentire la attuazione dei programmi terapeutici.
      Concludendo, potrebbe esservi spazio per una revisione della normativa vigente in materia. Ciò non toglie che difficilmente per questa via si ridurrebbe sensibilmente l'area della detenzione sociale in carcere. Per una parte estremamente rilevante, la custodia cautelare di questa area è frutto di una scelta dell'autorità giudiziaria procedente, dovuta alla mancanza di alternative rassicuranti. E, quindi, spesso comprensibile. Ma il problema si sposta sul punto se tale inadeguatezza o mancanza di prospettive possa essere evitata: se cioè si possano offrire o meno alternative soddisfacenti alla scelta detentiva.
      Ci si può soffermare su alcune questioni che riguardano questo tema.
      La prima concerne soprattutto l'area della immigrazione, ma anche quella dei senza fissa dimora, ivi compresi i cosiddetti «nomadi». Si tratta del problema della identificazione. In molti casi non si è affatto sicuri, e spesso ragionevolmente, della autenticità delle generalità indicate dall'imputato. Senonché, esiste già da anni un sistema generale di identificazione dattiloscopica, che viene fatto funzionare eccezionalmente, mentre vi sono tutte le condizioni perché sia messo a regime in via ordinaria e generale. Anche la conformazione delle modalità di rilevazione delle impronte da parte dei vari organismi (carceri e uffici di polizia) dovrebbe essere da tempo operativa.
      È chiaro che il problema della incertezza sulla identificazione ha, sullo sfondo, un altro e più grave problema: un domicilio e l'affidabilità di tale domicilio e delle
 

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risorse per vivervi. Si ritorna, qui, alla ricerca di risposte sociali, sulle quali si deve ripetere quanto già detto. Primo: che vi sono iniziative di accoglienza e solidarietà; andrebbero sostenute e integrate, ma ci sono. Secondo: che le stesse iniziative o le altre che sarebbero necessarie sono oggi condannate a «navigare a vista» in una situazione di irregolarità che si trasferisce da chi riceve assistenza a chi la fornisce. Terzo: che la rete parentale e amicale è in molti casi esistente e di essa va soltanto verificata la affidabilità.
      Esistono risposte sociali, spesso da integrare, cui dare risorse e garanzie, ma è pregiudiziale l'abbandono della scelta del rifiuto e della espulsione e la adozione della scelta opposta. Se si procedesse in tale senso molta parte della immigrazione in detenzione sociale potrebbe non arrivare o non restare in carcere. Si tenga conto della circostanza che si espiano in custodia cautelare in carcere condanne da sei mesi a un anno, relative a lievi reati contro il patrimonio o allo spaccio di stupefacenti e che, restando in custodia cautelare, non si può neppure battere la strada della esecuzione penale in misura alternativa, che potrebbe offrire, proprio attraverso le misure alternative, una occasione di inclusione.
      Per i tossicodipendenti e gli alcooldipendenti in custodia cautelare si ripropone una questione già esaminata per i condannati e gli internati definitivi: la povertà organizzativa dell'area educativo-penitenziaria e dei servizi pubblici all'interno e all'esterno del carcere. Si rimanda a quanto già detto nelle pagine precedenti.
      Si è parlato sinora di custodia cautelare in carcere. La casistica della detenzione sociale potrebbe, per vero, trovare alternative al carcere nelle misure cautelari diverse, prima fra tutte quella degli arresti domiciliari presso la propria abitazione o in altro luogo di privata dimora o in luogo di cura e assistenza. Accenniamo solo al problema. Anche qui la qualità delle risposte e delle occasioni esterne potrebbe incrementare risposte diverse e ridurre la detenzione sociale in carcere, ma il problema resta sempre quello dell'arricchimento sul piano sociale della qualità di queste occasioni e risposte.

3. Dall'intervento penale all'intervento sociale: un percorso per la detenzione sociale.

      Si sviluppa qui il terzo dei tre punti indicati all'inizio di questa riflessione.
      Il discorso può essere sintetico e riprende quello che più analiticamente si è condotto in precedenza.
      L'area, estesa e in costante crescita, della detenzione sociale è il frutto di un processo che è stato sintetizzato con la espressione: «dallo Stato sociale allo Stato penale». Occorre compiere il percorso inverso e tornare dallo Stato penale a quello sociale. Il che vuol dire - per quanto detto e ripetuto, è abbastanza chiaro - che la società, attraverso i suoi organismi responsabili, deve recuperare le proprie funzioni e dare alle situazioni critiche che sono state spostate verso la risposta indifferenziata della discarica carceraria, le risposte sociali reali in grado di analizzare le criticità, affrontare le stesse e, in quanto possibile, superarle e risolverle. Tanto più le risposte sociali proprie sono efficaci, tanto più le risposte penali improprie potranno essere abbandonate e rimosse.
      Lo si è accennato per uno dei gruppi della detenzione sociale: i tossicodipendenti. Il sistema dei servizi pubblici è incompleto, reso via via più impotente dalla riduzione delle risorse organizzative ed economiche sulle quali potere contare. Senza quelle risorse, i programmi terapeutici diventano evanescenti o non sono possibili e, in tale situazione, quei programmi non possono produrre inserimento sociale e, ove sia possibile e utile, inserimento lavorativo. Questo comporta un impegno, non solo economico, ma anche economico, che è indispensabile recuperare. Certo, ci saranno risorse economiche da mobilitare, ma non si dovrà ignorare che il costo di un detenuto in carcere è almeno cinque volte superiore a quello

 

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della sua presenza in una comunità e che il costo dell'apparato delle misure alternative è incomparabilmente inferiore a quello della esecuzione della pena in carcere. Gli ultimi dati, segnalati anni fa e probabilmente da rivedere oggi con un modesto rialzo, davano la spesa per le misure alternative al 2 per cento dell'intera spesa penitenziaria (con l'area penale esterna quantitativamente vicina a quella del carcere). E questo è il discorso economico, mentre sopra si è fatto il discorso della adeguatezza e della qualità dell'intervento in misura alternativa, il cui senso è rimuovere il carro dell'intervento dell'area sociale dal binario morto del carcere, e riportarlo sulla linea propria e costruttiva che si è sopra indicata.
      Anche per la immigrazione questo è possibile e lo si accennerà poi attraverso i progetti da realizzare. Certo, occorrerà cambiare il segno della politica sociale attuale, che ha il suo simbolo e il suo strumento nella espulsione, spesso risposta immediata e prospettiva finale. Dalla ignoranza alla consapevolezza e alla presa d'atto delle dinamiche reali, dal rifiuto al patto di inserimento, dalla esclusione alla inclusione. L'immigrazione non appartiene al Ministero dell'interno (strano paradosso verbale), ma agli organismi che rappresentano la società e che devono contribuire a costruirla quotidianamente.
      Ed è così anche per le altre criticità. I «dispersi» nella società, come i malati psichici e come i barboni, non si disperdono, ma sono dispersi, sono dimenticati. Si tratta di non cancellarli dalla memoria, ma di ricordarsene. C'è un'idea romantica sulla loro voglia di libertà e di solitudine, che ignora i risvolti di sofferenza e di disperazione.
      Alla fine, va ripetuto che questi interventi devono iscriversi in un intervento generale. Gli stessi sono i sintomi di disagi più ampi di ambienti urbani trascurati, senza una gestione consapevole, consegnati piuttosto a caos disordinati di crescita (le periferie) o di abbandono (i vecchi centri urbani), che a dinamiche seguite e governate. Affrontare le criticità può essere la via per trovare le radici più ampie del disagio e per intervenire anche su queste: o abbiamo dimenticato le politiche di sicurezza sociale?
      L'inversione di marcia è possibile.
      Dunque, un'altra strada da battere: abbandonare lo Stato penale e recuperare lo Stato sociale. Per avviarsi su questa strada bisogna analizzare i punti critici della strada opposta che ci ha portato fin qui, liberarci dal dogmatismo che la domina, dalla irreversibilità del processo che è stato imposto.

      A. Partiamo dall'ultimo punto indicato: la irreversibilità del processo.
      È facile osservare che non è stato sempre così. Si è seguita anche un'altra strada, una strada che era caratterizzata dal contenimento della detenzione sociale. E questa strada ha avuto protagonisti razionali e consapevoli nei Paesi del nord-Europa, ma anche nel Regno Unito e anche negli USA. Era stata operata una scelta e la scelta era stata per il percorso sociale.
      Si è cambiato perché quella politica era costosa? Se quella è stata la ragione, era una ragione sbagliata. Il costo della politica opposta sta assumendo dimensioni di gran lunga superiori e di fatto incontrollabili. Si è cambiato perché quella politica era inefficace? In che misura era esatta quella valutazione di inefficacia, che riteneva i fenomeni di recidiva nel reato indifferenti al trattamento, detentivo o alternativo alla detenzione, riservato agli autori di reato? Ci sono risposte attuali che fanno pensare altrimenti. Si è parlato in precedenza di una ricerca recente sulla recidiva di chi ha fruito di misura alternativa, che ne segnala la convenienza, ma comincia ad essere una convinzione che si fa strada che il carcere non serve, mentre la misura alternativa può servire.
      Sembra, per vero, che la strada verso il penale sia nata e si sia rafforzata per rilevazioni sempre più stringenti sulla identificazione fra area della criminalità - in buona parte della criminalità di strada e di quella indotta dalle politiche proibizioniste rigide sugli stupefacenti - e area della precarietà sociale. Non c'è stato uno sforzo per dare risposte sociali a quella

 

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precarietà: lo sforzo è stato quello di coprirla in modo sempre più largo con lo strumento penale (nel periodo di età pertinente ci sono, negli USA, più soggetti di colore negli istituti di pena che negli istituti scolastici). In sostanza, non si tollera più un tasso di trasgressione che si considerava in passato fisiologico in una società aperta e frammentata quale la nostra e si intende ridurlo a zero.
      Questo punire un'area sociale ha ancora qualcosa a che fare con il diritto penale che si conosce? Nell'usare lo strumento penale come strumento sociale il primo non perde le sue connotazioni di fondo?
      Alla fine del percorso dallo Stato sociale allo Stato penale, si mette in crisi lo strumento della pena come lo abbiamo conosciuto. Si deve pagare questo prezzo o non si deve prendere atto che siamo finiti in un vicolo cieco, che è tempo di abbandonare?
      La via del «grande internamento», come è stato chiamato, rievocando il passato, non è irreversibile e si diffonde la certezza che è pericolosa.

      B. Queste posizioni non hanno alle spalle un discorso scientifico, ma solo una scelta politica che non segue la via della riduzione delle disarmonie sociali e della ricerca della concordia sociale, ma solo quella della forza, capace soltanto di spezzare la società e di chiuderne un troncone in carcere.
      Cogliamo la preoccupazione degli esperti in materia che, già con la formula del passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, hanno preso nettamente una distanza critica da questa politica, individuando nella stessa la liquidazione a un tempo del sistema penale e di quello sociale e dei princìpi rispettivi degli stessi.
      È interessante vedere che un approfondimento in termini razionali di questa scelta rivela una profonda incoerenza interna della stessa: ci si riferisce ad un recente lavoro di David Garland (La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano 2004), le cui linee di fondo sono esposte in un intervento di A.Ceretti e A.Casella, in Dignitas, n. 5 del 2004, pagina 6 e seguenti. Vi si legge (pagina 11): «Questi orientamenti criminologici, che normalizzano gli autori di reato - interpretati ora come soggetti razionali e opportunisti, non molto diversi, in ultima analisi, dalle loro vittime - convivono con altre letture che si alimentano più che di analisi scientifiche, di immagini, di archetipi, di angosce che amplificano i messaggi ansiogeni dei media, i quali, a loro volta, presentano i criminali come soggetti antisociali, pericolosi, estranei e minacciosi, in genere appartenenti a gruppi razziali e culturali diversi da noi. Più che di persone reali, si tratta di proiezioni immaginarie che assommano su di loro i rischi e i pericoli dai quali si fa derivare quel senso d'angoscia e di impotenza che produce una domanda inesauribile di ordine e di risposte forti da parte della autorità statuale. L'unica risposta che ha senso dare a questi superpredatori e plurirecidivi, maschi, giovani, appartenenti a minoranze razziali e culturali, provenienti dal sottoproletariato criminale, dalle sottoculture tossicomaniche, da famiglie problematiche, è di neutralizzarli non appena delinquono - o ancor prima, se possibile - togliendoli dalla circolazione e lasciando loro ben scarse possibilità di far valere diritti e aspettative di rispetto morale. Nel panorama odierno, ritroviamo, quindi, una criminologia del sé, che assume gli autori di reato come soggetti normali e razionali; e una criminologia dell'altro, dell'estraneo pericoloso».
      Questa lunga citazione consente di dire che la scelta politica che ha dilatato l'universo carcerario, non solo manca di autorità scientifica, ma manca anche di un fondamento razionale, perché raccoglie suggestioni diverse ed incoerenti: anzi, opposte fra loro.

      C. La scelta politica che si critica è condizionata dalla domanda di sicurezza che pervade la società contemporanea. È stato anche osservato che tale domanda è sorta mentre gli indici della criminalità erano in diminuzione o, al più, stabili. Ora, a prescindere dal valore di tali indici, che si incrementano per l'incrementarsi

 

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della penalizzazione e dell'intervento di polizia, la cosa paradossale è che la domanda di sicurezza si alimenta (come la lunga citazione sub B sottolinea) da una condizione di paura, che è, a sua volta, il prodotto della riduzione delle protezioni e degli ammortizzatori che lo Stato sociale aveva introdotto. Dalla sicurezza sociale, fondamento delle politiche delle democrazie avanzate fino a pochi anni fa, si è amputato il termine «sociale» e il sostantivo «sicurezza» ha cambiato radicalmente senso. Se si vuole, la vicenda linguistica evidenzia la modalità della operazione: la semplificazione. La sicurezza sociale era il segno di uno Stato che si sentiva responsabile di tutti i suoi componenti, convinto che la riduzione del disagio e delle aree di criticità era un progresso per tutti, che giovava a tutti. Ma la sicurezza sociale sapeva di dovere rispondere alla complessità sociale e se ne faceva carico. Rispondere alla complessità non è semplice. Rifiutarla, non affrontarla, recintarne, prima, e amputarne, poi, gli aspetti critici, tutto questo è semplice, ma comporta inevitabilmente l'abbandono della responsabilità di chi dovrebbe essere la guida di una comunità. La reclusione delle situazioni critiche è la risposta.
      Ancora nel testo di Dignitas citato sopra (pagina 16), da David Garland: «Le nuove forme di controllo della criminalità implicano costi sociali difficilmente sopportabili: inasprimento delle divisioni sociali e razziali; consolidamento dei processi criminogenetici; perdita di credibilità della autorità penale; crescita della intolleranza e dell'autoritarismo, accentuazione della pressione penale sulle minoranze, configurando una sorta di nuova segregazione razziale». Se la descrizione tiene presente la situazione degli USA, non è meno pertinente per la realtà europea e italiana. Gli steccati e la segregazione di coloro che compongono la detenzione sociale sono il risultato della situazione che abbiamo analizzato.

      D. Ostinatamente si deve affermare che questo processo di ricarcerazione, che invade il mondo sviluppato, non è irreversibile e si deve ripetere che tale processo sta mostrando le sue crepe. Ancora una citazione dal testo di Dignitas, che è la conclusione dello stesso: gli sviluppi delle politiche criminali odierne «non sono deterministicamente dati: i grandi processi di carcerizzazione e le pratiche del controllo penale diffuso, nelle forme che hanno visto gli Stati Uniti e il Regno Unito far da battistrada nel mondo sviluppato, non sono inevitabili. Un altro futuro è possibile».
      Si è cercato, appunto, di indicare le linee concrete del recupero delle risposte sociali che sciolgano i lacci in cui è stata avviluppata la detenzione sociale. Depenalizzare nella misura possibile, scarcerare usando tutte le alternative alla detenzione che il nostro sistema già conosce e integrandole, ridare consapevolezza, risorse, efficacia alle risposte sociali che sono mancate e che, invece, non devono mancare. Le pagine che seguono illustrano il capo II e il capo III del titolo IV di questa proposta di legge, dedicato al reinserimento sociale. Si indicano gli interventi possibili a favore di gruppi di reclusi, compresi nella detenzione sociale, per i quali, anziché perpetuare la esclusione carceraria, si attivino pratiche di inclusione sociale.

C. Gli strumenti per la scarcerazione della detenzione sociale: i capi II e III del titolo IV.

      Il discorso svolto nelle pagine precedenti tende alla riduzione dell'area della detenzione sociale attraverso interventi di riduzione dell'area della penalità e di aumento dell'area della scarcerazione della stessa.
      Per la riduzione dell'area della carcerazione, si è parlato in particolare di allargamento delle misure alternative, sia attraverso modifiche normative, sia attraverso il raggiungimento della reale efficacia del sistema operativo di ammissione alle stesse.
      In tale quadro vanno esaminati i capi II, articoli da 160 a 164, e III, articoli da 165 a 169, del titolo IV, dedicati agli

 

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interventi collettivi relativi a gruppi di detenuti appartenenti alla detenzione sociale. Tali interventi collettivi dovrebbero rappresentare strumenti di intervento più incisivo per ridurre l'area della detenzione sociale attraverso, ancora, gli strumenti delle misure alternative e del lavoro all'esterno. Questo potrebbe essere conseguito o con misure alternative esterne al carcere o, se ciò non sia possibile e debba permanere lo stato detentivo, mediante la utilizzazione di una nuova rete di sedi detentive locali a custodia attenuata, analoga, ma con rilevanti diversità, rispetto a quella delle cessate case mandamentali, attraverso il ricorso alla semilibertà e al lavoro all'esterno: accrescendo, quindi, l'area penitenziaria esterna e riducendo complementarmente quella dell'area detentiva degli istituti penitenziari ordinari, affiancando anche agli stessi gli istituti territoriali ora detti.
      Tali interventi, ovviamente, non potranno nascere per la semplice previsione normativa che si opera con questa proposta di legge. Richiederanno un profondo coinvolgimento degli enti pubblici territoriali e di tutti quegli organismi del privato sociale, già oggi coinvolti e disponibili ad interventi che valgono a ridurre l'area della detenzione sociale: pensiamo alle comunità terapeutiche, sia diurne che residenziali, ed anche a tutti quegli enti che, pur nelle pieghe della legislazione espulsiva vigente, riescono a offrire servizi ed accoglienza nell'ambito della immigrazione. È pacifico che tutto ciò non è facile e presuppone un cambio di politica e una nuova disponibilità di risorse per gli enti pubblici territoriali: ma è appunto quello che si è chiamato il «recupero della politica della sicurezza sociale e l'abbandono di quella meramente securitaria» che, sino ad oggi, ha prodotto la crescita della detenzione sociale. È indubbio che si tratta di un processo non facile, ma si è cercato di dimostrare nei paragrafi precedenti che si tratta di un processo necessario; si è anche cercato di dimostrare che questo processo è possibile perché quello opposto di mera sicurezza dimostra sempre più chiaramente i propri limiti.
      I capi II e III sono dedicati, appunto, agli interventi collettivi relativi a gruppi di persone in condizioni particolari. Indichiamone le linee principali.
      Il capo II, come si è detto, contiene gli articoli da 160 a 164.
      L'articolo 160 individua le persone cui i progetti collettivi devono essere destinati. Le persone in questione sono quelle che appartengono ai grandi gruppi che compongono la detenzione sociale: tossicodipendenti, immigrati, soggetti in altre situazioni di criticità.
      Articoli 161 e 162. Gli interventi devono essere definiti attraverso progetti concreti, la cui finalizzazione è, in primo luogo, quella di impegnare in programmi riabilitativi o nel lavoro e di rimuovere comunque le cause del disagio sociale e della mancata integrazione sociale delle persone interessate. Può essere presente anche una seconda finalità: quella di realizzare, attraverso la attuazione dei progetti, iniziative di pubblica utilità. Ciò dovrebbe consentire una più agevole disponibilità di risorse per la attuazione dei progetti.
      In questo quadro della finalizzazione dei progetti alla utilità pubblica si inseriscono anche quelli di cosiddetta «reintegrazione sociale» - ispirati ad una passata proposta di nuova misura alternativa alla detenzione con particolari caratteristiche, prevista da vari progetti di legge, presentati nelle precedenti legislature - nei quali lo svolgimento del lavoro da parte dei detenuti e degli internati funziona anche come compensazione per il danno sociale prodotto dal reato. In tali casi, pure non creandosi un rapporto di lavoro, si garantisce, comunque, il rispetto dei diritti essenziali degli interessati e non si deve comunque dimenticare la prima finalizzazione dei progetti; che è quella di operare per la rimozione della situazione di criticità sociale della persona. Si è ritenuto che, per gli ammessi ai programmi di reintegrazione sociale, che non vengono remunerati, la riduzione della pena per liberazione anticipata possa essere elevata rispetto alla misura ordinaria: novanta giorni invece di quella ora indicata all'articolo 78 di questa proposta di legge.
 

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Questo riprende, pur se in misura limitata, il contenuto della proposta per una nuova misura alternativa (denominata, appunto, programma di reintegrazione sociale), ricordata qui sopra.
      L'articolo 162 è dedicato specificamente alle misure e condizioni giuridiche per la partecipazione ai progetti. Si mette in evidenza che, per coloro che svolgeranno i programmi di reintegrazione sociale, di cui si è parlato, senza remunerazione, è prevista la misura più elevata della liberazione anticipata: novanta giorni per ciascun semestre di pena scontata in costanza di attuazione di tali programmi. Va rilevato che nei progetti legislativi per la introduzione dei programmi di reintegrazione sociale, era previsto che un giorno di esecuzione della pena con attuazione del programma di reintegrazione sociale equivaleva a due giorni di pena espiata. Con la riduzione della pena portata a novanta giorni a semestre e a centottanta giorni all'anno, il risultato è lo stesso, anche se, in luogo dell'automatismo dei progetti legislativi (un giorno in programma eguale a due giorni di pena espiata), l'organo della magistratura di sorveglianza che decide sulla concessione della liberazione anticipata conserva un potere di valutazione e decisione.
      Articolo 163. I progetti devono indicare alcuni punti essenziali: la previsione delle modalità organizzative, in quanto le persone interessate non possono essere abbandonate a se stesse, ma gestite da adeguati operatori-quadri; la previsione del rispetto dei diritti essenziali; la previsione dei rapporti fra operatori dei progetti e operatori delle strutture penitenziarie; la previsione delle risorse finanziarie utilizzabili.
      Articolo 164. Proponenti e protagonisti dei progetti sono gli enti pubblici territoriali e, fondamentalmente: la regione quale ente di progettazione e di programmazione, e gli altri enti territoriali, quali organi talvolta anche di proposta, ma sempre di gestione. Particolarmente nel settore delle dipendenze, i SERT saranno organi di proposta e di gestione, affiancati dal privato sociale, che può proporre e gestire, come fanno le comunità terapeutiche.
      Occorre soffermarsi qui sul ruolo centrale della regione. È un ruolo di ordine, ancora prima che di coordinamento, che deve tenere presente anche il ruolo di progettazione relativo alle case territoriali di reinserimento sociale, di cui all'articolo 113 della presente proposta di legge, che saranno la sede di riferimento per la concreta attuazione dei progetti. Occorre una struttura regionale ad hoc, quale che sia la forma più o meno rilevante che la stessa assume.
      Non si identifica con, ma deve essere parte di tale struttura un servizio regionale per i progetti: un servizio di promozione, consulenza, assistenza alla preparazione e alla presentazione dei progetti.
      La consulenza riguarda anche le risorse finanziarie cui devono fare riferimento i singoli progetti e che il servizio regionale dovrebbe avere più chiaro dei singoli enti od organismi che intendono realizzarli. Parte di tali fondi è rappresentata dalle risorse regionali relative a programmi per la difesa e il miglioramento dell'ambiente, della vivibilità urbana e della sicurezza sociale in ordine alle situazioni collettive di degrado e di disagio individuale, programmi che coinvolgono vari assessorati.
      Per la realizzazione dei progetti può essere previsto il ricorso ai fondi disponibili presso l'Unione europea e devono essere tenuti presenti anche quelli della Cassa delle ammende presso il dipartimento della amministrazione penitenziaria. Si terranno anche presenti le possibilità di affiancare la normativa vigente sui lavori socialmente utili. Per alcuni dei gruppi della detenzione sociale si farà anche riferimento alle risorse specifiche: ad esempio, per i tossicodipendenti, il Fondo nazionale di intervento per la lotta alla droga previsto dall'articolo 127 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990.
      Il capo III comprende gli articoli da 165 a 169.
      All'articolo 165 si indicano le finalizzazioni dei progetti, rivolti, per un verso, alla rimozione delle difficoltà sociali dei
 

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partecipanti, ma anche, per altro verso, allo svolgimento di attività di pubblica utilità.
      Sotto questo secondo profilo, come già accennato, le materie in cui i progetti possono essere utilizzati sono le più diverse: vengono segnalati, in particolare, progetti ambientali, quali la tenuta e il riordino delle zone boschive e di quelle abbandonate, nonché la pulizia e la sistemazione dei corsi d'acqua (attività rilevanti per la prevenzione di incendi e di alluvioni), e quelli per la migliore utilizzazione di aree urbane di uso pubblico o in condizioni di abbandono.
      È ovvio che ci sarà una diversificazione dei progetti a seconda dei gruppi della detenzione sociale cui sono destinati. Di ciò si occupano gli articoli successivi. Questi fanno riferimento al concetto di comunità diurna nel senso che i fruitori dei progetti restano insieme durante la giornata di impegno e di lavoro e hanno, quindi, bisogno di operatori che, oltre ad organizzarne e seguirne l'attività, si interessino della loro aggregazione e delle loro prospettive di inserimento esterno durante la restante esecuzione della pena o alla conclusione della stessa.
      All'articolo 166 si fa riferimento ai progetti per tossicodipendenti e per alcooldipendenti. Qui esiste già un ventaglio di esperienze ed indicazioni operative, ma i progetti di cui qui si parla possono fare proprie e sostenere tali esperienze o integrarle, mobilitando risorse di impegno e di lavoro su programmi terapeutici che ne sono privi. Si pensi a quei programmi attuati dai SERT limitati a controlli urinari e a sporadici contatti con il servizio, che possono essere potenziati con un impegno di lavoro e un più intenso contatto con gli operatori.
      All'articolo 167 ci si interessa dei progetti riservati alle persone in situazioni di disagio psicofisico o sociale. Saranno particolarmente impegnati i servizi socio-sanitari pubblici, ma in questo campo saranno anche attive le iniziative di accoglienza, già esistenti, del privato sociale.
      L'articolo 168 è dedicato ai progetti relativi all'area della immigrazione detenuta. Qui saranno particolarmente utili progetti di lavoro di utilità sociale, di cui si è già parlato all'articolo 165. Si è previsto che, in tali casi, al termine della esecuzione della pena, i buoni risultati conseguiti nel corso della esecuzione sul piano del lavoro devono favorire il rilascio del permesso di soggiorno: definitivo, se sia già possibile un inserimento lavorativo, o sperimentale, per almeno sei mesi, se questo si debba ancora concretare.
      Una parte significativa cui è dedicato il capo III è quella della rete detentiva che può essere utilizzata per la realizzazione dei progetti, quando si ricorre alla semilibertà o al lavoro all'esterno: cosa che accadrà sovente, per coloro ai quali la integrazione sociale deve anche procurare un domicilio.
      L'articolo 169 parte dalla indicazione che la realizzazione dei progetti deve comportare la riduzione dell'area della detenzione sociale negli istituti ordinari. Lo stesso articolo si riferisce allo strumento delle case territoriali di reinserimento sociale, indicate all'articolo 113 della presente proposta di legge.
      Su questo punto, accadrà sovente che i concreti operatori del progetto appartengano al privato sociale e, in particolare, alla cooperazione sociale. Sia che i progetti siano proposti e seguiti dagli enti pubblici, sia che siano proposti dagli stessi organismi privati, gli operatori concreti, anche nei primi casi, attraverso apposite convenzioni, apparterranno spesso a questi ultimi. Gli operatori realizzeranno all'esterno degli istituti una comunità diurna, mantenendo, quindi, l'unità del gruppo che fruisce del progetto, anche se il programma di trattamento potrà prevedere momenti di collegamento con l'ambiente familiare e sociale: dipenderà dai programmi di trattamento che vengono attivati.
      Sempre lo stesso articolo prevede che agli operatori del progetto, attraverso appositi atti convenzionali, possa essere anche affidata la gestione del periodo detentivo. Questo può essere un sistema utilizzabile, in particolare, per le comunità terapeutiche. Va sottolineato che, in tale
 

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caso, sono gli operatori del progetto che svolgono le funzioni degli operatori penitenziari e, come tali, adempiono direttamente le funzioni di controllo, situazione da non confondere con quella degli arresti o della detenzione domiciliari, nella quale sono gli organi di polizia ad operare il controllo.
      Queste sono le linee essenziali dei due capi esaminati. Si rinvia alla lettura dell'articolato per le previsioni più specifiche.

D. La scelta verso la irreversibilità del processo di ricarcerazione nel nostro Paese: la legge cosiddetta «ex Cirielli».

      Alla fine della XIV legislatura è stata approvata la proposta di legge cosiddetta «ex Cirielli», divenuta la legge 5 dicembre 2005, n. 251, che ha segnato un altro passo significativo nella direzione dell'allargamento dell'area della detenzione sociale: tale normativa colpisce i recidivi, coloro, cioè, che finiscono spesso in carcere, fino a diventarne clienti abituali. È l'area ben nota all'esame svolto nelle ultime pagine di questa relazione: sono i tossicodipendenti, gli immigrati, le persone in condizioni critiche psico-sociali, di cui si è parlato, appartenenti al mondo sempre più vasto della precarietà sociale e che abbiamo visto comporre quella che si è chiamata la detenzione sociale.
      Si può solo osservare che tale normativa si muove nella direzione esattamente opposta a quella che si è qui proposta e per la quale si sono indicati gli interventi e gli strumenti necessari. Mentre con la presente proposta di legge si è sostenuto che bisogna invertire la marcia rispetto al processo di ricarcerazione, che rende ormai ingestibili le nostre carceri, con la normativa in questione si rilancia questo processo e lo si fa nel modo più spregiudicato, imboccando una strada ben chiara: quella di un diritto penale diseguale, che diviene tollerante con coloro che sono socialmente forti, e intollerante ed estremamente severo con coloro che sono socialmente deboli. Che i deboli e i poveri siano stati la clientela normale delle carceri e i forti e i ricchi quella eccezionale non è una cosa nuova: come si è detto, è nuova la dimensione quantitativa che ha assunto il fenomeno in questi ultimi anni fino a colpire a fondo la capacità di risposta del sistema carcerario. La normativa in questione accoglie con incomprensibile entusiasmo un processo dal quale, esercitando la ragione, si deve fuggire e che, al contrario, essa rafforza. Sullo sfondo, ma, per vero, anche in primo piano, si vede la massima del sistema penitenziario statunitense, nel quale, dopo la commissione del terzo reato, si resta stabilmente in carcere in una sorta di ergastolo.
      La normativa in oggetto per fare tutto questo ignora un percorso legislativo che interessa gli ultimi decenni del nostro Paese. In primo luogo, compie una operazione da cui bisognerebbe stare lontani, quella di interventi parziali sul codice penale, che andrebbe ripensato una volta per tutte, tanto che, a tale fine, il Governo in carica, come quelli precedenti, aveva nominato una commissione ministeriale che ha pressoché concluso i propri lavori. Qui si toccano istituti essenziali della parte generale del codice vigente, come la prescrizione e le circostanze della pena e lo si fa senza porsi il problema del rapporto con il sistema complessivo. Ma, in secondo luogo, la normativa in parola cancella il percorso che ha caratterizzato gli ultimi decenni della nostra legislazione penale; infatti pur avendo commesso l'errore di non sostituirlo, questa legislazione ha colpito le parti più estreme del codice Rocco, il codice del fascismo: la entità delle pene, particolarmente per reati patrimoniali, e non solo, la libertà delle persone, l'esasperato sistema di automatismi, che colpiva misure di sicurezza e circostanze inerenti alla persona, come appunto la recidiva.
      È stata un'operazione di bonifica, che si è fatta sentire anche in campo penitenziario. Il testo originario dell'ordinamento penitenziario (spesso sono riaffiorate le vocazioni repressive) escludeva dalle misure alternative i recidivi. Fu però in breve modificato, preso atto che in carcere

 

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c'erano appunto prevalentemente loro, i recidivi (di cui il carcere ha sempre pazientemente costruito e accompagnato le storie), e la legge 12 gennaio 1977, n. 1, soppresse la esclusione.
      La legge «ex Cirielli», n. 251 del 2005, che ha avuto varie denominazioni correnti, è stata anche chiamata «ammazza Gozzini» e questo proprio perché si pone come ulteriore rafforzamento del processo di ricarcerazione e come sistema di preclusioni o di ritardata ammissibilità ai benefìci penitenziari che la legge Gozzini aveva provveduto a incrementare. Rispetto alla presente proposta di legge, l'«ex Cirielli», rappresenta l'esatto contrario. La proposta di legge porta a uno sviluppo logico le indicazioni dell'articolo 27 della Costituzione e delle varie sentenze costituzionali che hanno evidenziato le varie implicazioni di tale norma costituzionale. Sulla umanizzazione della pena, affermata dal citato articolo 27, si è costruito il titolo I della proposta di legge; sulla base delle sentenze costituzionali, citate nella presente relazione nella parte che tratta dell'articolo 57 della proposta di legge, si è costruito un sistema allargato di misure alternative, disciplinato dal titolo II; anche la strutturazione della organizzazione penitenziaria nel titolo III risponde alle esigenze costituzionali espresse nei primi due titoli; e il titolo IV corona questo disegno e offre gli strumenti affinché la esecuzione della pena recuperi la funzione di produrre inclusione sociale, particolarmente per le aree della detenzione sociale. Il filo costituzionale tiene insieme tutte le parti della proposta di legge. E non si dimentichi quello che si era rilevato (in base ad una ricerca effettuata in proposito) alla lettera D4 della parte introduttiva della relazione sul titolo II (Sezione I, Alcuni princìpi e finalità generali): la efficacia sulla riduzione della recidiva di questa via costituzionale della esecuzione penale, aperta alle misure alternative, sei volte più efficace della esecuzione in carcere per i detenuti normali e tre volte per i tossicodipendenti.
      E invece la normativa «ammazza-Gozzini», che vuole l'opposto, che marcia sulla via della irreversibilità dei processi di ricarcerazione nel nostro Paese, che vuole rafforzare le chiusure e tendenzialmente «gettare le chiavi» contro la detenzione sociale, questa normativa, dunque, è tenuta insieme invece da un filo anticostituzionale. Tre norme costituzionali, ad un primo e agevole esame, risultano chiaramente violate: l'articolo 27, terzo comma, ed entrambi i commi dell'articolo 3.
      L'articolo 27, terzo comma. Nella normativa in questione, all'articolo 4, vi è il rilancio dell'aumento della pena attraverso la limitazione all'accesso alle attenuanti (articolo 1 e articolo 3) e il recupero di quella pesante aggravante della recidiva, quasi dimenticata ed ora rifiorita sul modello originario del codice Rocco. Più pena, più carcere, allontanamento nel tempo della possibilità di fruire dei benefìci penitenziari. E su questo ultimo punto cadono le bordate più specifiche agli articoli 7, 8 e 9. All'articolo 7, comma 1, si allontana nel tempo la ammissibilità ai permessi premio; ai commi 2, 3 e 4, si limita la ammissibilità alla detenzione domiciliare, con un occhio di riguardo agli ultrasettantenni incensurati o recidivi semplici (una condanna può capitare anche ai «colletti bianchi»); al comma 5, limitazioni alla semilibertà, al comma 6, la esclusione dai benefìci per il condannato per evasione, già limitata agli autori di reati di cui all'articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, è estesa a tutti per evitare il rischio che sfuggano i «poveracci»; al comma 7, le misure alternative possono essere concesse una sola volta per i recidivi. All'articolo 8, anche per i tossicodipendenti si limita l'accesso all'affidamento in prova in casi particolari e alla sospensione condizionale della pena detentiva, benefìci relativi a tossici ed alcoolisti, limitando le pene ammissibili. All'articolo 9, i recidivi sono esclusi anche dalla applicazione della legge Simeone-Fassone-Saraceni. Si è visto nel corso di questa relazione come la giurisprudenza costituzionale metta in guardia da qualsiasi tipizzazione dei reati: in particolare la sentenza costituzionale n. 306 del 1993 lo ha fatto in merito alla preclusione alle misure
 

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alternative introdotte con le modifiche al citato articolo 4-bis. Ma nelle norme ora esaminate ciò che incide sulle prospettive penitenziarie del condannato è una circostanza che inerisce alla persona del colpevole. Si stabilisce, quindi, una selezione capillare che investe tutti gli aspetti dei benefìci penitenziari e che è incentrata sulla storia delle persone e in ragione di questa si limita gravemente l'accesso a quel diritto alla rieducazione nella esecuzione della pena che la giurispruderza costituzionale ha affermato dover essere rispettato per tutti. E si può aggiungere che dovrebbe essere particolarmente accurato proprio per coloro che, attraverso una nuova carcerazione, strutturano la loro esclusione dalla società, e, proprio per questo, devono avere, come gli altri, occasioni di rieducazione e di inclusione sociale.
      Articolo 3, primo comma della Costituzione, principio di eguaglianza: violazione dello stesso nella nuova disciplina della prescrizione della normativa in questione. Non si deve pensare che, nel testo vigente del codice penale, sia un caso che l'istituto della prescrizione nel processo prescinda dalla distinzione fra le persone e le loro storie giudiziarie: conta solo la entità della pena e, nella determinazione di questa, la recidiva è rilevante come le altre aggravanti. Nella normativa in esame le aggravanti non contano, infatti da un lato c'è un nuovo calcolo della pena, nel quale le aggravanti non contano più (articolo 6, comma 1) e, dall'altro lato, c'è una aggiunta alla stessa pena, esclusivamente basata sulla storia delle persone: un quarto per i non recidivi e per i soli recidivi qualificati, due terzi per i recidivi qualificati, due terzi per i recidivi reiterati e il doppio nei casi di delinquenti abituali e professionali. E siccome il carcere è riservato essenzialmente a chi è ricaduto nel reato (e non una volta e per caso, come il recidivo semplice), per loro di prescrizione sarà difficile parlare (processi generalmente brevi e tempi di prescrizione più lunghi), mentre per gli altri la prescrizione è facilitata (come il recente dibattito sugli effetti della prescrizione nei processi in corso ha dimostrato). E allora: prescrizione facile per i forti dinanzi alla legge, prescrizione altamente improbabile per i deboli: articolo 3, primo comma, della Costituzione violato, come volevasi dimostrare.
      Articolo 3, secondo comma, della Costituzione: obbligo dello Stato di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Lo abbiamo visto nel parlare della violazione del terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione: con la normativa in questione ci sono, per i recidivi, poche le speranze di uscire dal carcere, mentre vi è la certezza di restarci a lungo, di essere allontanati dai processi di inclusione sociale e di vedere rafforzati i processi di esclusione, ovvero nessuna tolleranza per la criticità sociale. Può essere più puntuale la violazione del citato secondo comma dell'articolo 3?
      Chiarito allora che la normativa in questione segue la strada esattamente opposta a quella che si indica con la presente proposta di legge, la conclusione è inevitabile: occorre prevedere, nei tempi più rapidi possibili, l'abrogazione della legge 5 dicembre 2005, n. 251.

Parte quinta. Relazione sul titolo V: disposizioni transitorie e finali.

A. L'impiego delle risorse. Necessità e disponibilità.

      Si parte dal riferimento alle regole penitenziarie europee, enunciate il 5 novembre 2004 dal Comitato europeo per i problemi penali del Consiglio d'Europa. La regola numero 4 della parte prima, dedicata ai princìpi fondamentali, dispone: «Quando si decide di privare una persona della propria libertà, la mancanza di risorse non giustifica condizioni del carcere che violino i diritti umani riconosciuti da queste regole».

 

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      L'articolo 170 di questa proposta di legge è ispirato al principio che si è sopra riportato (in libera traduzione dal testo inglese). Si riporta il testo della norma della nostra proposta di legge: «Articolo 170. (Principio della non elusione del rispetto della legge per difetto di risorse economiche). 1. La violazione per difetto di risorse economiche dei diritti dei detenuti e degli internati in materia di condizioni di vita, di cura della salute, di svolgimento di una vita attiva e di finalizzazione della stessa alla risocializzazione, come riconosciuti dalla presente legge, non può essere addotta quale valida giustificazione alla elusione di tali diritti». Ciò che è stato enunciato nell'articolo è, da un lato, lo sviluppo, sul piano della legge ordinaria, dei princìpi costituzionali nella nostra materia, costantemente richiamati, e, dall'altro lato, il completamento della legge ordinaria vigente. Il rispetto del diritto alla salute per i reclusi, il rispetto del diritto ad una vita attiva e igienica, il rispetto del diritto al trattamento penitenziario e alla disponibilità degli elementi di questo, tutto ciò non è altro che lo sviluppo di indicazioni costituzionali già presenti nella legge n. 354 del 1975. E lo stesso dicasi per l'apparato organizzativo delle strutture penitenziarie, indispensabile affinché i diritti precedenti siano effettivamente rispettati. Questo rispetto discende dalla Costituzione e dalla legge ordinaria e la presente proposta di legge esplicita, definisce e precisa le modalità con cui quel doveroso rispetto diventa effettivo.
      Allora, il discorso è semplice: ciò che è doveroso per la Costituzione e per la legge deve trovare le risorse necessarie. Difendere il mancato rispetto della legge, assumendo che mancano le risorse per realizzarlo, non può essere consentito. Le risorse devono essere trovate. Non dobbiamo trascurare che il sistema penitenziario ha la responsabilità delle persone che gli sono state affidate, della loro vita, della loro salute, della loro rieducazione. Il mancato rispetto di questi beni individuali va addebitato ai responsabili del sistema, che devono reclamare tutto quanto necessario per evitare le loro eventuali omissioni e le responsabilità conseguenti.
      Ma ciò che deve essere aggiunto a questo principio è che le risorse ci sono. È pacifico che questa proposta di legge non si attua a costo zero, ma va chiarito che le risorse per pagarne il costo ci sono e sono quelle già indicate e mobilitate per realizzare linee di intervento opposte ed estremamente più costose.
      È pacifico che il costo di una politica di espansione della carcerazione è enormemente maggiore di quello della politica opposta, che qui si sostiene. Come si è accennato, il costo delle misure alternative era indicato, qualche anno fa, nella misura del 2 per cento del costo complessivo del sistema penitenziario. E gli ultimi rilievi statistici danno allo stesso livello numerico esecuzioni della pena in carcere ed esecuzioni della pena in misura alternativa. È vero che il carcere assolve anche il compito della detenzione cautelare, ma anche qui esiste una risposta non carceraria - gli arresti domiciliari - cui si potrebbe dare maggiore consistenza per la parte che riguarda la detenzione sociale e che, al solito, è largamente maggioritaria nel numero dei sottoposti a custodia cautelare. È vero anche che i centri di servizio sociale per adulti sono stati potenziati e hanno più operatori, ma va notato che il numero delle persone assunte negli anni recenti presso i centri è largamente inferiore a quello assunto sul versante della detenzione: se c'è stato un aumento di spesa sul versante dell'area penitenziaria esterna, l'aumento, sul versante di quella interna, è stato largamente maggiore. Così che, percentualmente, non si va molto lontani da quel 2 per cento, calcolato qualche anno fa, della spesa del sistema delle misure alternative rispetto a quello del carcere.
      Ora, le prospettive degli attuali responsabili della politica penitenziaria sono nel senso di un grande piano di aumento e di rinnovamento delle strutture edilizie. Si noti che, negli anni più recenti, ogni nuova apertura di istituto penitenziario è stata accompagnata dalla affannosa ricerca del personale per gestirlo e, sovente, è stata possibile solo attraverso nuove assunzioni.
 

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Aprire nuove carceri significa dilatare ancora il numero del personale, particolarmente della polizia penitenziaria, già a livelli numerici elevati. Le spese per questi due aspetti - nuove strutture edilizie più nuovo personale - si sommano. Si tratta di una politica di alti costi.
      Ma perché questa politica? Perché si vuole secondare la direttrice di crescita della detenzione sociale e, quindi, la dimensione dell'area detentiva. La politica in materia di immigrazione è su questa linea e, d'altronde, percentualmente, il numero dell'area della detenzione degli immigrati in carcere è in costante crescita. Ma si profila, su una linea ancora più esasperata, la politica in materia di contrasto alla tossicodipendenza attraverso un progetto di legge in discussione, il «progetto Fini», che recupera - parrebbe non in conformità alla Costituzione - la punizione dell'uso di stupefacenti contro l'esito abrogativo referendario del 1993. Siccome si parla qui di necessità di risorse economiche e di costi, ripetiamo il concetto già enunciato: si tratta di una politica di alti costi. E, si può aggiungere, di una politica di alti costi che segue una dinamica a spirale, di cui non si individua il limite finale. Notizie di stampa riferiscono che nello Stato della California, per attuare politiche penali analoghe, nel corso di un anno, sono state aperte una scuola e quattordici carceri. È facile la notazione che la dinamica di questa spirale abbatte la spesa sociale per esaltare quella penale, proprio nell'aspetto carcerario.
      L'abbandono di questa politica e la scelta di una politica opposta, l'arresto della politica di ricarcerazione, la stabilizzazione al ribasso dell'area carceraria, l'aumento dell'area delle misure alternative, determinano un circolo virtuoso della spesa penitenziaria e anche la conseguente possibilità di rilanciare la spesa sociale in un percorso che riporta «dal penale al sociale».
      Questo significa che le risorse già programmate (per la politica contraria) per l'aumento e il rinnovamento degli istituti penitenziari, nonché quelle conseguenti e connesse per l'aumento del personale, particolarmente di sicurezza, possono essere impiegate per sostenere i costi che questa proposta di legge indubbiamente presenta. E possono essere impiegate con notevolissime economie rispetto a quelle programmate per il percorso contrario.
      Dunque: la economia del sistema penitenziario che si propone - e che deriva anche da altri interventi legislativi che si sono ricordati a più riprese - passa attraverso:

          la diminuzione della penalità;

          la diminuzione, nell'ambito della penalità, dell'area della carcerazione, anche con un largo ricorso alla esecuzione penale esterna attraverso le misure alternative alla detenzione.

      Alla conclusione di queste considerazioni, si possono ripetere i due dati fondamentali.
      Il primo: la gestione della esecuzione penale in misura alternativa è straordinariamente più economica di quella in carcere.
      Il secondo: nella prospettiva tracciata nella presente proposta di legge si realizza anche un contenimento della stessa spesa del carcere. In primo luogo perché la riduzione dell'area della penalità (che deve derivare dagli altri interventi legislativi, di cui si è parlato nella premessa generale e nell'ultima parte della relazione al titolo IV), nonché l'ampliamento delle misure alternative devono comportare una riduzione della popolazione detenuta, che si deve riallineare ai valori della capienza effettiva degli istituti; e, ancora, l'aumento di vari ruoli diversi da quelli della polizia penitenziaria è, tutto sommato, piuttosto contenuto rispetto a quello progressivo che si realizzerebbe per la stessa polizia penitenziaria: di questo aumento si potrebbe verosimilmente fare a meno in quanto l'apporto degli altri ruoli e la liberazione degli agenti di polizia da funzioni ricoperte per assenza del personale specifico corrispondente lo renderebbe superfluo.
      L'articolo 171 della proposta di legge riassume attraverso apposite disposizioni

 

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la direttrice di intervento che si è sopra illustrata.

B. Definizione e copertura degli organici.

      L'articolo 172 è dedicato alle modalità di definizione e di copertura degli organici.
      Il dipartimento della amministrazione penitenziaria procede a tale definizione, applicando le indicazioni contenute nei vari articoli della proposta di legge, che vengono puntualmente richiamati nel citato articolo 172. Tale definizione deve avvenire in tempi brevi, raccogliendo le proposte dei provveditorati regionali, formulate attraverso la consultazione delle direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale per adulti.
      La copertura dei nuovi organici deve essere effettuata dai provveditorati regionali, che assumono un ruolo centrale in questa riorganizzazione della amministrazione penitenziaria, anche se le linee degli interventi sono sempre date dal dipartimento, osservate, ovviamente, le disposizioni della proposta di legge.
      L'articolo 173 prevede alcune procedure urgenti di assunzioni, sempre in sede regionale, sempre a cura dei provveditorati regionali e sempre in base alle indicazioni del dipartimento. Tali assunzioni urgenti concernono quei ruoli per i quali un primo potenziamento è indispensabile nei tempi più brevi.
      L'articolo 174 prevede l'assunzione con apposita convenzione del personale che deve assumere i particolari compiti che la norma indica, facendo riferimento ad altra norma della proposta di legge: si tratta del personale che deve organizzare quel sistema di lavoro in carcere che sia capace di provvedere a fornire a istituti, personale e reclusi, i servizi, l'arredamento, le attrezzature e il vestiario necessari.

C. Disposizioni conclusive.

      L'articolo 175 stabilisce che, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, sarà emanato il nuovo regolamento di attuazione.

      L'articolo 176 abroga la legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, in quanto la proposta di legge reca il nuovo ordinamento penitenziario. Reca l'abrogazione degli articoli 176 e 177 del codice penale, la cui materia è disciplinata dagli articoli 72 e 73 della proposta di legge. Abroga, infine, la legge 5 dicembre 2005, n. 251, cosiddetta «legge ex Cirielli».

*    *    *

      La presente proposta di legge, che abbiamo già presentato nella XIV legislatura, è stata redatta sulla base dell'elaborazione predisposta da un gruppo di lavoro composto da giuristi e da operatori penitenziari, coordinato dal dottor Alessandro Margara.

 

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